Giuseppe Ungaretti / Italia

8 Aprile 2011

Penultima di Porto sepolto, insieme a Poesia (poi Commiato) questa lirica fa da chiusura alla raccolta, in dichiarata simmetria con le proemiali Porto sepolto e In memoria. Là Moammed Sceab era “suicida/ perché non aveva più/ patria”. Qui l'apolide poeta-soldato ne diventa finalmente parte, confondendosi, mercé l'uniforme mimetica, nella moltitudine di italiani al fronte: facendosi “grido unanime”.

Furono tanti, troppi, gli intellettuali e gli scrittori che credettero che il massacro inaudito della Prima guerra potesse essere il viatico necessario a fare degli italiani un popolo. E se i proclami dei più ferventi interventisti ancora ripugnano, anche le più sincere e problematiche istanze di chi credeva che il fronte fosse l'unico luogo – se non quello d'elezione - per fraternizzare con i compatrioti (uno fra tutti: Renato Serra) rimangono inaccettabili. Tuttavia, questa poesia, di quel sentimento, rimane una delle testimonianze più alte e sincere, immune com'è da ogni mistica bellicista, da qualsivoglia fervore patriottardo.

 

Sono un poeta

un grido unanime

sono un grumo di sogni

 

Sono un frutto

d'innumerevoli contrasti d'innesti

maturato in una serra

 

Ma il tuo popolo è portato

dalla stessa terra

che mi porta

Italia

 

E in questa uniforme

di tuo soldato

mi riposo

come fosse la culla

di mio padre

 

(Locvizza, il I° Ottobre 1916).

 

Edizione di riferimento: Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1969.

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