Speciale

Il guerrigliero

18 Settembre 2011

 

 Il partigiano più famoso del Novecento, divenuta icona del rivoluzionario, è indubbiamente per una serie di motivi Ernesto “Che” Guevara. In Sud America anzitutto l’idea di un rivolgimento sociale in senso comunista brilla di luce propria, in quanto ormai sganciata dalla commistione con la liberazione coloniale, viceversa ancora fortemente significativa in Africa e in Asia; inoltre la vicenda personale del combattente a favore di tutti i popoli oppressi e non solo del proprio, nonché la tragica ed emblematica morte, contribuiscono in modo decisivo a forgiare il modello. Guevara fu anch’egli un teorico della guerriglia per deduzione, ma le sue formulazioni non si discostano molto da quelle di Mao: disciplina interiore, nobiltà e audacia, radici popolari e conoscenza del territorio, impegno social-rivoluzionario. Piuttosto possiamo prendere la sua vicenda paradigmatica per svolgere alcune distinzioni e riflessioni ulteriori.

 

Essendo partiti dal mito classico e giunti fino al Novecento si è assistito ad una banda di oscillazione piuttosto ampia nella quale si inserisce il raid. La sua versione originaria, più pura per così dire, aveva marcati caratteri di eccezionalità e di finalità interne. Vogliamo dire che si stagliava gloriosa e memorabile, sia perché unica e quasi irripetibile – magari anche risolutiva del conflitto -, sia perché, di conseguenza e parallelamente, compiuta in sé con perfetta forma come un capolavoro fatto appunto soltanto per il gusto di farlo. Forse questa era la concezione dei popoli vittoriosi, tanto potenti da permettersi un gesto audace ed elegante da imporre quale supremo sigillo sulla loro condotta abituale, mentre fin dall’antichità l’abitudine al raid era più propria ai deboli e agli aggrediti. Certo nel Novecento ciò diviene regola e la singola impresa si ripete trasformandosi in guerriglia, talvolta di lunghissimo respiro come in Cina o semplicemente endemica senza che se ne intraveda una fine.

 

Tale dinamica di accrescimento pare del resto insita nel raid. Il suo forte impatto spettacolare ed esempio pedagogico stimola all’emulazione per raggiungere gli stessi cieli della fama dove vivono in perpetuo gli eroi. La versione più allargata e accessibile, cioè la guerriglia, conferma la tendenza: Castro nel novembre 1956, quando Guevara era ancora il medico del gruppo, pur cercando di far credere ad un numero elevato di compagni ed al controllo del territorio, parte in realtà con una ventina di uomini, ma già un mese dopo ha con sé settanta partigiani. Via via che gli attacchi alle guarnigioni dell’esercito di Batista, che stanno nella Sierra Maestra o che la attraversano in colonne, hanno successo fruttando armi, equipaggiamento, prigionieri, medicinali e credibilità, i combattenti si moltiplicano, le formazioni si possono strutturare e suddividere.

 

Insieme all’emulazione cresce anche il travestimento. Molti bandoleros, già più o meno presenti nella selva, cominciano a fregiarsi del termine rivoluzionari per meglio mascherare le soperchierie ai danni delle popolazioni locali. Guevara, ormai già comandante (cioè maggiore, il grado più alto nel piccolo esercito rivoluzionario), ordina al proprio luogotenente Camilo Cienfuegos una rapida azione per neutralizzare questo demone della somiglianza (va ricordato infatti che in certi momenti i guerriglieri stessi, a corto di cibo, non andavano troppo per il sottile e che non sempre era facile distinguere contadini fiancheggiatori o costretti a collaborare con il nemico). Presa prigioniera e processata la banda, anche grazie alla presenza nel gruppo rivoluzionario di Humberto Sori Martin che era un vero avvocato, il loro capo Cino Chang viene condannato a morte quale vero responsabile, mentre i suoi desperados sono liberati; tre di loro, racconta soddisfatto il Che, sono addirittura “redenti” ed arruolati tra i suoi.

 

Allontanare la scomoda etichetta di banditi, che il governo vuole ostinatamente cucirgli addosso, porta a sviluppare regole interne di comportamento assai ferree, con apposite “commissioni disciplinari” per vigilarle, non da tutti sopportate, cosicché si hanno spesso defezioni tollerate perché sempre più compensate con abbondanti, nuovi reclutamenti volontari. Quando Castro in un’intervista sosteneva mentendo che erano state allora comminate pochissime pene capitali, racconta un aneddoto, in sé tragico e divertente, ma soprattutto per noi illuminante. Un uomo di forza erculea, chiamato il Maestro, ad un certo punto decide di farsi crescere la barba alla Guevara (forse primo fra i tantissimi) e, sfruttando una presunta somiglianza, di farsi passare per il Comandante, cosicché con il pretesto di visitare le contadine le violentava.

 

L’iterazione del raid di guerriglia conduce alla proliferazione della guerriglia stessa di cui proprio Guevara fu agente patogeno o consapevole portatore sano a seconda da dove parte lo sguardo. Nel dicembre 1964 egli si trova a New York presso le Nazioni Unite in qualità di ministro dell’industria del neonato governo cubano, parte da lì verso Algeri e gira quindi fino a marzo per tutta l’Africa. I biografi del Che solo piuttosto recentemente hanno riempito il buco nero del 1965, che venne impiegato, attraverso l’invio di istruttori cubani, per alimentare la guerriglia lumumbista in Congo. Due soli passaggi, tratti rispettivamente da una lettera di congedo a Castro e dal diario che rievoca i consigli per far fiorire le rivoluzioni africane, a sottolineare l’infinita ripetibilità delle somiglianze:

 

Altre terre del mondo reclamano i miei modesti sforzi […] Ribadisco che libero Cuba da qualsiasi responsabilità, salvo quella che emana dal suo esempio.

 

Il soldato rivoluzionario si forma in guerra […] Ho proposto loro di non effettuare l’addestramento nella nostra lontana Cuba, ma nel vicino Congo, dove si lottava.

 

La differenza tra raid singolo e guerriglia non investe soltanto una questione quantitativa. L’accrescimento per ripetizione del raid lo inquadra infatti in strategie di maggiore complessità e lo pone al servizio di obiettivi più ampi ed in qualche modo ad esso estrinseci. Sia il patriota ottocentesco che il rivoluzionario del Novecento considerano la guerriglia parte di un’azione più generale che spesso affianca o anticipa l’avanzamento di truppe regolari (così può essere intesa per esempio la spedizione dei Mille) o ancora prepara un’insurrezione diffusa sfociante in guerra di popolo. Ciò comporta anche una variazione delle finalità, che vanno ormai identificandosi con la presa del potere attraverso la cacciata degli occupanti o il rovesciamento del governo presente. Così mentre i protagonisti del raid tornano al punto di partenza chiudendo il disegno classico e pago di sé, coloro che utilizzano i raid in frequenza di guerriglia mirano ad accamparsi nel luogo simbolico che hanno attaccato. Ecco perché Garibaldi che si ritira ogni volta a Caprera senza aver conseguito alcun utile personale o Guevara che abbandona gli incarichi ufficiali del governo cubano per continuare altrove la lotta incarnano l’icona più pura del raider anche quando ampliato a guerriglia.

 

Più la sottrazione o la distruzione si moltiplicano e contemporaneamente si allontanano dal resto dell’operazione, più il raid diviene mezzo per fini altri perdendo forse parte del suo fascino e della sua pregnanza. Vogliamo leggere allora – forse paradossalmente quanto ad un ideologo della rivoluzione mondiale – anche questa idea d’eccezionalità di raid e raiders nelle indicazioni di Guevara ai suoi perplessi allievi congolesi:

 

Ho spiegato loro ancora una volta che, a causa del modo in cui venivano reclutati, bisognava considerare che di cento uomini soltanto una ventina sarebbero risultati possibili soldati e che, di questi, solo due o tre avrebbero potuto diventare quadri dirigenti (nel senso di essere in grado di guidare una forza armata in combattimento).

 

 

 

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