Gli invisibili della working class
Una premessa. In questo articolo mi occuperò di due libri sulla letteratura working class usciti per una significativa coincidenza a poco tempo uno dall’altro, due libri che dialogano e si completano felicemente tra loro. Stiamo parlando di “Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class” di Alberto Prunetti (minimumfax) e “Melanconia di classe. Manifesto per la working class” di Cynthia Cruz (edizioni Atlantide). Ma prima di farlo, o meglio per poterlo fare, devo chiedervi la pazienza di seguirmi, per tre brevi tappe, su un sentiero apparentemente scentrato.
Prima stazione. Nella scuola media di mia figlia hanno organizzato una giornata per presentare ai ragazzi e alle ragazze di terza l’offerta didattica degli istituti superiori della zona. La scuola media di mia figlia è frequentata da molti studenti di origine straniera, del resto si trova in uno dei quartieri cosiddetti multietnici di Milano, ma la verità è che molte famiglie che abitano nei dintorni la evitano, preferendo altre scuole ritenute più protette e “produttive”. Il giorno della presentazione c’era, come è ovvio, un campione variegato del vasto mondo delle scuole superiori, tra licei, istituti tecnici e professionali. Ebbene, tra questi non c’era neanche un liceo classico, perché, come mi ha detto una professoressa, è illogico venire a cercare iscritti in una scuola con una cattiva fama, meglio pescare da scuole più rinomate.
Seconda tappa. Il venerdì sera mi capita spesso di passare da un altro quartiere milanese, che avevo frequentato da bambino a seguito di mio padre e poi da studente negli anni dell’adolescenza. Un quartiere un tempo abitato da operai e piccoli artigiani, punteggiato di laboratori, case di ringhiera, osterie e centri sociali. Oggi che lo attraverso faccio fatica a sovrapporre i ricordi di allora con il paesaggio che ho di fronte, anche se le strade sono indubbiamente le stesse. Ovunque mi giri vedo locali e negozi alla moda, movida e turisti, e della vecchia anima popolare rimane forse qualche innocua vestigia, una lapide per un partigiano che viveva in uno di quei portoni, o poco più. Certamente non la federazione del Partito Comunista dove mio padre lavorava, d’altronde il partito è estinto da tempo, ma neanche il palazzo che l’ospitava esiste più, sostituito da un condominio di lusso con ai piedi un alquanto incongruo ristorante catalano.
Ultima stazione. Vi ricordate quando col lockdown improvvisamente è sembrato che tutto si fermasse, ognuno chiuso in casa a guardare con apprensione il mondo esterno dal rettangolo di una finestra? In realtà non è andata proprio così, non è vero che tutti erano ingabbiati nelle mura domestiche. Milioni di donne e uomini hanno infatti continuato a lavorare, portando avanti giorno e notte quei compiti duri e faticosi che hanno permesso, e permettono, alla società di restare in piedi. In quei giorni forse, per un battito di ciglia, ci si è accorti di loro, non dico delle loro condizioni di sfruttamento e fatica, ma almeno della loro esistenza. Appena tutto ha ripreso a girare come sempre, però, sono subito ricaduti nel cono d’ombra che abitualmente li sovrasta.
Cosa unisce questi tre aneddoti? Sono le classi, bellezza, le classi sociali, quel vecchio arnese oggi impronunciabile, il grande rimosso di questi anni di neoliberismo. Ma sarebbe meglio dire che sono le working class: sono infatti ragazzi e ragazze delle classi popolari ad essere escluse in partenza da alcuni percorsi scolastici (peraltro l’ideologia del merito oscura e giustifica abbondantemente questo sacrificio), dall’altro lato, sono le famiglie di classe media che fuggono dalle scuole con cattiva nomea (leggi: dove ci sono studenti poveri e di origine straniera, l’intersezionalità opera anche senza bisogno di nominarla), come del resto sono i vecchi abitanti di provenienza operaia ad essere espulsi dai quartieri, un tempo popolari e oggi gentrificati, delle nostre città. D’altronde gli operai non esistono più, ce lo ripetono ogni giorno, e i poveri non sono utili neanche come oggetto di pietà ora che le classi benestanti manifestano liberamente e senza vergogna la propria aporofobia. E così chi svolge lavori sporchi, pericolosi e umilianti è diventato invisibile nel dibattito pubblico e politico, tranne quando torna utile additarlo come responsabile ultimo ed esclusivo dell’ascesa di movimenti populisti, sovranisti e razzisti, in quanto elettorato incolto che, a differenza degli elettori consapevoli di classe medio-alta, vota di pancia e non di testa.
È proprio su questo rimosso che si concentrano i libri di Prunetti e Cruz, entrambi scrittori con retroterra operaio e che mettono in luce in prima persona quanto l’invisibilità della working class riguardi anche, e pesantemente, il mondo delle lettere e delle arti. Invisibilità immateriale, nel campo dell’immaginario e dell’universo simbolico della finzione: quanti romanzi, film e serie televisive hanno al centro oggi protagonisti working class? E quanto è stato traghettato nel presente, per tramite di Caronte artistici, del glorioso passato operaio che ci sta alle spalle? Ma anche invisibilità di autori che da quel mondo sociale provengono e ne fanno il centro della propria ricerca, evitando di rappresentarlo dall’esterno attraverso facili stereotipi. Basti pensare all’immagine a una dimensione della periferia come giungla e inferno, così diffusa da essere un vero e proprio topos, e dell’homo perifericus come essere istintuale e violento.
È significativo che sia lo scrittore toscano sia la poetessa statunitense presentino nei loro ragionamenti diversi punti di contatto. Ad esempio, entrambi guardano con interesse alla Gran Bretagna. La cosa non stupisce, quella inglese è la società che con la rivoluzione industriale ha “inventato” le classi sociali moderne, definendone confini e stratificazioni che si manifestano attraverso diversi codici – linguistici, architettonici, di formazione e istruzione, come pure con riferimento ai modi e i luoghi della socialità… – quasi completamente autonomi e segregati (di questo fatto se ne era accorto già a metà ottocento un giovane rampollo della borghesia tedesca, mandato a Manchester dal padre per imparare il mestiere di imprenditore; ma lui preferiva di gran lunga osservare e denunciare le misere condizioni di vita degli operai inglesi: il suo nome era Friedrich Engels). Codici e stili di vita che continuano a riprodursi nel tempo, riverberando e finendo inevitabilmente per essere filtrati anche attraverso la lente dell’arte (cinema, letteratura, canzoni…). Si pensi, per citare un solo esempio che ricorre in entrambi i volumi, al nome di Irvine Welsh e al suo Trainspotting, che ha segnato la rappresentazione della vitalità distruttiva e senza speranze dei giovani working class scozzesi, nel pieno della deindustrializzazione e della tempesta antioperaia della signora Thatcher, pietra angolare di tutti i successivi esperimenti neoliberisti.
Non mancano, naturalmente, punti di divergenza, o comunque la manifestazione di sensibilità diverse da parte dei due autori. Cynthia Cruz si rivolge principalmente alla psicoanalisi, alle volte bisogna dire con forzature eccessive, e predilige in generale una scrittura lirica ed evocativa, compensata in un certo senso dall’attenzione alle biografie materiali di musicisti punk e rock di estrazione operaia (anche questa volta per lo più inglesi, come Paul Weller, Ian Curtis e Amy Winehouse). Alberto Prunetti invece passa in rassegna esempi vicini e lontani, noti e meno noti, di letteratura operaia, senza peli sulla lingua (ad esempio nel fare i conti con l’ormai classica letteratura industriale) e con uno stile più secco e ruvido. Il suo è uno sguardo esplicitamente politico, e non a caso il libro si apre e si chiude con l’esperienza del collettivo di fabbrica della Gnk di Firenze, una delle più significative e innovative forme di lotta ed elaborazione operaia degli ultimi anni.
Quelli di Prunetti e di Cruz sono, in conclusione, due libri importanti per conoscere e toccare con mano la vitalità della riflessione attuale sulla letteratura working class. Colpisce che per rivendicare maggior spazio e riconoscimento per la letteratura operaia entrambi adottino una posizione che definirei, almeno in parte, di difesa. Tra le righe sembra emergere la richiesta di un riconoscimento, una sorta di etichetta, che possa certificare la genuinità della letteratura working class, salvaguardandola dalla pervasività dell’immaginario mainstreaming, prodotto dalla, e rivolto alla, classe media. Una forma di discriminazione positiva che permetta alla voce degli scrittori operai di essere riconosciuta nella repubblica delle lettere.
Si tratta del resto di una posizione analoga a quella adottata da artisti e ricercatori delle minoranze sociali, secondo le diverse linee di faglia (etniche, di genere, identitarie) che attraversano la società. Nel caso della letteratura working class mi sembra però stridere, perché la classe operaia nella sua storia non si è mai considerata una minoranza, al contrario ha lottato per veder riconosciuto il proprio ruolo di cuore pulsante, intelligenza collettiva e affluente principale del popolo, per usare un termine oggi vilipeso e quasi dimenticato, e che dovremo incominciare a riconsiderare e provare a reinventare. Ma per farlo occorre forse mettere in discussione altri assunti e modelli – ad esempio la premessa che sia necessaria una coincidenza e una coerenza tra l’opera e la biografia dell’artista che l’ha prodotta – che sembrano ormai parte integrante del nostro modo di pensare.