Citare significa incontrarsi / Eugenio Borgna. Per un’etica di parola

15 Febbraio 2017

Trema, la mano che regge la fiaccola, lo sguardo è incerto, ma poi il corpo si sposta e la fiamma si accende: mezzo mondo esulta quando Muhammad Ali riesce a concludere il gesto. Che segna l’inizio, nel 1996, delle Olimpiadi di Atlanta. L’atleta invincibile, trasformato dalla malattia, appare un’icona della fragilità. A pochi mesi dalla morte, nei filmati che in questi giorni lo ricordano, commuove. Perché proprio lo sport è quella palestra di vita dove, repentinamente, la forza cede il passo alla debolezza. E il corpo denuncia l’inesorabile vulnerabilità.

Sono immagini come queste che viene da associare alla scrittura vibrante di Eugenio Borgna che, ancora una volta, riparte proprio da qui, da questa fragilità irriducibile dello stare al mondo, per continuare a comporre la sua personalissima fenomenologia. Inizia, infatti, con un inno al lato debole dell’umano la sua ultima raccolta, Le parole che ci salvano (Einaudi, 2017), dove riunisce, con una nuova prefazione, i tre testi recenti: La fragilità che è in noi, Parlarsi, Responsabilità e speranza

 

Borgna vuole ricordare l’ispirazione della sua ricerca, la sua origine nel contatto con la malattia e il male nell’esperienza di psichiatra all’Ospedale Maggiore di Novara. E ci tiene a ribadire il suo credo in una psichiatria come scienza umana interessata all’unicità del singolo, alla sua interiorità. Lontana da un pensiero gelidamente astratto, in relazione con un pensiero emozionale, dove, leopardianamente, la ragione si converte in passione. Una psichiatria fenomenologica, come quella di Binswanger e di Minkowski, nutrita di filosofia e di poesia, che non disdegna il confronto con le sue radici neurobiologiche, rimanendo però convinta del potere curativo e salvifico della parola. 

È con questa visione che l’autore insegue i significati di quella che considera la “struttura portante, Leitmotiv, dell’esistenza, dei suoi dilemmi e delle sue attese, delle sue speranze e delle sue ferite”. “La linea della fragilità come una linea oscillante e zigzagante”, dove distinguere “la fragilità come grazia, (…) nocciolo tematico di esperienze fondamentali di ogni età della vita, dalla fragilità come ombra, come notte oscura dell’anima, che incrina le relazioni umane e le rende intermittenti e precarie”. 

 

Capace di produrre profondi stati d’angoscia, la sensazione di fragilità accompagna le nostre vite, eppure risulta impossibile riuscire a vivere senza, rinunciare al dramma che rende ricca e significativa l’esistenza. La gentilezza e la tenerezza, la delicatezza e la sensitività, la mansuetudine e l’innocenza, la modestia e la mitezza compongono un repertorio affettivo che, pare suggerirci Borgna, non evoca un remoto piccolo mondo antico, ma è qualcosa che oggi può valorizzare la nostra comunicazione, veloce e superficiale − in fuga dall’ascolto, spesso incapace di entrare in contatto con la parte della società “degli umiliati e offesi”, con l’umanità ferita. Siamo poco allenati a vivere la comunità e la solidarietà capaci di produrre vicinanza. 

 

La debolezza non è di per sé patologica, avverte Borgna, e qui sintetizza e prosegue la riflessione avviata molti anni fa nel suo testo fondamentale, Malinconia. Intanto la depressione è diventata oggi un termine passepartout, quasi non lo si può più usare. Perché evoca condizioni molto diverse, che vanno dalla perdita di un lavoro a un lutto, mentre, nei ritmi cocainomani della quotidianità metropolitana, la si confonde con la stanchezza. Abituati a funzionare con le luci sempre accese, al primo tremolio tutti ci si chiede: mica sarò depresso? 

 

Ph Rafael Navarro. 

 

Allora, suggerisce Borgna, proviamo a distinguere un’emozione, uno stato d’animo, da uno stato patologico. Dunque, la tristezza normale, la tristezza-stato d’animo, dalla tristezza-malattia, che provoca una depressione che può assumere una dimensione clinica e psicopatologica.

Il nostro equilibrio è a rischio durante i passaggi tra le diverse età della vita, la sensazione di precarietà cresce quando si manifesta una malattia, l’indebolimento accompagna la condizione anziana. Ma è l’età incerta dell’adolescenza la trasformazione più perigliosa, in cui capita di “incorrere in una possibile crisi psicotica”. E, soprattutto, accade di non essere capiti da scuola e famiglia. Quando si “rinuncia alla rilettura emozionale dei comportamenti e degli avvenimenti. Ne conseguono ovviamente sbagliate interpretazioni di défaillances scolastiche che non sono capite nelle loro cause psicologiche, e che sono facilmente ricondotte a disinteresse e negligenza”. Difficile non pensare a recenti casi di cronaca. 

Nella riflessione dell’autore, la donna occupa un posto particolare, perché “La coscienza della fragilità del corpo, del corpo vivente e del corpo fisico, è senz’altro più profonda nella donna che nell’uomo. In lei, certo, il corpo ha una significazione psicologica e sociale di più radicale importanza: benché, oggi, siano ben altre le qualità umane e spirituali che contrassegnano l’immagine sociale della donna”. E anche per questo la depressione femminile appare all’autore caratterizzata da un’espressione emozionale e linguistica più caleidoscopica di quella maschile. 

 

Borgna non lo afferma con questa nettezza, forse, ma da queste sue considerazioni si potrebbe partire per indagare il bisogno, a volte inesausto, decisamente più femminile che maschile, di parole, di parole dette, di parole immaginate e rimuginate. 

E i suoi testi continuano a sottolineare la pregnanza di ogni singola parola, della parola capace di essere farmaco, a contatto con l’indicibile del dolore e l’invisibile della follia, di parole che curano e cambiano la vita. 

Proprio questo avvicina a quanto accade nella stanza d’analisi, un luogo linguistico, dove è possibile un rapporto intimo e ininterrotto con le parole, di parole che toccano, per cercare di sostituire la parola che fa male con la parola che fa bene. In un’intervista, (in la Repubblica del 26/5/2014), alla domanda su quale rapporto ha con la psicoanalisi, Borgna risponde: "Nessuno in particolare. È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la schizofrenia".

Eppure sono diversi, anche tra gli psicoanalisti contemporanei, gli autori molto vicini a un’idea di clinica poetica. Bollas, per esempio, ma soprattutto Ogden crede in una clinica attenta alla musica di ciò che accade nella relazione analitica, cerca la forma che possa rendere – non riprodurre – l’irriducibile, l’unicum dell’incontro intersoggettivo che accade in ogni seduta, qualcosa che il tradizionale linguaggio psicoanalitico, costretto alla logica dell’interpretazione, non riesce a esprimere. Spesso è proprio la poesia a riuscire nell’impresa di tradurre la ricchezza e la complessità, a esprimere il mistero di quella particolare situazione umana. Nei suoi gruppi di formazione Ogden invita a leggere poesie e racconti per farsi l’orecchio, una pratica che prepara all’ascolto. 

 

Per Borgna, nel nostro mondo della distrazione e della chiacchiera, andare verso “una comunicazione ritrovata” significa incontrare il silenzio, la solitudine, rimanere “lontani dall’incantamento per il digitale”. Perché la parola chiama sempre a una responsabilità, tanto più grande quando il volto che si ha di fronte è quello del malato, del malato oncologico, che scruta il volto del medico. Lì la cura della parola, in bilico tra il dire e il non dire, è tanto più necessaria. 

Non teme di spingersi ancora oltre, verso una speranza di senso ancora misteriosamente presente anche nei momenti che precedono la morte volontaria. 

Come i suoi numerosi lettori ormai sanno, leggere i libri di Borgna vuole dire ricevere il dono dell’incontro con i suoi compagni e amici stellari: filosofi (da Pascal a Nietzsche), poeti (da Emily Dickinson ad Antonia Pozzi), mistiche religiose (da Teresa di Lisieux a Teresa di Calcutta), mistiche laiche (da Etty Hillesum a Simone Weil), scrittori (da Woolf a Bernanos). Le tante altre pagine che hanno sostenuto le sue. Torce che orientano, illuminano il percorso secondo l’aforisma di Cortázar, a cui piaceva dire: Citare significa incontrarsi.

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