Giusi Marchetta. L'iguana non vuole

27 Ottobre 2011

Contiene molte cose L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011), primo romanzo di Giusi Marchetta.

L’impressione, scivolando tra le pagine di un libro ben scritto e senza i risvolti narcisistici oggi quasi di prammatica, è che il desiderio di raccontare una storia non sia mai disgiunto dal bisogno di fare spazio a tutto ciò che l’autrice ha da dire: sulla scuola, sulla condizione dei precari, sull’emigrazione, sulle storie d’amore e di amicizia, sull’autismo e la malattia, sulle nevrosi, le rabbie e le paure che tutti ci portiamo appresso. Su una generazione di ragazzi a trent’anni quando, come dice l’autrice, a trent’anni ragazzi non si è più.

Non è un romanzo di denuncia, ma è un romanzo che, raccontando, denuncia: la storia è sempre in primo piano ed è attraverso di essa che prende corpo la realtà illustrata nelle sue differenti sfaccettature quotidiane, in tutti i suoi risvolti pratici (coinquilini, trasferte, traslochi) ed emotivo-relazionali.

 

Emma ha 28 anni, una laurea in lettere con il massimo dei voti, e la specializzazione sia per l’insegnamento nella scuola secondaria, sia per l’insegnamento agli alunni diversamente abili. Ottenuta una supplenza a Torino, lascia la sua città, Napoli, la famiglia, gli amici e un amore in crisi.

Torino è l’incarico ma è anche un mantra che Emma si obbliga a ripetere nella testa: “sono una privilegiata”. Già, perché di questi tempi avere un incarico annuale deve bastare, anche se in una città in cui non si vorrebbe abitare e anche se non sulla propria materia ma sul sostegno, strada percorsa non certo per vocazione.

Torino è anche un freddo che non ha pietà di niente, una stanza in affitto che la protagonista non si decide a fare propria, una scuola nuova e la rassegnazione di molti dei colleghi. Ma soprattutto Torino è Andrea, Mattia, Davide, Peter, ragazzi diversamente abili o stranieri, ragazzi comunque difficili: da trattare, da contenere ma anche da subire, nel male come nel bene. Perché non si può che imparare: dall’autismo, dalle differenze, dal ritrovarsi altrove; così che alla frustrazione per una situazione non scelta fa da contraltare la gioia per le piccole conquiste: le battaglie scolastiche, la comprensione di alcune chiavi per penetrare il muro della malattia (l’animale totem di Andrea, l’iguana del titolo), le amicizie semplici e le birre in una città ostile.

 

Ne risulta un romanzo bello ed efficace; uno spaccato lucido e tagliente sul comportamento di alcuni professori e sulla situazione della scuola (“Non siamo psicologi. Non siamo assistenti sociali”), su una certa chiusura e altrettanta rassegnazione: i toni sono arrabbiati e leggeri insieme, le paure si toccano con mano ma c’è lo spazio per i respiri della vita quotidiana.

Senza cedere a troppo lirismo o ai toni del lamento, la scrittura di Giusi Marchetta tiene le redini delle situazioni che descrive, come cerca di fare Emma con i suoi alunni e se stessa, con una relazione che non sa finire, le lotte sindacali, i compromessi e la propria rabbia: una scrittura coraggiosa, che esplora vari registri e timbri, ma senza gli eccessi di chi vuole stupire più che trovare un modo efficace per restituire sospensioni e salti temporali che appartengono al linguaggio parlato e al flusso dei pensieri.

 

Le riflessioni si fanno visioni: gli immaginari dialoghi nella testa di Emma e le paure che prendono corpo (serpenti che abitano gli spazi) restituiscono l’intensità delle ansie della protagonista e insieme ci portano in quell’universo fatto di immagini che è il mondo per gli autistici, come ci ha insegnato Temple Grandin. Frasi identiche si ripetono a breve distanza per scandire il ritmo, per segnare il pensiero ossessivo, il ritornare sempre allo stesso punto; un modo di raccontare una realtà che imprigiona, senza soluzione, e la conseguente necessità di imparare a convivere con l’aprirsi di cicli che sempre si chiudono, con questi tempi che non consentono di andare avanti e costringono a percorsi circolari – ma non per questo sterili. Non si ha mai l’età giusta e si è sempre in ritardo, dice Emma ossessionata dall’età anagrafica delle persone di successo.

 

Prendere coscienza del caos non significa tuttavia ammettere che tutto è uguale e che il nostro agire è condannato all’inefficacia: convivere non significa arrendersi, né contenere significa sopportare.

Emma è arrabbiata e a volte l’iguana, che ha il compito di arginare e non volere la rabbia, sembra avere ragione nel concederla: “l’iguana sa […] che questo Paese è colpa vostra”.

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