Il labirinto del presepio napoletano
C’è il presepe e poi c’è il presepe napoletano. Nella città partenopea il racconto visivo della Buona Novella prende “una caratterizzazione cittadina, folklorica, ambientale, spettacolare per cui la dimensione sociale finisce per soverchiare quella religiosa”. E non è tanto il substrato pagano che vive ancora dentro il presepe – sì c’è anche questo –, ma piuttosto il fatto che nell’urbe campana la singolare alchimia tra natura e storia ha fornito allo sviluppo sociale della città “un incedere estremamente lento e cumulativo”, per cui, a differenza di altre località italiane ed europee, Napoli conserva antichi usi e costumi. Il presepe è uno di questi, uno dei più popolari. Marino Niola e Elisabetta Moro ci guidano nel loro bel libro Il presepe (il Mulino), nel percorrere quel labirinto che è la sacra rappresentazione di statuine. Lì, in quella messa in scena così imparentata col teatro da esserne una sorta di sottogenere, il popolo assedia la Sacra Famiglia, poiché è proprio lui il vero protagonista della rappresentazione, dove abbondano non solo i mille mestieri della città, ma anche la corte dei miracoli dei deformi, dei gozzuti, degli sciancati e dei ciechi. Napoli è città crudelmente misericordiosa con i pezzenti, luogo dove la povertà ha la meglio sulla miseria, perché anche l’ultimo della fila ha un suo posto nel grande teatro del mondo che è il presepe napoletano. Per riprendere un’espressione di Giorgio Agamben dal suo Infanzia e storia (Einaudi), gli esclusi non “significano più alcun evento futuro ma solo la profana innocenza della creatura”. Innocenza e creatura sono due termini fondamentali per capire il presepe partenopeo, il suo substrato di significati simbolici che qualunque napoletano coglie al volo tanto da non doverne mai parlare dal momento che è per tutti lì palese. Non era un caso che Pasolini avesse scelto un giovane napoletano, Gennariello, da istruire nel suo dialogo pedagogico poi raccolto in Lettere luterane, poiché a Napoli il popolo che aveva incontrato a Roma nelle borgate, esisteva ancora e abitava il centro della città storica, senza esserne stato espulso, mentre altrove l’omologazione era avvenuta senza resistenza alcuna, quella mutazione antropologica che lui viveva come un genocidio. Lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius, che fu a Napoli a metà dell’Ottocento, vide con lucidità nel piccolo teatro di cartapesta, che circondava la venuta terrena di Dio nella forma del suo Figlio prediletto, la divinizzazione del popolo della città, una forma di epica quotidiana, alla maniera di Omero ed Esiodo. Nel presepe ci sono tutti, dai pastori agli angeli, dai politici del momento alle figure minute della vita quotidiana, mestieri e professioni, insieme ai miseri e al cagador, così come la Napoli dai mille strati mescola ogni giorno senza pausa. Citando Manganelli autore di Il presepe (Adelphi), gli autori ci ricordano che il divino miniaturizzato nel presepe ha la medesima statura della sua totalità. Questa forma d’arte, espressione di una fantasia e di una immaginazione singolare, e insieme collettiva, è comunque figlia del demone barocco dell’iperbole “che mescola le storie, sovrappone le scene, aggiunge personaggi”, poiché il teatro della nascita di Gesù non è fissato nel tempo, ma evolve di anno in anno raccogliendo dalla cronaca stessa, come se fosse un racconto mitico, le vicende più eclatanti o fantasiose, quelle che più hanno colpito l’immaginazione della gente, che qui ancora esiste e non è un’entità propria della sociologia, bensì una realtà sacra in via di trasformazione. Come nota Marino Niola il presepe napoletano è una macchina anti-tragica, parente prossimo del teatro, del gioco e del circo di cui conserva la crudeltà effimera e lo stordimento pauroso dell’infanzia. Scenografia d’un sogno: ecco cosa è il presepe, e insieme momento devozionale. Certo, se il tragico è eliso, oppure giocato nell’accumulo eteroclito di figure e piccole scene, resta ancora un elemento utopico figlio di quella tragedia, dal momento che questo presepe, affollato di tante figurine minime e complesse insieme, è la forma dell’utopia di una comunità che aspira ad essere in pace con sé stessa. Aspira, poiché non lo è, eppure il negativo è imbrigliato dentro il teatrino della rappresentazione come una forma in potenza, che può sempre esplodere, eppure non accade mai. Che meraviglioso equilibrio c’è nel caotico presepe napoletano! Chi guarda non sa cosa fissare nel moltiplicarsi di atti e azioni potenziali, che lì dentro avvengono in forma miniaturizzata. Niola lo definisce un “microcosmo di letizia”, che è quello che a Napoli si sente fluttuare nell’aria insieme a una tensione e a un nervosismo che lo straniero non riesce mai a capire da cosa sia causato – colpa mia?, ci si domanda attoniti, parlano con me? Nel presepe partenopeo c’è tutto questo.
Ma come si è arrivati a questo teatro della vita? Fausto Nicolini, storico, in un articolo del 1930 ne ha fissato il canone storiografico: “Un passatempo creato dall’età barocca e perfezionato da quella roccocò”. C’è un confine che separa il secolo barocco da quello delle utopie politiche e sociali, spostando in avanti la storia del presepe di Napoli, parente certo di quello francescano, ma anche sua antitesi, dal Rinascimento al XVII secolo. Si tratta non tanto della storia artistica, bensì di quella sociale, che qui si accavalla all’altra, a quella estetica, e ne modella le forme ben al di là del fatto artistico. La tradizione presepiale, spiega Nicolini, sembra derivare da quelli che nella teatralissima vita quotidiana sei-settecentesca dei paesi italo-spagnoli si chiamano “apparati”, ovvero processioni, parate, cortei, funerali, funzioni sacre, e via discorrendo. Insomma più una genealogia performativa che non artistica, che nella ricostruzione dello storico supera anche le annose discussioni tra chi abbia fatto il primo presepio, se gli scolopi, i teatini, i gesuiti o ancora altri. Sono proprio i gesuiti a promuovere il presepio come fecero nella lunga controriforma i discepoli di Ignazio di Loyola popolarizzando il presepe stesso. Il più antico e documentato presepe napoletano è quello realizzato nel Natale del 1627 dai padri Scolopi, presto imitati dal popolo, e da chi poteva permettersi di realizzare il “Presepio di Cristo”. Ma come tutto questo si rapporta con quello che nel presepio napoletano – di questo presepio e non di quello di San Francesco si tratta – ci ha visto Giorgio Manganelli? Nel suo libro lo scrittore ha annotato: “Universale incantagione, una fascinazione direi, un sabba pudico”. Non siamo qui scesi negli antri della storia passata, nel paganesimo antecedente l’avvento della religione cristiana, ma nelle grotte della psicologia collettiva, perché il “sabba pudico” appartiene alla dimensione psichica più che a quella storica, all’archetipo che si è incarnato nella vita della città partenopea, così da non avere più nessun stampo o marchio storico, per assumerne invece uno universale nel trionfo del suo Presepio. Il sacro evento, scrive Niola, appare come già avvenuto da sempre, prodotto fuori scena, che si mostra in forma velata nella rappresentazione. Il presepio è un congegno per sopprimere il tempo, un tempo sempre dimenticato e tuttavia sempre evocato come presenza attuale nella “replica dei simulacri che ne rappresentano la vicenda, eterna nella sostanza mutevole della forma”.
Il Barocco è naturalmente metafisico, ma insieme anche fisico, e così si trasforma in recita nell’evoluzione roccocò: elaborazione senza sacro di qualcosa che in origine lo era. La storia c’è nel presepe napoletano, ma come richiamo del sempre uguale, della ripetizione o reiterazione. Nel presepio raccontato da questo libro appare anche la borghesia che è stata, nonostante tutto, la custode di questo rito teatrale. Alla fine dell’Ottocento si è scritto che il presepe “era, in specialità, una devozione ed una magnificenza della nostra borghesia”, come ha detto Francesco Proto, duca di Maddalena, grande collezionista e studioso di arte presepiale. C’è anche lo sviluppo della devozione tardo seicentesca in senso intimistico, famigliare, domestico, esempio eclatante del nuovo protagonismo sociale della borghesia – esiste certo anche una borghesia napoletana, per quanto confinante col popolo e mai staccata da esso, per quanto il “popolo” sia una entità quasi magico-sacrale, difficile da identificare come tale: inafferrabile come ogni divinità o vero un archetipo. Il presepio è divenuto nell’Ottocento l’altare domestico, un larario famigliare, su cui si è soffermato Roberto De Simone che ne ha pure decretato la morte. Questo presepio lo incontra persino Goethe nella sua discesa in Italia su un terrazzo napoletano, fastoso e suntuoso esempio di quel barocco che abita le chiese e le sculture della Napoli profonda e vivissima. Ma sopra tutto e tutti c’è la narrazione ierofanica, che nel secolo della borghesia riprende il sopravvento coi bellissimi e privatissimi presepi borghesi. Per smentire questo corso borghese della rappresentazione, in Il presepio popolare napoletano (Einaudi) il regista e teatrante racconta la storia del Cimitero delle Fontanelle, la cava di tufo posta sul margine del quartiere di Sanità, con cunicoli che sembrano arrivare sotto la collina di Capodimonte. Lì c’è il più grande ossario della città, oggetto di innumerevoli racconti e storie anche contemporanee. Lì ci sono le “anime pessentelle”, o “capuzzelle”, che aspettano di trovare pace dalla pena in cui permangono, per le quali i devoti pregano cercando d’abbreviare il tempo della loro permanenza purgatoriale. Sono i morti il segno dei vivi, la loro rappresentazione rovesciata, specchio di Alice, che non è però necessario varcare, poiché a Napoli prevale l’aspetto della rappresentazione su quello della realtà una e immutabile: la cultura partenopea, scrive Niola, “proietta nell’altro mondo la concezione indulgenziale della vita, la mutualità solidale e contrattuale che ne ordina i valori comunitari”. I morti e i vivi si trovano in stretto rapporto, e anche il presepio ne reca la traccia evidente. Una volta realizzato nella prima grotta delle Fontanelle, una sorta di vestibolo infero, scrive De Simone, la Natalità con figure provenienti dalla chiesa della Madonna di Piedigrotta, ci si accorse che mancava il Bambino, ma la notte di Natale mentre nella cappella accanto si diceva la Messa di mezzanotte, dal soffitto della caverna si staccò un pezzo di roccia che prese la forma di Gesù. Così che il Divino Infante è ancora là alle Fontanellie: tutto nero, un pezzo di roccia, una pietra santa, come le pietre che scarpesiamo, scrive De Simone, che calpestiamo tutti i giorni. Il bagliore epifanico del sacro a Napoli prende le forme più inconsuete, ma per vederlo ci vuole qualcosa di particolare e di unico, una somma ingenuità mescolata a quella astuzia che il popolo lì sembra possedere, perché è solo nella polarità degli opposti che accade tutto in questa città porosa, come la definiva Walter Benjamin, ovvero città che si imbeve di sé stessa. Il presepe qui, a differenza che a Greccio, è un modello plastico: mostra la medesima sostanza di cui sono fatti il mito, il rito, il sogno, il teatro e la musica, una compresenza di differenze, di elementi eterocliti che la cornice festiva accorda tenendoli in armonia”. A Napoli tutto è diverso rispetto ad altri città o luoghi, e tutto è diverso da quello che appare: appare. E ci vogliono gli occhi giusti per vederlo, e il cuore accordato con quelle immagini e con quei suoni per sentirlo.
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