Galleria Raffaella Cortese / Franco Vimercati. Tête à tête con la zuppiera

4 Novembre 2020

Una zuppiera è una zuppiera è una zuppiera potrebbe essere il titolo di una delle più famose serie fotografiche di Franco Vimercati. Il fotografo ed artista milanese la realizza dal 1983 al 1992. Per dieci anni non fa altro che inquadrare questo oggetto e riprenderlo in molti modi diversi: a fuoco, sfuocata, grande quanto il formato della foto, più piccola, che emerge da un uniforme sfondo nero, ruotata sul proprio asse a differenti gradazioni, riassorbita dal bianco dello sfondo. È una piccola zuppiera sbrecciata e consunta dall’uso; la forma arrotondata e la patina opaca la rendono un oggetto immediatamente familiare, quasi legato alla terra, alla civiltà agricola, ricorda il fotografo. 


La serie di circa cento scatti scatena immagini ipnotiche la cui potenza attrattiva non è affatto facile da spiegare. Sono semplici, consuete, ordinarie, eppure l’intelligenza visiva di Vimercati riesce a farne un racconto adatto per tutti gli sguardi, anche per quelli più distratti e incapaci di concentrazione. È come se dicesse: “io so chi si nasconde dietro il tuo volto, conosco la tua frenesia; so come sei frettoloso, come pretendi di comprendere ogni cosa e come sei insofferente all’attesa. Io ti dimostrerò che ciò che ti sembra un inutile spreco di tempo può dischiuderti una possibilità, che potrebbe non essere semplice, né tantomeno confortante”. 

 

Un primo aspetto da considerare è la precisione. Il campo dell’inquadratura si restringe in modo che l’assoluta pulizia dei dettagli restituisca la composizione dei materiali, il sapiente uso delle linee e delle geometrie. Ma l’esattezza non coincide con la verità. Sembra che questi oggetti non possano essere attraversati dallo sguardo, concedono solo di essere osservati. Sono pura esteriorità, significativi in quanto espressione di puro segno, ipotetici ed incerti inneschi per altre ipotesi di pensiero. Il fotografo esalta l’esattezza come una qualità da ammirare e non come veicolo di una verità alla quale non ambisce. 

 

Un altro aspetto è la frontalità. Zuppiere, vasi, orologi sono ripresi frontalmente. Come suggerisce Olivier Lugon, la frontalità si dimostra un segno, più che uno strumento per documentare: “veicola meno informazioni di altri tipi di inquadratura, ma tende ad assumere lo statuto di immagine-tipo, che renderebbe superflue le altre; restituirebbe l’immagine indicativa dell’oggetto, che le riassume e le annulla tutte”. Perché allora in Vimercati la frontalità e la precisione non sono sinonimi di chiarezza e leggibilità? 

I suoi oggetti sono come segni di un alfabeto non ancora decifrato. Viene quindi da chiedersi per quale ragione la forma fotografica di Vimercati, quasi uno strumento d’archivio, un approccio il più possibile meccanico, riesca ad assumere una forma d’arte.

 

Franco Vimercati, Senza titolo (Zuppiera), 1991 gelatin silver print 17.7 x 22.5 Ed. 6 + 3 AP Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La risposta forse sta in un terzo elemento, la serialità. Marco Scotini, il curatore della mostra in corso alla galleria di Raffaella Cortese a Milano, nel saggio introduttivo al catalogo riporta un appunto a penna di Vimercati dell’agosto 1991: “il vero ‘contenuto’ del mio lavoro è la ripetizione. La ripetizione ostinata, cattiva o assente, malinconica o violenta, ma solo e sempre ripetizione. In ogni caso, il non voler dare spettacolo, il non essere accomodante, grazioso, ragionevole. Il non voler proporre quesiti intelligenti, raffinati esercizi di stile. Cerco di essere il più semplice possibile proprio perché la protesta sia il più efficace possibile. Deve essere secca e penetrante come un chiodo senza dispersione di nessun genere”. 

Questo appunto autografo spiega come la serialità sia divenuta una qualità autonoma, qualcosa di più e di diverso della sommatoria dei singoli oggetti. Se l’oggetto è sinonimo di concentrazione, la serie rimanda all’idea di accumulo, dà forma a una struttura, un ordine, una direzione, oltrepassa peso e volume, è metafisica. 

 

L’attenzione si sposta dal risultato per focalizzarsi sul processo. La ripetizione rende lo stesso oggetto via via più misterioso e più denso di significati; l’immagine interroga se stessa e lo stesso mezzo espressivo. La coazione a ripetere induce una tensione: cosa vuole dire Vimercati? E l’identità dell’oggetto, inoltre, la famosa zuppiera, ad esempio, è così dettagliatamente zuppiera che davvero dev’essere una zuppiera? Cosa vuol dire, poi, davvero

 

La risposta si può trovare in un’altra sua serie intitolata Un minuto di fotografia, realizzata nel 1974. Le lancette di una sveglia segnano le 2:46. Vimercati ripropone lo stesso scatto ogni cinque secondi, tredici volte, per un minuto di tempo. 

Se nella serie delle Trentasei bottiglie d’acqua minerale del 1975 c’era una traccia del mondo esterno, riflesso sul vetro, nel caso della sveglia tutto è condotto all’estremo. Vimercati giunge per sottrazione all’essenza del suo lavoro: la forma del tempo. E se un orologio fermo suscita una storia, nel senso che spinge a chiedersi perché si è fermato, cosa è accaduto prima che si fermasse, cosa potrebbe accadere se dovesse ripartire, un semplice minuto di tempo nega la possibilità del racconto, perché costringe alla meccanica osservazione della pura dimensione temporale. 

 

Ma il tempo non è sinonimo di storia. Non può esistere una fotografia di documento perché non esiste una realtà che valga la pena di essere documentata. Vimercati ha visto abbastanza del vecchio ordine. In una intervista a Elio Grazioli, la sua visione della storia trasmuta in un minimale programma politico-esistenziale: “bisogna resistere ad Auschwitz, al nucleare e alla Nike: questo è il problema. Tenere il motore acceso anche se al minimo. A questo punto cosa racconti è nettamente secondario, ciò che conta è esserci, cioè fare. Faccio una fotografia solo per poterci “lavorare” per dire “ci sono”.” 

A suo modo, ha rimesso tutto in discussione, ha ricominciato di nuovo. Le sole persone che Vimercati ha fotografato nel 1973 sono coloro che abitavano in un paesino della Langa dove andava in vacanza con la famiglia. La figura umana scompare completamente dal suo orizzonte.

 

Franco Vimercati, Vaso (o Le Temps retrouvé), 1982 Series of 6 photographs, gelatin silver prints 26 x 26 cm (each) Ed. 12 + 3 AP Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La casa diviene l’unico luogo abitabile, uno spazio chiuso colmo di forme senza alcun contenuto introspettivo, commemorativo o esortativo. Uno spazio chiuso in cui anche il tempo è denso e sospeso, incombente e ingombrante, proprio come lo spazio, che ha la forma seriale degli oggetti domestici. 

 

Si può solo contemplare, immergersi in un tempo che ha perduto insieme alla linearità qualsiasi forma di trascendenza. Un minuto di fotografia equivale a dieci anni in cui ci si può concedere di fotografare una zuppiera. 

Il fotografo non va in cerca di imprevisti o rivelazioni. I suoi oggetti stanno fra il ready-made e l’object trouvé. Egli sta di fronte al proprio mondo domestico e il mondo sta di fronte a lui, si tratta solo di verificare la consistenza visiva dell’oggetto. Né esperienza, né memoria storica. Il passato e il futuro sono coniugati al presente, affinché all’orizzonte non possa comparire mai alcuna delusione.


Solo la continuità disinteressata della contemplazione restituisce il senso dell’apparente immobilità del tempo e insieme del suo trascorrere. “La contemplazione è dare attenzione a qualche cosa, nel lavoro tu devi dare attenzione a quello che fai, devi misurare la temperatura dello sviluppo, l’intensità della luce, l’annerimento di una superficie, eccetera. Non è semplice stampare una fotografia. Se sviluppi un minuto di più, cambia… il sapore, cambia di senso. Occorre un’attenzione, una contemplazione anche nell’operare”, afferma Vimercati.

 

Una serie di gesti che coincidono con il tempo dell’esecuzione, che è l’unica cosa che conta, come in 4’33’’ di John Cage. E per Vimercati il tempo dell’esecuzione è quello della fotografia. Contemplare il tempo significa esplorare le potenzialità del medium, poiché la fotografia non è rappresentazione del mondo, ma riflessione sul proprio linguaggio, come accade con le Capovolte (1995-1997). Si tratta di oggetti che nel fotogramma appaiono rovesciati: un frullatore, una moka, una bottiglia, una grattugia.

Le immagini si proiettano sul fondo della macchina fotografica esattamente come si proiettano capovolte sulla retina dell’occhio umano. Vimercati arresta il processo prima di farle apparire dritte e mostra il puro fenomeno del formarsi dell’immagine. 

 

Franco Vimercati, Senza titolo (Piastrelle), 1975-2020 Series of 6 photographs, gelatin silver prints 27.5 x 27.5 cm (each) Ed. 6 Courtesy Archivio Franco Vimercati, Milano e Galleria Raffaella Cortese, Milano; © Eredi Franco Vimercati.


La traiettoria creativa di Vimercati, scrive Stefano Chiodi, “ha coinciso con l’affermazione della fotografia come mezzo artistico, in particolare nelle pratiche dell’arte concettuale tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. In quel contesto la fotografia diviene uno strumento essenziale per scandagliare il rapporto tra rappresentazione e mondo visibile, per evidenziare caratteri, potenziali latenti”. 

 

Così avviene anche per gli artisti amati dal fotografo: Robert Ryman, Sol LeWitt, Enrico Castellani. In loro Vimercati ammira il saper ridurre la pittura al far pittura, la precisione di un’idea acuita al massimo, perfetta, che può essere ripetuta all’infinito senza correre il rischio di trasformarla in banalità. 

 

Anche la passione per l’arte islamica, afigurativa, è un modo per celebrare la forma che da sempre predilige: “un lavoro che ormai non ha più connotazioni temporali, ma si estende all’eterno, all’infinito; questi disegni sono limitati per forza dallo spazio, ma tendenzialmente vanno verso l’infinito, non hanno la finitezza”, afferma Vimercati. Sembra l’eco montaliano di Quasi una fantasia

 

Penso ad un giorno d’incantesimo 

e delle giostre d’ore troppo uguali 

mi ripago.

 

Mostra: Franco Vimercati, Un minuto, a cura di Marco Scotini. Galleria Raffaella Cortese, Milano dal 30 settembre al 5 dicembre.

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