Trent'anni attraversando l'università / Giuliano Scabia girovagante e poetico
Massimo Marino si è recentemente chiesto, nel recensire su doppiozero la mostra dedicata ai cinquant’anni del Dams di Bologna, cosa si capisca oggi della creatività in un’epoca in cui la commercializzazione di ogni aspetto della vita ha trasformato i creativi in imprenditori di se stessi. Per capire da dove venga la domanda il libro di Giuliano Scabia Scala e sentiero verso il Paradiso (Usher 2021, pp.220, €20) offre un contesto che, almeno per l’Italia, è molto utile. Non so quanto del coraggio di Giuliano Scabia e del suo girovagare poetico e teatrante arrivi a chi non ha lavorato con lui. A Giuliano interessava soprattutto rendere i suoi studenti capaci di esprimere. A me sono molto chiare quindi le pagine che conosco anche in altro modo: il suo complicato dialogo con Gianni Celati, il suo ispirare, guidare e aiutare tanti che come me lo incontravano nell’università. In fondo, in modo molto più radicale di quello che lui desiderava, far esplodere la relazione tra il teatro e il mondo. Da un lato ci sono le rappresentazioni e le messe in scena più varie, dai giochi dei bambini ai balli popolari, dalle fiabe ai filò, dall’altra tutto ciò che in qualche modo si oppone, persistendo in una dura alterità che sconfessa e uccide la fiaba. Qui sta il nodo così difficile tra lui e Gianni Celati. Per tutti e due è molto importante la comunità che mettono insieme. Giuliano mette insieme per dire, mettere in scena, far esistere, per Gianni al contrario c’è un desiderio di scomparire. Non solo nel racconto contenuto in Quattro novelle sulle apparenze, “La scomparsa di un uomo lodevole”. C’è in tutta la sua prosa, quasi la traccia di uno sforzo che alla fine ci lascia.
Giuliano sceglie di mettere in scena. Cosa significa? In questi giorni sono stati pubblicati dei documenti della famiglia reale inglese da cui risulta come il modello di tanti Principi di Galles sia stato Hal di Henry the Fourth, che diventa il re leader Enrico quinto. Shakespeare viene adottato dalla famiglia reale (il suo ultimo teatro, dopo la magnifica stagione londinese ed elisabettiana, viene protetto da Giacomo I anche per la crescente minaccia puritana). Il teatro si trova quasi inevitabilmente, fin dalla tragedia greca, in uno snodo tra politica e società. Proprio perché non può rappresentare il mondo nel momento in cui cambia, attrae impulsi innovatori, sovversivi, e rischia sempre di venire ridotto a intrattenimento per la corte. Giuliano Scabia lo sa e nel suo cercare la campagna, i matti, i giovani rivoluzionari, tutto quello che viene lasciato indietro dal progresso istituzionale ed economico dell’Italia in cui vive, intreccia attraverso il teatro i fili scoperti che in quel momento sono carichi di elettricità.
Questo credo sia quello che Massimo Marino indica chiedendosi cosa si comprenda oggi della rottura introdotta da Giuliano Scabia negli anni ’70 bolognesi. Giuliano vuole che a parlare sia qualcosa di antico, originario, una forma di trance, come mette a fuoco nei corsi degli ultimi anni, il gesto e la parola che fanno vivere in noi e intorno a noi l’umanità che il conformismo distrugge. Perché se per conformarci dobbiamo aderire e assomigliare a un modello, a qualcosa di esterno, quello che resta indietro viene ammutolito. Quindi la campagna, la natura, la follia, la rivoluzione. Tutto abolito in nome della città, di comportamenti e abiti borghesi, di un senso comune sempre ridotto a convenienza economica o convenienza di qualche altro tipo, quindi soprattutto una passività rispetto alle cose come stanno. Cerca una naturalezza e spontaneità che sono pieni, trascinano con sé una ricchezza contraddittoria da cui Giuliano vuole essere superato. Vede in tutti quelli che si associano ai suoi progetti la vera potenzialità dell’opera. Ha quindi in mano, quando invita gli studenti a lavorare con lui, l’intuizione di una differenza che può essere espressa, portata in piazza.
Quando si vedono le facce pitturate degli studenti bolognesi di quegli anni, bisognerebbe ricordare la forza eversiva e non commerciale di quelle maschere. Di fronte c’è la borghesia perbenista che domina università e politica, nel modo di vestire e nella convenienza presentata come unico modo di stare al mondo. Il perbenismo attraversa tutto lo spettro istituzionale, dalla DC al PCI, dai fascisti alle BR. Gli abiti sono gli stessi e per quanto opposti ideologicamente, tutti sono parlati dalla modernizzazione, l’urbanizzazione e la promozione sociale, la rimozione del folle e del magico che è invece il tessuto comune a tutti gli umani. Giuliano lo reperisce soprattutto in Frazer, ma in fondo nel concetto stesso di antico. Presto anche in coloro che, anche se si definiscono rivoluzionari, portano in realtà gli stessi abiti, lo stesso maschilismo, lo stesso razionalismo antimagico nello scontro “di classe”.
Intorno al Dams di Giuliano, che ho sempre visto fare lezione con la solita camicia a scacchi da montanaro, si raccolgono quelli che, con un certo disprezzo, vengono definiti dai rivoluzionari più ortodossi, i creativi o l’ala creativa.
C’è un desiderio di sopprimere, subordinare, trasformare in buffonesco il mondo che intorno a lui si raccoglie, non solo da parte degli illuminati amministratori che spesso finanziano le sue imprese, ma anche di quella parte dei movimentisti che pensano che lo scontro con lo stato si gioca su un altro piano.
I corsi di Giuliano e quelli di Gianni Celati si riempiono così di tutti coloro che, alienati dall’esausto comunismo (non solo del PCI, ma anche della miriade di gruppuscoli leninisti di quell’epoca) iniziano a portare la propria diversità non come qualcosa che riguarda solo alcuni, ma perché è il vero tessuto che ci tiene insieme a prescindere dai generi, dalle età, dalle culture. Abbiamo in altre parole tutti un mondo fatato alle spalle da cui siamo stati letteralmente scarnificati per diventare adulti. Attraverso la scuola, l’obbedienza, lo smettere di disegnare, sognare, cantare, ballare.
Tra i tanti bei documenti raccolti in questo volume c’è una bella lettera del 1981 di Thomas Bamberg da Giessen (dove esiste una scuola di teatro applicato) agli amici che hanno redatto Dire, fare, baciare, il corso subito dopo il ’77, cui ha partecipato.
Come Klemens Gruber (L’avanguardia inaudita, Costa e Nolan 1997) anche lui ha visto e riflettuto sulla Bologna di quegli anni. Dice di avere in biblioteca tutti i libri di quell’epoca e di chiedersi se non siano troppo soggettivi. Ci vorrà ancora qualche anno e il lavoro, tra gli altri, di Luisa Passerini per mettere a fuoco questo passaggio. È proprio attraverso quello che chiamiamo soggettivismo che possiamo cercare di capire. Opposto al soggettivismo, nella lettera di Bamberg, c’è l’oggettività. L’idea che la storia abbia un suo lato duro, la struttura dei rapporti economici marxiani, le guerre, cose serie che richiedono tavoli di potenti, negoziati con banche e avvocati, militari, non giovani scalcagnati che fumano spinelli. Di fronte alle questioni serie, oggettive, i soggettivismi non sono nulla. Un dilemma che Martin Scorsese racconta bene attraverso la carriera di Bob Dylan nei due documentari che gli ha dedicato (No Direction Home e Rolling Thunder Revue). Come dice l’amante di un personaggio di Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, gli scrittori, gli artisti non hanno i piedi per terra e quindi, commenta l’autore, possono anche esser lasciati penzolare da quella distanza, appesi a un cappio.
L’innovazione di Giuliano Scabia e di tutta la sua generazione è stata di rendere eloquente questa soggettività. Una volta che il genio è uscito dalla bottiglia, e certo non è stato tanto o solo Giuliano che lo ha fatto ma tutta un’epoca, sono saltati per aria molti punti di riferimento. È proprio perché la diversità non è una scelta personale ma una condizione costitutiva di tutti noi, che l’opposizione tra soggettivo e oggettivo che ha caratterizzato la tradizione filosofica ottocentesca inizia a cedere. Apparteniamo tutti a un passato comune fatato, radicato nelle campagne e nei suoi riti, nelle religioni, nella nostra costitutiva diversità, nel fatto che ai generi sessuali arriviamo attraverso un percorso culturale, e proprio per questa ragione la sessualità acquista una posizione così centrale. Diventiamo tutti consapevoli di come la malattia mentale spacchi con l’accetta confini che spesso sono molto meno netti tra gli uni e gli altri, che in altre parole la follia è sociale e culturale. Tutto questo esplodeva negli anni settanta, l’Italia e l’Europa è cambiata. I referendum avevano trasformato il femminismo, non più solo rivendicazione di un genere schiavizzato nella vita familiare ma la punta di diamante di un pensiero nuovo e avventuroso che portava la persona al centro della discussione politica. Basaglia aveva chiuso i manicomi, i giovani studenti non erano più aspiranti professori, portaborse e bistrattati, ma uno sguardo critico e antiautoritario nelle università.
A Giuliano tutto questo è scoppiato tra le mani. La franchezza con cui vengono riportate nell’accurato lavoro di Francesca Gasparini, che mette insieme l’itinerario del libro, le conversazioni con Celati, che nonostante i continui scontri è più che un interlocutore, è quasi un doppio di lui come lui si sente un doppio di Gianni, e poi con tanti altri, ci mostrano la grande, magnifica preparazione di questa rottura, il momento tragico in cui proprio a Bologna, proprio tra i suoi studenti, questa materia diviene incandescente e insanguinata, e il tentativo di continuare a insegnare tutto quello che può insegnare a studenti che si raccolgono intorno a lui con l’entusiasmo di chi intuisce una voce complicata e non facilmente riassorbibile nel coro.
Mai come oggi, con le voci delle comunità indigene che sono sopravvissute e sopravvivono all’annichilimento della natura in nome dei profitti economici, la ricchezza di quelle intuizioni si fa urgente tra noi. Non c’è un oggetto di fronte a un soggetto, ma ognuno di noi nella natura, nel modo di essere parte e quindi portare nel mondo le ferite e la bellezza del nostro abitare diversi ambienti, il bosco e il mare, la montagna e la pianura. Essere insieme agli elementi, agli altri animali, imitarli e pitturarsi il viso per somigliargli, cercare di difenderci dai fuochi e dalle alluvioni, sapere essere comunità non contro ma insieme a questo mondo, trovare le figure sciamaniche, i Gorilla quadrumani e le storie del bosco. Come diceva Elvio Fachinelli: c’è anche la rivoluzione, e Gianni e Giuliano hanno tutti e due, e probabilmente in modo involontario, moltiplicato gli interpreti.