Ange Leccia / Girls, Ghost and War

14 Gennaio 2019

Due aerei si fronteggiano sulla pista di atterraggio. Due navi enormi, come due cetacei metallici, stanno ormeggiate l’una di fianco all’altra. Due auto stanno una dinnanzi all’altra, con i paraurti che si sfiorano, i fanali accesi e la luce che si fonde nello spazio vuoto. Sembra una scintilla, qualcosa in procinto di svelare un segreto. Anche se la luce non illumina nulla, solo altra luce. Non c’è modo di capire sino in fondo cosa vogliono dirci le immagini di Ange Leccia. Tutto è fermo. Non accade nulla. Forse è per questo ci appaiono misteriose. Cosa significa duplicare? Di che tipo di doppio si tratta? In queste fotografie non ci sono riflessi, scissioni, rifrazioni, ma semplicemente due oggetti uguali e ugualmente reali, chiusi e ostinati nel loro “essere due”.

 

Ange Leccia, Volvo, Arrangement, 1986.


Eppure si è perfettamente consapevoli che la metafora del doppio, che qui viene evocata, non può che essere considerata come un impulso elementare dello spirito umano. Non ci si sente, non ci si ode, non ci si vede, se non come l’altro, cioè come proiezione e alterità. Ma se la fotografia attesta che l’altro è identico ed esiste nello stesso istante, cosa ha voluto suggerire Ange Leccia? Il raddoppiamento dà un senso ulteriore a ciò che ripete? A cosa davvero dobbiamo fare attenzione? Quanto c’è del mito platonico, ovvero dell’idea di scissione, e quanto di quello di Narciso, inteso come duplicazione? Separare e dare forma non sono forse i gesti che contraddistinguono ogni atto creativo? L’immagine fotografica consente di racchiudere in un solo istante il ricordo di una scissione originaria e la nostalgia di una impossibile riunificazione. Ma le domande, come le ipotesi, sembrano infinite. Gli oggetti di Leccia rappresentano un enigma che non ha soluzione, e che ogni volta si propone come tale.

 

Ange Leccia, American Nebraska – American Kentucky, Arrangement, 1987.


Il tempo, nelle sue immagini, come le risposte, rimangono sospese. Resta il fatto che ciò che conta è il gesto originario. L’autore avvicina a sé, come fa con gli oggetti che fotografa, il fruitore. Costruisce per lui uno spazio misterioso, lo costringe a diventare “prossimo” a sé. Cosa fa? Una sorta di ready made doppio, racconta Elio Grazioli, che ha curato la mostra. Negli anni Ottanta prende due esemplari di un oggetto di varie dimensioni, anche molto grandi, come due aerei o due petroliere, di cui è presente la versione fotografica in mostra, disposti uno di fronte all’altro. A volte sembrano semplici coincidenze, accostamenti prodotti dal caso, come per le due petroliere uguali ormeggiate fianco a fianco. Li chiama “Arrangement”.

La loro vicinanza evoca come il verbo “arranger”, una composizione, un aggiustamento, una sistemazione, un accostamento. E nell’essenza di questo gesto, in questa distanza, come nello spazio tra gli oggetti, chi guarda si approssima anche alla ricerca di un senso. Cercare di capire, qui provoca una vertigine. E forse ciò che ci attrae è questo avvicinamento che paradossalmente produce uno “spaesamento”. Si è più lontani nell’istante in cui si è più vicini. Perturbante verrebbe da dire, qualcosa di apparentemente familiare che nasconde un enigma e ci spinge in una zona di incertezza che ci esilia dalle nostre più consolidate abitudini mentali. Le sue presenze ostinate ci portano dunque non solo alla radice del gesto creativo, ma anche alla radice stessa del senso di “vedere”, alla base dello stesso.

 

Nel momento in cui ci si sofferma dinnanzi a questi oggetti doppi, l’azione di vedere è inseparabile da quella di pensare. La ricerca di una consistenza teorica, del loro motivo di esistere e di apparire così ostinatamente uguali, fa sorgere delle domande che a un certo punto pare abbandonino l’immagine stessa e costituiscano la materia vera di quelle fotografie. Ange Leccia con due semplici oggetti accostati pare ricordarci che non esiste una differenza rilevante tra pensare e vedere. Come rammenta Giuseppe di Napoli in un suo articolo, l’etimo “ἒidos [eidos] (forma, figura), da cui discende il termine idea ha la stessa radice di ἐιδέiν, [eidein] vedere e, per i greci, il perfetto di vedere oìda, significa “io so” (perché ho visto)”.

 

Così accade anche nel suo video Ghost and War. “Io so perché ho visto”, sembrano dire le giovani donne che appaiono nel video. Sullo schermo scorrono immagini che evocano un continuo conflitto: rivolte, combattimenti, bombardamenti che si alternano con le figure e i volti femminili. Il contrasto è netto. Le giovani donne appaiono tristi, malinconiche eppure bellissime. Sembrano costituire quasi una sorta di “inconscio ottico”, come a dire che la forza del visibile vive anche di apparizioni e di evanescenze, di affioramenti e di sparizioni. Tutto è fatto di doppi, sembra suggerire Ange Leccia.

E in questo video le immagini vengono sovrapposte e trasformate in presenze evanescenti. Fantasmi appunto. Bellezza e violenza si fondono e si confondono, quasi in una guerra incessante. L’immagine che si genera è un nuovo doppio, una sorta di essenza intermedia, un fantasma, dove ogni realtà, la guerra come i volti femminili, partecipano tanto del diverso quanto dell’identico. Lo stesso titolo evoca una confusione. Se la guerra si percepisce chiaramente, da dove nascono i fantasmi? Sono le giovani donne o sono le immagini nuove che si generano dinnanzi a noi? Di che sostanza sono fatte? Possiamo pensare allo stesso modo e vedere allo stesso modo? Se vedere e pensare sono istantanei, anche generare un nuovo tipo di immagine, incorporea, ma generata da due corpi ben distinti, è il tentativo di mostrare il processo creativo nella sua essenza più profonda. Generare significa inventare, produrre un nuovo tipo di rappresentazione. Re-praesentatio, scrive Jean-Luc Nancy, vuol dire presentazione sottolineata, il prefisso re- non è ripetitivo ma intensivo. 

 

La repraesentatio prende il suo primo senso dall’uso che se ne fa nel teatro, dove non ha niente a che vedere col numero delle rappresentazioni, e dove, appunto si distingue nettamente dalla “ripetizione” ed inoltre dal suo antico significato giuridico: produrre un documento, una prova o anche nel senso di fare osservare, esporre con insistenza. E nel caso di Ange Leccia è evidente. L’immagine conflittuale e fantasmatica di “ghost and war” è la scena in cui viene mostrato un nuovo modo di vedere e di capire. Le immagini possono dunque essere tanto fantasmi quanto conflitti, se non fantasmi in conflitto.

La bellezza evocata da Leccia, grazie ai volti femminili, forse non è altro che il piacere di abbandonarsi a una visibilità fluttuante. E allora il gioco che può compiere ogni spettatore diventa questo: cercare una nuova forma di immagine che si animi davanti a noi, una forma che forse deve ancora nascere o, più verosimilmente, una forma che sprofonda e scompare nella luce, per poi emergere evanescente e reale al tempo stesso. Uno sguardo che riguarderebbe i fantasmi. Quasi una prospettiva onirica, che permette di trasformare il tempo della sovrapposizione in puro spazio, o meglio in un’unica immagine simultanea. Un altro doppio: reale e sogno. Le immagini di Ange Leccia non sono che il tramite di una sfida: spingere la nostra capacità di vedere verso una profondità intensa e vertiginosa. Non ci resta infine che guardare, pensare, creare, immaginare, sognare.

 

Mostra: Ange Leccia, Ghirl, Ghost and War a cura di Elio Grazioli

Galleria Six, Milano, fino al 26 gennaio 2019

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