Gian Paolo Guerini, Passim

12 Aprile 2012

“Percepire ciò che si ode vuol dire avere la visione, attenersi al silenzio vuol dire essere forti” (GPG)

 

Nel 1990 la Fondazione Mudima di Milano, ospitava una mostra curata da Gino di Maggio dal titolo Pianofortissimo. Il tema si riferiva alla complessa elaborazione che molti artisti, all’epoca ancora vivi, avevano fatto dell’oggetto pianoforte. Artisti che, a partire da questo strumento scultoreo e in particolare da ciò che esso produce, hanno tratto ispirazione per produrre una quantità infinita di magnetismi, rivoluzioni, istigazioni e opere. Parlo ad esempio di: John Cage, La Monte Young, Wolf Vostell, Giuseppe Chiari, Nam June Paik, Daniel Spoerri e molti altri.

 

 

La mostra consisteva in un complesso allestimento, all’interno del quale furono realizzate delle performance. Una di queste portava il titolo di Zero ed era firmata da GPG: l’impossibilità di suonare se non lacerandosi definitivamente le dita!

 

 

Adesso apriremo una parentesi, che non sarà breve, perché stiamo parlando di un artista e di un uomo che ha una storia molto lunga da raccontare. Intanto dove lo collochiamo fisicamente?

 

A Bologna, sono quindici anni che vive lì.

Ma da dove viene? Nasce a Crema, alla fine degli anni ’50, ma ha vissuto ovunque.

GPG è quel genere di artista che non avevo mai incontrato fino ad oggi, ma che avrei sempre desiderato conoscere.

È un poeta espanso, uno scrittore “in senso ampio”, dall’orgoglio forsennato.

 

 

Negli anni settanta vive a Bergamo, ma bazzica Milano. Poi Parigi, Berlino, New York. La sua carriera è cominciata probabilmente al Collegio delle Suore, dove ha ricevuto il giusto stimolo per passare direttamente a Lotta Continua. Così aveva anche la scusa per utilizzare il ciclostile, con il quale ha cominciato a stampare carta. Milioni di fogli, fanzine, manifesti, lettere di corrispondenza, collage, libri. Materiale prezioso, in parte raccolto nel suo archivio personale della casa bolognese, dove oggi vive ritirato in un silenzio claustrale e misterioso.

 

 

Nel ’68 GPG vede per la prima volta una fotografia del Grande Vetro di Duchamp, che diventerà il suo compagno di riferimento, assieme a James Joyce da un lato e John Cage dall’altro. Di quest’ultimo conserva un carteggio, pubblicato in uno dei suoi volumi (Peri Pràxis, 1994). Dopo averlo conosciuto a Milano in occasione di una performance con Merce Cunningham al Teatro Lirico, GPG mi racconta di averlo immediatamente identificato come un suo padre. Sarebbe dovuto andare a New York a trovarlo, più volte sollecitato, ma i suoi precedenti coinvolgimenti politici gli vietarono il visto per l’espatrio. Decise dunque di andare a Berlino per un po’ di tempo, a suonare il campanello di un amico trasferitosi in Germania anni prima e tentando così la sorte.

 

 

Per anni ha lottato con la triste miseria, alternando lavori da cameriere, lavapiatti, manutentore di campi da golf, impiegato statale, idraulico, imbianchino, insegnante, ma non ha mai abbandonato l’orgoglio e la necessità di continuare a essere e sentirsi un artista.

 

“La fatalità di non poter far altro da quello che fai”, definisce la sua posizione d’artista nel mondo, e con questo stesso imperscrutabile sentimento, si addossa la responsabilità di dover trasmettere, anche solo in minima parte, ciò che ha esperito nel corso della sua vita.

 

 

Se non avessi conosciuto GPG personalmente, e mi fossi limitata a navigare nel suo sito tuttora aggiornatissimo, avrei pensato di avere a che fare con un folle, l’artista per antonomasia, dall’indole sfuggente ed estremamente narcisista, come i grandi artisti della fine dell’Ottocento.

 

Ma egli conserva qualcosa di più attraente dietro la sua sottile lungimiranza.

Quel qualcosa lo mostra ai miei occhi ancora oggi una persona ricca di complessità e di parole.

 

Il suo curriculum vitae, spalmato su infiniti pdf recuperabili on line, racconta tutte le fasi produttive della sua vita, intervallate da momenti d’empasse, che per certi versi lo rendono ancora più nobile.

 

GPG affonda le sue radici nella poesia, che lo porta nell’80 a ideare “Teatre du Silence”, marchio e rivista che raccoglie contributi di pittori, artisti, musicisti, poeti, figure come Adriano Spatola, Walter Marchetti, Julien Blaine. L’analisi del linguaggio, lo conduce pian piano a sperimentarne anche la sua scomposizione, operando una frantumazione totale a partire dal suono. Nascono i suoi lavori e le performance legate alle partiture. Suoni ascoltati, attesi, provati, attivati. GPG compositore e attore, organizza concerti, espone con i suoi compagni del movimento Fluxus. Il destino lo conduce all’arte.

 

I suoi lavori degli anni novanta conservano ancora un sentimento introspettivo, con accorata propensione a esprimersi in maniera ironica, dirompente. A tratti mi ricordano il timbro di Gino de Domincis, di cui peraltro GPG mi cita il “cubo invisibile”, quasi a suggellare questa intuizione.

 

 

“Una clessidra sul dorso di una tartaruga”, la serie degli Autoritratti vidimati dal notaio con la sigla “autoritratto non visto dall’autore” dell’artista GPG, alcuni brevissimi video e performance con GPG protagonista.

 

Il suo lavoro è sterminato, non ha disperso nulla. Tutto quanto è raccolto con cura maniacale, depositato nella rete, in cd rom creati ad hoc ed allegati ai suoi volumi di poesie. “Le energie che non ho speso nelle pubbliche relazioni, le ho spese negli archivi”, dice.

 

 

Oggi il sistema arte sembra non appartenergli più, quella community che si stringe attorno a una bocciofila o a un movimento, poco importa.

 

GPG è un artista per necessità, non si chiede quante tracce lascerà nel suo percorso, non può saperlo. Un suo desiderio sarebbe quello di aprire tutte le scatole bianche della sua vita. Quelle che conserva con devozione nella libreria, ricolme di poesie, disegni, ricerche, bozzetti impiastricciati, lettere, canzoni, suoni, silenzi. Dare tutto in mano a qualcuno che gli dedichi del tempo, per restituirne un racconto.

 

 

In una delle sue ultime creazioni, Perì Phýseōs (2011), che in copertina mostra la mappa di un mondo non abitato, tratta dall’opera più famosa del fisico e geografo persiano Al Qazwini, alcune parole risuonano più di altre:

 

“… Siamo al giro di boa della scrittura, la trottola a fine corsa... Ho fatto tutto per la poesia, mi sono ridotto anche a scrivere. …Ora la gioia del silenzio assordante! Abbandonato il luogo dove le parole trovano posizione, finalmente solo attonite testimoni dell’impossibile.”.

 

 

Epilogo

 

In seguito all’assassinio di John F. Kennedy il poeta Bob Kaufman fece il voto buddista del silenzio, che fu rotto solo alla fine della guerra del Vietnam, quando recitò in un bar la sua poesia “All Those Ships that Never Sailed”.

 

Nel 1978, comunque, dopo aver pronunciato la frase “I want to be anonymous….my ambition is to be completely forgotten”, fece ancora una volta voto di silenzio e non lo infranse più fino alla morte, avvenuta nel 1986 a San Francisco.

 

Io mi auguro che GPG il voto del silenzio non lo faccia mai, che le parole continuino a riprodurre l’inarrestabile flusso del suo pensiero, che seguano a tradursi in visioni, geografie del mondo, infiniti silenzi e sterminata quiete.

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