Iconomia / Al mercato delle immagini

2 Maggio 2020

Andreas Gursky, Amazon, 2016, Courtesy dell’artista e di Sprüth Magers © Andreas Gursky / ADAGP, 2019.

 

In alcuni scritti degli anni novanta, l’artista e teorico italiano Franco Vaccari s’interessava al valore iconico ed economico del codice a barre, “segno dei tempi” e scrittura codificata della “natura profonda dell’oggetto” che, inequivocabilmente identificato in ogni minima variazione, era così pronto a immettersi in un “circuito in cui […] muoversi, il più rapidamente possibile, opponendo la minima resistenza, fino ad arrivare al consumatore” (Scritti sul codice a barre, 1991). L’opacità del codice, l’accessibilità mediata delle informazioni celate in questo segno, ottico ed elettronico, “discreto” ma “inesorabile”, si opponeva e accompagnava lo “sfavillio delle superfici”, “l’enfasi spettacolare delle confezioni”. Opacizzando l’oggetto, il codice a barre rendeva visibile la sua appartenenza a un flusso, a una rete di scambi e di valori le cui regole, scriveva ancora Vaccari, sono rette da un principio di superconduttività: “in sostanza una circolazione senza attriti, senza ostacoli, senza dissipazione di energia; con essa si realizzerebbe una possibilità di movimento illimitato. Ma questo non rappresenta forse l’ideale della merce e dei capitali, non è il segno del potere?”. Tale superconduttività, una circolazione continua e senza attrito, caratterizza allora la vita delle immagini in un regime capitalista: quest’ultimo fornisce al dominio del visibile un modello di funzionamento, quello della “celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [senza tregua e senza pietà]”, scriveva Benjamin nell’oscuro e breve testo Il capitalismo come religione (1921). Il culto dell’immagine e quello del denaro convivono in un unico movimento, lo spirito del capitalismo è quello “che parla dall’ornamento delle banconote”, scrive ancora Benjamin in questo testo, prima di aggiungere il seguente promemoria: “Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati”. 

 

Nel suo testo Le supermarché du visible. Essai d’iconomie (2017), il filosofo e musicologo francese Peter Szendy ha parlato, a tal proposito, di iconomia (eikon, immagine + oikonomia, il buon governo, la buona gestione degli scambi): un'economia del visibile, cioè una riflessione sul valore economico e di scambio delle immagini, sulla loro circolazione in una dimensione mediale e estetica che si plasma su quella del mercato, che ne assume istanze e regole. Le supermarché des images, la mostra ora in corso al Museo del Jeu de Paume di Parigi, riprende gli assunti teorici del testo di Szendy, che di questo insolito supermercato è curatore insieme a Emmanuel Alloa e Marta Ponsa, e li articola in cinque sezioni: Stock, Materie prime, Lavoro, Valori e Scambi. Si potrebbe dire che le tantissime opere presentate, sessantasette per quarantotto artisti rappresentati, saturano la mostra, performando così il presupposto stesso dell’esposizione: “Ci sono così tante immagini. Tante e tante immagini. Il loro numero è immenso. La loro folla, il loro flusso è letteralmente incommensurabile”. Il principio alla base di Le supermarché des images appare quindi quanto mai semplice, tanto da sembrare un’ovvietà: viviamo in un mondo saturo d’immagini e ciascuno di noi contribuisce a quest’accumulazione, potenzialmente senza fine. Scambiando e consumando immagini, noi tutti produciamo e stocchiamo dati, percorriamo a grande velocità le “infrastrutture”, l’espressione è di Szendy, della visibilità: l’opera monumentale di Evan Roth, Since You Were Born (2019-2020), mette in scena questa saturazione, esponendo senza nessuna selezione o gerarchia tutte le immagini cache generate dalle ricerche che l’artista ha fatto on-line nei quattro mesi successivi alla nascita della sua seconda figlia. Su una parete colma di riferimenti visivi, volti e loghi condividono lo stesso spazio e lo stesso destino: sono memorie involontarie, residui del visibile che formano un ritratto “insieme personale e universale del XXI secolo”. 

 

Evan Roth, Since You Were Born, 2019 © Photo by Bob Self/The Florida Times-Union / Courtesy of MOCA, Jacksonville, Florida.


L’intero ambito del visibile quindi, sembrano suggerire ancora le opere di Geraldine Suarez – Gerry Images, 2014 e Storage, 2019 –, non sarebbe altro che un’inesauribile banca dati; o ancora, lo si potrebbe immaginare come l’immenso deposito di Amazon fotografato da Andreas Gursky (Amazon, 2016), dove la merce in attesa di essere spedita evoca la massa di pixel di cui si compone l’immagine, di grande formato e in alta definizione, ordinati in griglie e catene, in attesa di essere disaggregati e inoltrati, pronti a essere scambiati sul mercato delle immagini. 

 

Geraldine Juárez, Gerry Images, 2014, Courtesy dell'artista © Documentation images Philipp Ottendörfer.


 Szendy pensa questa luminosa e fantasmagorica sovrabbondanza nei termini, quindi, di un’infrastruttura, di una rete commerciale o stradale, capillare nella sua diffusione, capace di connettere tra loro territori remoti, di generare movimento perpetuo ma anche di nascondere sotto lo sfavillio importanti zone d’ombra, di occultare proprio attraverso l’eccesso di visibilità, poiché esistono più luoghi che strade, come dice Rodari in una bella fiaba e non tutti sono raggiungibili seguendo le vie più battute. Ecco allora che si profilano inediti, invisibili paesaggi, nuovi milieu non abitabili e non visibili dall’uomo, immagini non prodotte dai nostri occhi in carne ed ossa, né a loro destinate: la visione non è più solo affare di luce e retina, ma anche di ombra e algoritmi (Trevor Paglen, Shoshone Falls, Hough Transform; Haar, 2017), di cavi che percorrono gli abissi del visibile e, molto concretamente, dei nostri mari (Paglen, NSA-Tapped Undersea Cables, North Pacific Ocean, 2016), trasportando, osserva Paglen, il 99% delle nostre informazioni e comunicazioni. 

 

Parafrasando Michel Foucault si potrebbe qui dire che anche la non-visibilità è una trappola, nella misura in cui in questi interstizi, angoli apparentemente morti, si producono operazioni massicce di sorveglianza e di controllo. Se i dati sembrano smaterializzarsi, non si può dire lo stesso delle infrastrutture che li fanno circolare: più che rarefarsi in una nuvola, Internet percorre i nostri mari, innerva la superficie del globo. L’idea d’innervazione, che Szendy riprende da Benjamin, è centrale e può rappresentare, per il visitatore della mostra, il filo da seguire per non lasciarsi sopraffare dalla fantasmagoria qui messa in scena. Questa innervazione traduce in fondo la voracità e la velocità del “traffico iconico”, l’idea che il visibile sia un flusso costante e costantemente generato dalla circolazione delle immagini, un traffico che genera contatto e che conferisce allo spazio e al tempo nuove coordinate. La nozione di innervazione è, infatti, reinterpretata da Szendy come “apertura delle vie dello sguardo” all'interno della stessa visibilità, un circuito in cui gli sguardi circolano tanto quanto le immagini (Julien Prévieux, Patterns of Life, 2015). Gli algoritmi di trading “dissidenti”, “eretici e irrazionali” di ADM XI, 2015, opera del collettivo RYBN.ORG, raccolgono in pieno l’idea benjaminiana di un’innervazione che opera secondo una contaminazione di tecnico e organico. L’andamento dei grafici non corrisponde, infatti, a quello dei profitti, ma è determinato e animato da variazioni dettate da organismi viventi – vegetali, batteri – o regolato da leggi astronomiche, ambientali o ancora da formule matematiche esoteriche. 

 

RYBN.ORG, ADM XI, 2015. Vue de l''installation, Festival Gamerz, Fondation Vasarely, Aix-en-Provence, 2016 © RYBN.ORG, Photo Luce Moreau.


La “circolazione iconica universale”, sia essa visibile o sottotraccia, innerva e disegna una nuova geografia dello sguardo poiché, scrive Szendy, “l'iconomia a venire sarà una geopolitica delle immagini”, che introduce temporalità eterogenee e velocità disparate. Alla dimensione dello choc, l’istantaneo apparire dell’immagine fotografica alla fine del XIX secolo descritto da Benjamin, si aggiungono infatti – come modi dell’apparizione, della fruizione e della circolazione delle immagini – quella del flusso, come osserva Maurizio Lazzarato nel testo Après le cinéma, pubblicato nel ricco catalogo della mostra, e quella del clic, come mostra l’installazione video di Martin Le Chevallier, Clickworkers, (2017), presentata nella sezione dedicata al Lavoro. Qui, il tema dell’invisibilità diventa centrale; la performance e il gesto che producono valore e scambio (Harun Farocki & Antje Ehmann, Eine Einstellung zur Arbeit, 2011) oscillano tra materialità e immaterialità, prossimità o distanza, manipolazione o sguardo operante che ricompone i puzzle CAPTCHA (Aram Bartholl, Are You Human?, 2017). 

 

Aram Bartholl, Are You Human ?, 2017, Courtesy dell’artista. Vue d'exposition au Kallmann Museum, Ismaning. © Aram Bartholl.


L’ipervisibilità del denaro gli fa poi eco nella sezione Valori, dove gli sguardi concupiscenti registrati da Sophie Calle (Cash Machine, 1991-2003 e Unfinished, 2003) si accompagnano alle mani che toccano e intascano banconote del trailer del film Argent (1983) di Robert Bresson; o ancora alle banconote che si moltiplicano nel dispositivo ottico realizzato da Wilfredo Prieto, One Million Dollars, 2002, in cui un biglietto da un dollaro inserito tra due specchi si riflette un milione di volte. In questa sezione, fa irruzione quindi il secondo importante riferimento teorico di Szendy. Dopo Benjamin, è a Gilles Deleuze e alla sua immagine-tempo (Cinéma 2. L’image-temps, 1985) che il filosofo curatore si rivolge per pensare il denaro come il rovescio delle immagini: il cinema è tempo e il tempo è denaro; il visibile, l’icona, il film, è lato trasparente, scrive Deleuze, la moneta, il suo valore di scambio, è l’elemento opacizzante.

Le immagini quindi, dice Szendy immettendo Benjamin e Deleuze in un unico movimento di pensiero, non sono la rappresentazione del mondo, ma ne sono la trama, la materia prima, il movimento. Il visibile che esse producono e occultano è quindi materia, stoffa del reale: codificato, opacizzato, manipolato, archiviato o scomposto in porzioni, moduli, dati e numeri, pixel (Victor Vasarely, Arlequin, 1935; Taysir Batniji, Disruptions, 2015-2017) ingrandito ed espanso (Thomas Ruff, Substrat 8 II, 2002). Nel video Adressability, 2011 di Jeff Guess vediamo proprio dei pixel – unità minima dell'immagine digitale e elemento che fornisce la misura della sua risoluzione, del suo valore referenziale rispetto alla realtà, dello scambio tra immagine e mondo – che si aggregano nel cosmo, fino al cruciale momento in cui, per costituire un’immagine, si combinano per renderla visibile. 

 

Jeff Guess, Addressability, 2011, Courtesy dell’artista © Jeff Guess.


Distrutte le brume dell’aura, rifiutata la posizione contemplativa dello spettatore – sempre più prossimo alle immagini di cui diviene produttore, consumatore, aptico fruitore – l’occhio macchinico conduceva un tempo l’occhio umano verso dimensioni del visibile ancora inesplorate; anzi le creava, strappando a colpi di flash il velo auratico e potenziando le possibilità percettive dell’uomo, sottoponendo “il sensorio […] a un training di ordine complesso” (Benjamin, Su alcuni motivi in Baudelaire). Oggi siamo già oltre la soglia di un altro cambiamento epocale. Il sensorio umano si prolunga, innervandosi nelle tecniche di produzione e riproduzione del visibile, si sviluppa e si avviluppa nella valanga d’immagini che produce e subisce, incontra altre e non umane percezioni, nuove forme di visione. “Non guardiamo più le immagini – le immagini guardano noi. Esse non rappresentano più semplicemente le cose, ma intervengono attivamente nella vita quotidiana. Dobbiamo cominciare a capire questi cambiamenti se vogliamo sfidare le eccezionali forme di potere che fluiscono attraverso la cultura visiva invisibile in cui ci troviamo immersi.” (Trevor Paglen, Invisible Images (Your Pictures Are Looking at You).

 

In questo testo, scritto prima dell’esplosione della crisi sanitaria in Europa e nel mondo, e nella mostra che esso vuole commentare, è questione di vita delle immagini, intesa come circolazione senza freni e inibizioni, del loro destino come accumulazione, della loro capacità di comporre il visibile per infrastrutture, secondo un regime scopico che ricalcava il regime economico capitalista. Molte delle questioni che la mostra sollevava appartengono a un mondo pre-pandemia. Il modello economico, sociale, ambientale che ha concorso in larga parte alla propagazione del virus e che ora è congelato nei lockdown che hanno coinvolto in sequenza quasi tutti i paesi del mondo, forse si è esaurito e quel peculiare modo di esistenza delle immagini è stato probabilmente messo fuori gioco. Le immagini però continuano a circolare, più che mai: adesso affidiamo loro larga parte delle nostre interazioni con l’esterno, giudiziosamente messo alla «giusta distanza». Siamo di volta in volta audience, spettatori attenti e angosciati, interlocutori in webcam, interfacce fatte di pixel e interferenze, riempiamo i vasti spazi lasciati vuoti dalla vita di una volta con fotografie di luoghi privati, li invadiamo con meme e gif per alleviare la solitudine e allentare la tensione. Alla rarefazione della vita non corrisponde una rarefazione della produzione iconica. Tutto questo costituirà presto un nuovo atlante della memoria del tempo che stiamo vivendo. Quali nuovi tracciati le immagini dovranno seguire, quale nuovo commercio col mondo potranno praticare?

 

Le supermarché des images. Stocks, Matières Premières, Travail, Valeurs, Echanges. Curata da Peter Szendy, Emmanuel Alloa, Marta Ponsa. Jeu de Paume, Paris, 11/02-07/06/2020. 

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