Gottschall, bentornato postmoderno
Viene da dire, finalmente se n’è accorto. Jonathan Gottschall – l’autore del Lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge, (Bollati Boringhieri, 2022) – ha scoperto che il mondo specificamente umano è sostanzialmente un mondo raccontato, cioè un mondo fatto di storie. Cioè ha scoperto che il mondo della verità è invece il mondo delle verità, al plurale. Jonathan Gottschall ha scoperto che il linguaggio è un campo in cui si scontrano i diversi ‘giochi linguistici’, ognuno dei quali è portatore di una peculiare idea del mondo, e conseguentemente del vero.
Ha scoperto, cioè, che il mondo con cui abbiamo a che fare – il mondo del global warming e del virus, di Trump e di Putin, dello spread e del reddito di cittadinanza – non è il mondo come è in sé (ammesso che qualcuno sappia che cosa sia il mondo in sé), bensì il mondo così come ce lo mostrano le storie che, appunto, raccontano il mondo. Jonathan Gottschall, in sostanza, ha scoperto (anche se non se ne rende conto), non solo che il tempo del postmoderno non è mai finito, ma che anzi è più attuale che mai.
Facciamo un passo indietro, e torniamo al dimenticato La condizione postmoderna di Jean-François Lyotard. Il post-moderno, scriveva Lyotard più di quarant’anni fa, è la condizione segnata dalla “incredulità nei confronti della metanarrazioni”, ossia nel fatto che non esiste più un discorso che sia in grado di porsi al di sopra – in posizione di giudice inappellabile – dei diversi ‘giochi linguistici’. Un tempo il discorso religioso era quello che aveva l’ultima parola. Nella modernità la posizione un tempo occupata da dio l’ha presa lo scienziato. Ora, appunto nella post-modernità, neanche la scienza è in grado di indicare in modo indiscutibile che cosa sia il vero e che cosa sia, invece, il falso.
Si pensi, per fare un esempio che non abbiamo ancora potuto dimenticare, a quando erano proprio gli scienziati, in particolare virologi ed epidemiologi, a non essere d’accordo sul modo in cui affrontare la pandemia, per non parlare di quegli scienziati che dubitavano della stessa esistenza della pandemia. In questo caso, troppo velocemente rimosso, il problema non era costituito dalle cosiddette fake news o dal predominio della post-verità, quanto proprio dal fatto che la scienza stessa non riusciva, al suo interno, a parlare in modo univoco.
Ci è stato raccontato che è proprio questa pluralità la ricchezza del discorso scientifico, rimane che il caso del virus ha mostrato in modo evidente la verità (sic) della tesi di Lyotard: “la funzione narrativa perde i suoi funtori, i suoi grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli e i grandi fini. Essa si disperde in una nebulosa di elementi linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc. ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis. Ognuno di noi”, osserva in conclusione il filosofo francese, “vive ai crocevia di molti di tali elementi”. Proprio l’incerta situazione in cui ci troviamo.
Gottschall ha così scoperto che “Media = Vita reale” (p. 38), ossia che il mondo com’è, per noi umani, in realtà non è altro che il mondo così come ce lo presentano i media – e quindi il linguaggio e tutti gli altri media che usano storie e immagini per raccontare il mondo. Ma questo significa che “vita reale” vuol dire, propriamente, vita mediale, cioè vita raccontata, vita come ce la consegnano le storie che hanno per oggetto la vita del mondo. Una scoperta (si fa per dire) che d’un colpo rende superate le tante accuse che, in questi ultimi anni, sono state lanciate contro il post-moderno da tutti i vari realismi che si sono succeduti (e già questo plurale avrebbe dovuto mettere in guardia, il realismo o è uno oppure è una forma inconscia di relativismo).
Una volta ammesso che il mondo-com’è è inseparabile dal mondo-come-si-racconta ne segue il corollario che questa condizione di incertezza rappresenta un pericolo, perché mette in evidenza, come scrive lo stesso Gottschall, “l’oscuro potere delle storie di plasmare le nostre menti in modi di cui non sempre siamo in grado di renderci conto” (p. 9). Se non c’è un unico racconto del reale, qual è allora il racconto giusto? Ecco “perché […] le storie sembrano fare impazzire la nostra specie?” (p. 10).
Ma qual è, quindi, il punto in questione? Gottschall ha scoperto che la cosiddetta realtà è pensabile solo attraverso il velo necessario delle storie che raccontano quella che appunto chiamiamo la realtà. Un velo che è così avvolgente da passare inosservato. Il problema principale di queste storie, infatti, sia quelle che ci raccontano sia quelle che ci raccontiamo, è che non sono percepite come storie che parlano del mondo, ma come il mondo stesso.
Le storie, cioè, sono inconsce, e in questo modo finiscono per pensare al nostro posto, nel senso che siccome non ci accorgiamo della loro presenza finiamo per pensare a quello che le storie ci ‘dicono’ di pensare. Nel libro Gottschall non nomina mai, se non di passaggio e stranamente per criticarlo, il nome di Freud, e tanto meno la psicoanalisi. Tuttavia, il quadro che ci presenta questo libro è quello di un pensiero pensato da pensieri inconsci, ossia sostanzialmente un pensiero che si illude di essere un pensiero libero, ma che non fa altro che ripetere le storie che a sua insaputa lo hanno plasmato.
E così, anche se non nomina Freud, alla fine Gottschall è di fatto costretto a (ri)scoprire la prima e fondamentale scoperta psicoanalitica: “mi limiterò a notare che, in base agli studi scientifici, la nostra volontà è molto meno libera di quanto la maggior parte di noi pensi” (p. 172). A parte l’immancabile riferimento politicamente corretto agli ultimi “studi scientifici” (lo stesso Gottschall, che è suo malgrado post-modernista, continua però a credere nella scienza come meta-narrazione ultima, come quella storia che decide della verità di tutte le altre storie) di fatto Gottschall si rende conto – e per l’ingenuo razionalismo a cui si ispira questo libro è una scoperta stupefacente – che “tu non possiedi una narrazione … la narrazione possiede te” (p. 167).
Gottschall, in pratica, ha scoperto che quella cosa che si chiama soggetto volontario semplicemente non esiste: “fa sentire bene noi esseri umani presupporre che il nostro comportamento sia vario, differenziato, imprevedibile. Invece non lo è affatto” (pp. 10-11). Semplicemente non siamo i padroni dei nostri pensieri. Si tratta di un pensiero talmente sgradevole che Gottschall cerca in tutti i modi di smussarne l’impensabilità:
Quando diciamo colloquialmente che “Tizio ha una sua narrazione” – che derivi dal marxismo, dall’islamismo, dal femminismo, dal libertarismo o dal pastafarianesimo – intendiamo dire che Tizio ha delle credenze che sono guidate da una storia specifica in merito al perché il mondo è diventato così com’è. E ha anche delle nozioni, basate su quella narrazione, in merito al modo in cui dovremmo comportarci. Ma è almeno altrettanto vero dire che la narrazione ha Tizio, lo possiede. Una volta che una narrazione potente colonizza la mente di Tizio, si impadronisce della sua facoltà di agire. Lui non costruisce la narrazione a partire dai fatti, ma è la narrazione che seleziona e modella ciò che Tizio accetterà come fatto. Non voglio negare che alcune narrazioni siano molto più vere, e molto più utili, di altre. Sto dicendo che abbiamo un’inguaribile tendenza a stipare nei nostri stampi narrativi prefabbricati più realtà disordinata di quanto dovremmo (p. 168).
Come si vede Gottschall continua a credere nella storia secondo cui siamo noi che controlliamo il ‘nostro’ pensiero, anche se ammette che ci capita molto spesso di non controllarlo così bene quanto dovremmo, per finire così per credere non alla realtà, bensì alle storie che raccontano la realtà. Questa citazione è particolarmente interessante perché mette insieme, come esempi di storie equivalenti, una religione e una filosofia, una pratica rivoluzionaria e una dottrina politica e addirittura una impostura farsesca. Per uscire da questa situazione di confusione Gottschall propone di affidarsi sempre più alla razionalità e alla scienza, come se il problema – come il caso del conflitto di opinioni scientifiche sulla pandemia ha mostrato in modo evidente – non si riproponesse anche al suo interno: “abbiamo bisogno di più razionalità nel mondo. […]
Per istituire una civiltà in cui le persone vivono nello stesso storiverso [cioè lo spazio mentale e narrativo creato dalle storie] basato sulla ragione, il metodo non dovrebbe essere quello di indebolire la nostra connessione con le storie, ma di rafforzare ciò che, per quanto traballante, fa da contrappeso alle storie, che è il logistikon. Soprattutto, dobbiamo raddoppiare il nostro impegno verso la scienza, perché la scienza serve a resistere alle storie” (p. 182). Il riferimento al logistikon, e quindi a Platone, esplicita il senso della parte propositiva del Lato oscuro delle storie. Si tratta di esercitare una sorta di ‘controllo’ razionale sulle storie: “Platone credeva che la mente umana fosse composta da tre centri principali: in una mente sana, la sfera della logica – che chiamava logistikon – governava i centri inferiori delle emozioni e degli appetiti; in una mente non sana, le emozioni e gli appetiti inondano il logistikon e anestetizzano la razionalità” (p. 59).
Ma che cosa significa, in pratica, rimettere il logistikon al posto di comando del comportamento umano? La proposta è curiosa, perché Gottschall è costretto – dopo che per tutto il libro ci ha invece esortato a seguire la massima “mai fidarsi di uno che racconta storie” (p. 15), che poi non è che la vecchia massima cartesiana del dubbio radicale – a proporre una nuova storia di cui, invece, questa volta dovremmo fidarci: “ognuno di noi dovrebbe cercare […] di sviluppare una personale attitudine al sospetto non solo nei confronti delle semplificazioni moralistiche delle storie raccontate da altri, ma anche di quelle che raccontiamo a noi stessi” (p. 208). In sostanza la proposta di Gottschall non è che quella, antica come quella platonica, di privilegiare la razionalità sull’emozione e la credulità.
Una nobile e gloriosa proposta, se non fosse che il suo stesso libro ci mostra un mondo postmoderno in cui non è possibile stabilire qual è la storia giusta, cioè quella razionale, a cui credere. Per Gottschall, invece, “in questo modo esercito una sorta di controllo esecutivo sul processo automatico del mio cervello. Se non posso o non voglio fare questo, non sono io il padrone delle storie che si trovano nella mia testa, ma ne sono lo schiavo, e sono tanto più degradato perché non riesco nemmeno a percepire le catene che mi imprigionano” (p. 208). Qui si vede, infine, qual è la storia a cui crede Gottschall, quella che crede che al fondo esista un’entità, l’io cosciente che controlla sé stesso.
Ma questa storia, e Gottschall non se ne rende conto, è la storia dell’io proprietario di sé che alla base della più grande narrazione del tempo della post-modernità, quella del capitalismo. Se questo io-proprietario-di-sé non esistesse non potrebbe esserci iniziativa individuale e nemmeno proprietà privata. Gottschall vede tutte le storie, ma non vede la sua, o meglio la vede, ma non pensa che sia una storia, la scambia per una evidenza autoevidente.
Cos’è, infine, quello che il postmodernista a sua insaputa Gottschall non vede, tutto preso dal suo mondo platonico di storie e di razionalità scientifica? Non vede che le storie non esistono da sole, e che ogni storia esprime, in modo inconscio, una particolare prospettiva sociale (un tempo si diceva quella di una particolare “classe” sociale). Le storie, cioè, rappresentano sul piano del linguaggio e della coscienza i conflitti politici ed economici che percorrono e dividono al suo interno il piano sociale. “La coscienza”, scrivevano Karl Marx e Friedrich Engels nell’Ideologia tedesca, “è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale”.
Le storie non stanno nella testa degli esseri umani, sono piuttosto il modo in cui il conflitto sociale si riproduce anche all’interno di quelle stesse teste. Esiste, quindi, un modo per capire qual è la storia migliore: si tratta di riportare le storie dal mondo delle idee a quello della storia e dei conflitti sociali. Se non si vuole rimanere intrappolati nel mondo post-moderno fatto solo di storie e storie di storie occorre smettere di credere che le storie siano solo una faccenda di linguaggio e credenze sbagliate. C’è un mondo là fuori.
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