Ritorno a Mango Street / I messicano-americani di Sandra Cisneros
Nepantla è la parola azteca che indica la dimensione dell’in-between. Il territorio nel mezzo, dove i confini si rimescolano e il nuovo prende forma. È la chiave che schiude le porte della cultura chicana, luogo per eccellenza fluido di lingue e tradizioni, a partire dall’opera di Sandra Cisneros di cui La Nuova Frontiera rimanda in libreria La casa di Mango Street (traduzione Riccardo Duranti, 128 pp.). Ormai un classico contemporaneo, è il libro che ha traghettato nell’immaginario collettivo la realtà dei messicano-americani nella voce incantevole della sua protagonista – Esperanza Cordero, la bambina che vorrebbe chiamarsi Hope perché in inglese il suo nome suona “come se le sillabe fossero di latta e facessero male quando sbattono sul palato”.
Tra fiction e memoir, Mango Street la coglie nell’attimo di sospensione tra infanzia e adolescenza – nel turbamento di un tempo che tramonta e la fantasia che si affaccia al futuro. A rendere unico l’arco del suo crescere, la complessità dello spazio fisico e mentale in cui si dipana. Quello di Esperanza è un microcosmo che trabocca di personaggi, affetti, vita. La sorellina Nenny compagna di avventura, la madre amatissima. Una casa “piccola, rossa, con una scala stretta davanti e le finestre così piccole che sembrano trattenere il fiato”, sempre troppo affollata e rumorosa. La povertà di un barrio. E il quotidiano incontro/scontro con l’America, i suoi sogni, le sue solitudini abissali e i suoi valori così diversi.
La trasparenza autobiografica infonde al racconto il sapore inconfondibile della verità. Sandra Cisneros viene da quel mondo, è figlia di messicani che prima di stabilirsi a Chicago hanno percorso come tanti le rotte della migrazione circolare tra Messico e Stati Uniti. Si va a nord per lavorare e quando nei campi, nei giardini e nei cantieri non c’è più bisogno di braccia, si ritorna a casa. Su e giù. Uomini, donne, bambini. Intere famiglie risucchiate dal ciclo di uno sradicamento che asseconda il ritmo delle stagioni. Finché qualcuno, come la famiglia Cisneros e quella di Esperanza, si ferma.
A quarant’anni dalla pubblicazione, La casa di Mango Street mantiene intatta la sua freschezza. Sono pagine che fin dal nome della protagonista aprono alla speranza, distanti dalle cupe suscettibilità che oggi marcano tanta letteratura identitaria. Le contraddizioni e i semi del disincanto che attraverserà tanta parte dell’opera successiva di Cisneros sono tutti lì ma l’orizzonte delle possibilità rimane aperto e luminoso. Oltre Mango Street ci sono un domani, un’altra casa da costruire, una vita da vivere alle proprie condizioni. C’è la scelta di andarsene per poter tornare. “Per quelli che mi sono lasciata dietro. Per quelli che non ce la fanno a scappare”.
È la chiave universale del coming-of-age etnico a decretare la fortuna del libro. Pubblicato inizialmente da Arte Público Press, specializzata in cultura Latina, nel 1989 è ristampato da Vintage Press e raggiunge il pubblico mainstream. Vende sei milioni di copie, è tradotto in dodici lingue, si assesta nella lista dei long-seller e da anni è una lettura obbligatoria nelle scuole americane – il che non ne fa però un libro facile.
Sandra Cisneros e la sua bambina Esperanza colgono con lucidità l’intreccio dei confini che intersecano il loro mondo – l’altalena fra due lingue e due culture, le dinamiche generazionali, la povertà, le discriminazioni e la pressione ad annullarsi nella società maggioritaria. Sono le tensioni che a ogni latitudine segnano le identità minoritare, ma nel caso dei Chicanos assumono una valenza particolare. Il termine contiene infatti sia gli immigrati dal Messico sia i discendenti dei messicani che nel 1848, dopo l’annessione da parte degli Stati Uniti di Texas, New Mexico, Arizona e parti della California, un tratto di penna ha tagliato fuori dalla terra madre.
Portatori di una lingua, una cultura e tradizioni ancestrali, da un giorno all’altro si sono ritrovati minoranza. È un’esperienza per certi versi assimilabile a quella dei nativi americani, che la contiguità del confine con il Messico e il sostenuto flusso migratorio hanno però finito per modellare in modo ben diverso. Negli Stati Uniti, i Latinos (non solo di origine di messicana) a breve saranno maggioranza – come le politiche anti-immigrazione di Trump hanno sottolineato con tanta crudezza.
Non per caso La casa di Mango Street nasce dopo un’esperienza infelice al prestigioso Iowa Writer’s Seminar dove sono passati autori come Raymond Carver, Kent Haruf, Marilynne Robinson e Philip Roth. Nella culla dell’establishment letterario, Sandra Cisneros si sente fuori posto e fuori sintonia.
“Sapevo di essere una donna messicana”, ricorda. “Ma non pensavo che ciò avesse a che fare con lo squilibrio che sentivo nella mia vita, sempre che avesse a fare con quello. La mia razza, il mio genere, la mia classe! E non ha avuto senso fino a quel momento, quando mi sono trovata in quel seminario. È allora che ho deciso di scrivere di qualcosa di cui i miei compagni non potevano scrivere”.
Quando lo fa, si dà una voce capace di rispecchiarla, “qualcosa che fosse abbastanza lirico da passare l’ispezione dei miei schizzinosi compagni di corso, ma anche così aperto da accettare tutte le persone che amavo nel mio quartiere”.
In questa tensione il concetto di Nepantla, la terra di mezzo, si rivela una bussola preziosa. “Sono un traduttore. Sono un anfibio. Posso viaggiare in entrambi i mondi”, scrive Sandra Cisneros. “Quello che dico è molto importante per la comunità Latina ma è anche importante per la comunità bianca. Quello che dico nella mia scrittura è che possiamo essere Latinos ed essere ancora americani”.
Abitare nello spazio di confine è scegliere di navigare la diversità. È la possibilità di avere “il doppio delle parole fra cui scegliere ... due modi di guardare al mondo”, “una più ampia gamma di esperienza”. È la potenza di un’arma “a doppio taglio” che la sua scrittura restituisce con immediatezza.
Lo spagnolo s’inserisce senza sforzo nell’inglese, lo insaporisce come “una nuova spezia” e ne piega i ritmi e le cadenze senza mai diventare oscuro o artificioso. È la lingua parlata di tante case, lo spanglish che si fa letteratura.
Mentre valica i confini del barrio, la traiettoria di Mango Street segna uno stacco netto dalla cultura patriarcale. Esperanza rifiuta di diventare una delle tante donne che in queste pagine guardano il mondo dalla finestra di casa, prigioniere di figli, faccende e mariti, ammutolite dalla nostalgia di una patria lontana o dall’insondabile mistero dell’inglese.
Non vuole crescere “tranquilla come le altre che si affacciano sulla soglia in attesa della catena al piede. Nei film c’è sempre quella dalle labbra rosse che è bella e crudele. È lei che manda ai pazzi gli uomini e li scaccia a forza di risate. Il potere è tutto suo. Non lo regala a nessuno”.
In un rimando esplicito a Virginia Woolf, Esperanza vuole “una casa vera”. “Una casa tutta mia, con il portico, un cuscino su cui riposare e le mie preziose petunie color porpora. I miei libri e i miei racconti, il mio paio di scarpe pronte accanto al letto. Nessuno contro cui agitare il bastone. Nessuno a cui stare dietro e rimettere a posto le sue cose. Solo una casa silenziosa come la neve, uno spazio in cui rifugiarmi, pulito come la carta prima di scriverci una poesia”.
È dunque riduttivo risolvere queste pagine in chiave etnica, come spesso si è fatto. Non solo la questione di genere, così centrale nella produzione successiva dell’autrice, risuona forte e chiara. Ma la ricerca di un modello paritario non si esaurisce nella società latina ma chiama in causa la stessa cultura anglosassone.
Altrettanto mistificante è appiattire la scelta di Esperanza nella retorica individualista dell’American Dream. Non basta lavorare sodo e chiunque ce la può fare, manda a dire Cisneros. “Non voglio che i giovani del barrio mi vedano come una specie di esempio di tirarsene fuori con la forza di volontà. È l’ultima cosa che voglio. Voglio che mettano in discussione il sistema educativo e l’intero sistema creato per evitare che diventino ciò che io sono diventata. Io sono l’eccezione, non la regola”.
Quanto a lei, “madre e moglie di nessuno”, dopo il successo di Mango Street approda a San Antonio, Texas, cuore pulsante della cultura chicana, dove vive a lungo. Lì rimoderna una splendida abitazione nel quartiere vittoriano di King William nei colori accesi del gusto messicano. È una casa come la sognava Esperanza, la promessa di un’identità libera di reinventarsi, uno spazio dell’immaginazione, un luogo quieto in cui leggere e scrivere. E ancora una volta, nel modo più sorprendente la sua casa catalizza la conversazione pubblica.
Quando tinteggia gli esterni nell’abbagliante viola pervinca della tradizione messicano-texana, i turisti accorrono, i benpensanti del quartiere rizzano il pelo e la storia finisce sui giornali. È una casa che dice al mondo “Sono molto messicana e ne sono orgogliosa ed è un altro modo di essere americana”, spiega al New York Times.
La diatriba si risolverà con un compromesso. Il viola diventerà rosato e tutti se ne faranno una ragione.
Anni dopo, ormai stabilitasi in Messico dove tutt’ora vive, affitterà per qualche giorno un Airbnb di fronte all’abitazione che per trent’anni era stata sua. “Ho guardato la mia casa e la mia casa mi ha detto Ti dispiace avermi venduta? Non vorresti che fossi la tua casa?”, racconterà a Npr.
“E ho detto, No, è molto bello guardarti adesso. Sei cambiata. Sembri diversa. Non voglio neanche vedere come sei dentro. Ma sai, sei stata il mio amore. Ti ho lasciata andare, mi hai dato gioia e sono felice di andare avanti”. Il bello delle case, sostiene, è farle proprie. Quando i confini si irrigidiscono, è tempo di riprendere il cammino.