I colori del terrore

16 Gennaio 2016

Vanno sotto questo titolo fumetti, racconti, saggi molto eterogenei. Viene in mente per primo, proprio perché il titolo è esattamente questo, il racconto di Jordan Ivančev I colori del terrore del 1995 (trad. it. di Svetlana Ilkova, fbe edizioni, Cremona 2010), la descrizione di un viaggio di Vesselinov, un professore universitario di filosofia, del figlio Hristo di sette anni e di un ex calciatore, che attraversano la Bulgaria all'inizio del XXI secolo. Fuggono da una Sofia in sfacelo, aggredita dalla popolazione affamata della periferia, per ritrovarsi in una campagna nella quale gli uomini sono diventati animali che si muovono in branchi e assalgono chiunque abbia con sé qualcosa da mangiare, attraversano villaggi e città, ciascuno con leggi proprie o senza legge. Il romanzo si presenta come una distopia livida, surreale, riflesso proiettato nel futuro della situazione politica e sociale della Bulgaria dopo la caduta del comunismo.

 

Frontespizio del Liatano di Hobbes

 

Il pericolo di un mondo simile, corrispondente allo stato di natura descritto da Hobbes, nel quale vige la guerra di tutti contro tutti e in cui l'uomo è lupo all'altro uomo, è evocato anche nel libro di Carlo Ginzburg, Paura reverenza terrore (Adelphi, Milano 2015). L'autore tratta invero diversi e complessi temi a partire dall'analisi di alcune immagini-icona della storia del pensiero e dell'arte; mi limito qui a un accenno al capitolo sul frontespizio del Leviatano di Hobbes. «Parlerò di terrore, non di terrorismo», così prende avvio l'analisi per sottrarsi al rumore delle notizie del presente che – scrive l'autore – dobbiamo guardare «di sbieco», tenere a distanza, come attraverso un cannocchiale rovesciato (p. 53). La distanza consiste nella lettura analitica dei testi del filosofo inglese, della sua traduzione del passo di Tucidide che descrive l'anomia dell'Atene devastata dalla peste, nella quale gli uomini non avevano più timore degli dei né soggezione alle leggi, nell'analisi filologica delle parole che significano soggezione, reverenza, paura e terrore, per concludere che Hobbes non è l'iniziatore di un'interpretazione secolarizzata del politico, ma un sostenitore della necessità per lo Stato di usare l'arma della religione, di usare il terrore per sottomettere i cittadini che compongono il corpo del Leviatano e guardano tutti verso di lui (in uno schizzo precedente, riprodotto nel testo, guardavano verso il lettore). L'incisore ha inserito nell'immagine anche due piccolissimi uomini neri, due medici della peste, che alludono alla dissoluzione dei legami della città. «Viviamo in un mondo in cui giganteschi Leviatani si divincolano convulsamente o stanno acquattati aspettando» (p. 79), conclude Ginzburg, prospettando un Leviatano mondiale capace di imporre agli uomini la legge e sperando, nello stesso tempo, che ciò non debba avvenire.

 

Intanto il terrore viene quotidianamente applicato in luoghi non molto distanti da noi e i colori del terrore sono quelli del Daesh: il nero e, sorprendentemente, l'arancione. Del nero importa qui solo la valenza luttuosa, opaca, lontana dal nero brillante della seta e del velluto, anche se il nero della bandiera di molte formazioni terroristiche islamiche, da Al Qaeda all'Isis, risale – secondo un documento diffuso già nel 2007 (cfr. Artur Beifuss, Francesco Trivini Bellini, Branding terror. Loghi e iconografia di gruppi di rivolta e organizzazioni terroristiche, 24 ORE cultura, p. 61) – al vessillo di battaglia nero usato da Maometto, un lembo di velluto quadrato, appartenuto alla moglie Aisha. Nell'Islam il colore nero sottolinea poi la stretta osservanza della religione islamica (ivi, p. 51). Ma il nero della bandiera del Califfato sunnita con la scritta della shahada, la dichiarazione di fede musulmana (Non c'è dio se non Allah, e Maometto è il suo messaggero), predomina nei video che esibiscono la violenza più feroce contro gli uomini e l'ansia di distruzione nei confronti dei monumenti del passato, assumendo precisamente il significato di colore del terrore, per chi lo pratica e per chi ne ha paura.

 

 

La valenza negativa del nero – di contro a quello positivo, legato alla fertilità, alla speranza, all'eleganza – risale al mondo antico, ai miti greci legati alla dea della notte, alle tenebre dell'abisso nelle quali il Dio della Bibbia dice «sia luce» e prosegue nella storia sociale con la sua connessione alla morte e al lutto, percorre tutto il Medioevo che assegna questo colore – assieme al viola – al servizio funebre. Nell'iconografia il nero diventa il colore del Male, del peccato, del corvo che è stato punito perché ha parlato o si è vantato troppo, di Satana che assume il corpo del gatto, del cinghiale, del lupo, dell'orso, del grifone e del drago nelle tinte più scure (cfr. Michel Pastoureau, Nero. Storia di un colore, trad. it. di Monica Fiorini, Ponte alle Grazie, Milano 2008).

 

Per quando attiene al periodo moderno val la pena di ricordare le ombre cupe della cena in nero, organizzata dai gesuiti nel giardino di Versailles per Luigi XIV, il re Sole che, per l'occasione, rivestiva il ruolo di Plutone, re delle tenebre (Mariangela Surace, Nero. La religione di un colore e i suoi fedeli laici, Castelvecchi, Roma 2000). Il carattere malvagio del nero prosegue poi nel nero alchemico, simbolo della putrefazione, nel nero della notte del Sabba delle streghe, nel nero della peste, nel nero del carbone che dipinge le città inglesi della rivoluzione industriale, nel nero delle trincee della grande guerra dipinte da Otto Dix e dei disegni di Alberto Martini nella Danza macabra europea.

 

Anche in ambito politico il nero non ha un significato univoco: viene utilizzato come espressione ribelle dagli anarchici, dalle Black Panthers degli anni Sessanta e da molti altri gruppi che nella seconda metà del Novecento hanno ostentato la loro rivolta indossando un abito nero. Se nel caso delle Pantere nere il riferimento va al colore della pelle e all'animale simbolico, più difficile è rintracciare l'origine della bandiera nera anarchica che fa la sua comparsa negli anni Ottanta dell'Ottocento, forse per iniziativa della militante francese Louise Michel e forse come ripresa della bandiera dei pirati, come sembra suggerire Pastoureau (p. 190). Bandiera nera – ma qui il senso è esplicitamente connesso con il lutto – è anche la bandiera degli alpini della canzone della brigata Julia e quella dei partigiani nella canzone di Nuto Revelli.

 

 

Nella tradizione della destra troviamo le camicie nere nelle sfilate dei fascisti nelle quali il nero sottolinea l'appartenenza al partito ed enfatizza l'incedere del gruppo che si muove all'unisono; nella descrizione di Fortunato Depero: «camicia nera dell'anno XX, a prova superchimica e superguerriera, elastica nella casa; rigida nella cerimonia; imperforabile dalla mitraglia; cucita con i pugnali, abbottonata con i bulloni» (citato in Surace, p. 56). Nere sono anche le uniformi delle SS (Schutzstaffel), che superano a destra le SA (Sturmabteilung), le cui camicie brune hanno una curiosa origine casuale legata alla disponibilità di uno stock di camicie destinate ai reparti tedeschi in Africa. Non si tratta qui di un nero ribelle, ma soltanto di un nero violento, che nulla ha a che vedere con il nero degli anarchici, «a meno che – scrive Michel Pastoureau – questi diversi neri – reazionario, anarchico, nichilista, fascista, hitleriano – non finiscano per incontrarsi e per riunire sotto un unico colore le tendenze più estremiste. Una delle caratteristiche più costanti del simbolismo occidentale in effetti, è di avvicinare o di fondere gli estremi. Accade lo stesso sul piano ideologico e politico?» (p. 190). No, direi proprio di no: il nero della protesta, il nero esistenzialista, il nero anarchico contengono una punta di disperazione e un'istanza di libertà.

 

Detenuti a Guantanamo

 

Esecuzione dell'Isis

 

Al nero della bandiera islamista si accompagna nei video dell'Isis l'arancione, il colore delle arance, degli abiti dei monaci buddisti, dello zafferano e della curcuma. È invece il colore delle tute dei prigionieri di Guantanamo. Serve a renderli più visibili in caso di fuga, fuga dalla prigione americana e fuga dagli assassini islamisti. Del resto, come si sa, nell'abbigliamento l'arancione non è mai stato un colore elegante: rende pallida e verde la pelle.

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