Fiele elettorale
Ci sono poi state tante altre occasioni, non le ricordo neppure tutte. In una delle ultime, ho lasciato il divano da cui seguivo la diretta elettorale per scendere dal tabaccaio ad acquistare il primo pacchetto di sigarette, dopo tre anni e mezzo di astinenza. In Italia il pattern è sempre quello: sondaggi favorevoli, exit poll incoraggianti, prime proiezioni senza problemi e poi qualche dato non in linea, correzioni degli statistici, sorrisi beffardi degli avversari, sino al bicchiere di fiele dei risultati definitivi. La volta delle sigarette ho anche pensato che avrei dovuto cambiare qualcosa nella mia vita e la prima idea che concepii fu quella di prendermi un cane. Non so perché ma forse immaginavo una sorta di pet therapy. La routine del guinzaglio, dei giri al parco, dei sacchetti per le deiezioni mi avrebbe costretto a convincermi dell’evidenza: la politica non fa per me neppure da elettore informato ma passivo. Non me ne verrà mai nulla di buono, perché le mie convinzioni più profonde non hanno una base razionale bensì emotiva e quarant’anni di lettura accanita di quotidiani, di aggiornamento continuo nelle forme e sedi più qualificate, di discussioni con gli interlocutori più variegati, non sono bastati ad allontanarmi a sufficienza dagli empiti più idealistici della mia seriosa adolescenza.
Il cane poi non l’ho preso, e la vita è proseguita più o meno nei modi di sempre. Con qualche callo e qualche indifferenza in più, certo, a mano a mano che si accumulavano le esperienze. La mia città ha eletto sindaci come Mario Formentini (e non fu neppure malaccio), Gabriele Albertini (che oggi appoggia, e fruttuosamente, il governo per cui mi dicono che avrei votato io), Letizia Moratti. La mia regione, non parliamone neppure. Lo stato centrale, lo sappiamo – ma lì l’ignominia vera, ancor più che nelle elezioni andate male, fu nell’esito finale di quelle andate bene. Poi ci sono stati i Bush, Chirac, Sarkozy, la Brexit... Il fiele ha continuato a non piacermi, ma l’urto del suo sapore ripugnante è giunto ogni volta meno forte.
Ogni volta sono tornato con la memoria al trauma originale, la scena primaria della mia disillusione politica. Era l’autunno del 1980 e, dopo un tentativo fallito quattro anni prima, Ronald Reagan aveva vinto le elezioni presidenziali statunitensi. L’immagine che me ne era arrivata era quella di una sorta di pazzo guerrafondaio, alternata a quella di un’idiota e buffone manovrato da oscurissime forze del tutto contrarie a tutto ciò che io potessi sperare per il mondo. Nella cornice, i toni cupi della Guerra Fredda, la valigetta dei codici nucleari, gli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran. Avevo già visto Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick (avevo addirittura anche letto il libro) e adesso fra quel film e Tutti gli uomini del Presidente quello fantascientifico mi pareva il secondo.
Il mio ricordo è vago ma si situa con certezza sul filobus che la mattina mi portava al liceo. Ci avevo incontrato una compagna delle medie, che era affranta e terrorizzata dalla notizia, non per sé ma per il mondo. A me, in quel momento, parve che esagerasse: non perché non ritenessi gravissima la circostanza, ma perché la razione di fiele che avevo assunto alla notizia «Reagan presidente» mi portava a pensare che il vero danno, il potenziale pernicioso e tossico, non stava in come sarebbe cambiato il mondo ma in come sarei cambiato io, come saremmo cambiati noi, di fronte all’increscioso e all’incredibile.
Oggi, 9 novembre 2016, ho assunto un’altra razione di fiele. Mi ero coricato presto, senza neppure accendere la televisione. In un fugace risveglio ho letto qualche notizia un po’ meno ottimistica su Hillary Clinton di quanto avrei voluto, ma ho ripreso sonno senza esitazioni. Quando mi sono svegliato definitivamente ho letto il post di una cara amica che più o meno diceva: «Non capisco chi ha potuto dormire senza seguire le dirette elettorali». Io non ho fatto alcuno sforzo, invece, per evitarmi le tiritere delle opinioni precoci, il tifo insensato dei commentatori italiani, i sorrisi trionfali di chi l’aveva sempre saputo che finiva così. Dopo una notte di riposo, il fiele è meno amaro di quello che si assume senza aver dormito.
Oggi penso che più di me avesse avuto ragione la mia remota amica del filobus: la preoccupazione per il mondo doveva essere prevalente, visto che per noi stessi qualcosa avremmo sempre potuto fare. Per esempio, prendere un cane. Invece il mondo ha logiche rispetto alle quali ogni nostra pulsione di attivismo, partecipazione, passione vera e propria non pare avere alcuna reale incidenza. Sul nostro trepidare per i sorrisi di Barack Obama cadono i pietroni dell’Ohio; residue speranze sul Michigan e chissà poi la Pennsylvania...
Eppure, e sempre sperando di non sentire passare i caccia sulla mia testa, non riesco a essere davvero preoccupato di nulla quanto dell’effetto che subisco personalmente. Ma davvero spero ancora di vivere una qualche forma di armonia fra me e il mondo? Mi aspetto ancora qualcosa dall’uno e dall’altro? Sono ancora a quel punto?
Lo sforzo che avevo fatto, ancora prima di prendere quel filobus nel 1980, perché la mia giovinezza fosse pensierosa fu infinitamente minore di quello che faccio ora, per procurarmi un’anzianità spensierata. Sarebbe stato saggio fare in modo che quella prima disillusione fosse definitiva, una botta e via, per sempre. Mi è riuscito per altri traumi, da cui ho elaborato vittoriosamente il mio «Mai più! Nevermore! ¡Nunca más!». In questo caso ho invece indugiato e l’evento della disillusione è diventato un processo interminabile, con poche interruzioni (e, quelle sì, solo momentanee). In tutto questo tempo non ho saputo fare altro che attenuare l’offesa ripugnante del fiele. Non saprei neppure dire se sono io che riesco a diluirlo prima di assumerlo o se è il mio organismo che fa caso sempre meno ai caratteri sensibili della sua tossicità.