Il linguaggio di Snoopy e la ragazzina dai capelli rossi
L’appassionante questione del linguaggio degli animali ha attraversato, si sa, l’intera a storia del pensiero occidentale. Le bestie parlano? quali strumenti usano per farlo? che cosa dicono, esprimono soltanto emozioni o anche concetti astratti? a chi si rivolgono? discutono fra loro o con altre specie, uomo compreso? Oppure, se non sanno farlo, l’uomo è l’unica specie vivente in grado di comunicare? Come un lenzuolo troppo corto, la competenza linguistica è stata tirata ora dal lato dalla specie umana (dunque della cultura) ora da quella di tutti gli esseri viventi e senzienti (ossia della natura), finendo per scontentare tutti quanti. Fa strano, oggi, pensare che gli umani siano i soli esseri al mondo a possedere la lingua. Perché proprio loro e non altri? Più agevole forse sostenere, come faceva Montaigne, che gli animali sanno perfettamente parlare: sono piuttosto gli uomini, stupidi, che non li capiscono.
Aveva a suo modo risolto il problema Charles M. Schulz (sì, lui, quello dei Peanuts), facendo saggiamente in modo che le capacità comunicative cambino, volta per volta, a seconda dei personaggi, delle loro necessità del momento, delle poste in gioco. Nelle sue strisce ci sono da una parte i bambini (da Charlie Brown a Linus, da Lucy a Sally a Piperita Patty a Schröder…) e dall’altra gli animali (da Woodstock a Spike, dal gatto dei vicini agli insettini invisibili), che non hanno alcun contatto fra loro. E in mezzo ci sta Snoopy. Il quale, secondo le convenzioni dei fumetti, non parla ma pensa (dai suoi balloon partono nuvolette). Il suo pensiero non ha però sempre lo stesso valore. In alcuni casi gli umani non lo capiscono mentre gli animali sì. In altri alcuni bambini lo comprendono e altri no. In altri ancora lo intendono tutti. Da che cosa dipende? La risposta è tanto ingegnosa quanto evidente: da quel che sta facendo, dagli scopi che vuol ottenere, dalle situazioni in cui si trova, da come e da quanto vuole coinvolgere i suoi interlocutori: a seconda se ha in animo di rimpinzarsi, giocare, ballare, scrivere, dormire, inventarsi nuovi avatar, far rimpatriate coi vecchi commilitoni o coi fratelli sparsi per il mondo, la funzionalità del suo linguaggio è più o meno efficace, più o meno silenziosa. Quel che conta, per lui, non è la dotazione linguistica di partenza ma il valore sociale dell’atto linguistico. In questo, ammettiamolo, Schulz ha anticipato Austin, Searle e tutti gli studi sulla pragmatica della comunicazione.
Ma la cosa non finisce qui. Se si inverte il punto di vista, ci accorgiamo infatti che il piccolo pet ha una prerogativa non comune: Snoopy capisce tutti, indifferentemente umani e non umani. E, fra l’altro, sa trasporre i rispettivi linguaggi da una sfera all’altra. Snoopy, quando vuole, è un traduttore perfetto: non trasferisce solo messaggi ma anche affetti, valori, fantasie. In quanto bracchetto Snoopy è un bastardo, un apolide; forse per questo è uno che si arrangia, un furbo, un narcisista, uno smargiasso. Ma in quanto comunicatore è un mediatore eccellente, un ponte fra mondi estranei, un terzomondista senza saperlo. Per questa ragione, con buona pace dei numerosi fan di Linus (suo principale sodale, del resto), è senz’altro il personaggio centrale dell’universo narrativo dei Peanuts.
Che ne è di tutto questo in “Snoopy & friends”, ambiziosa opera cinematografica che già dal sottotitolo – “Il film dei Peanuts” – esibisce una pericolosa antonomasia? Ahimè, molto poco, anzi nulla: Snoopy non parla, spesso nemmeno capisce, né umani né non umani. Emette suoni inarticolati che a mala pena esprimono vaghe e fuggenti emozioni. Anzi sembra che, novello Pinocchio, aspiri a essere ammesso nella sfera degli umani senza riuscirci del tutto. Per il resto, sono capriole aeronautiche in un duello senza fine contro il Barone rosso, a inseguire una fantomatica bracchetta tutta ciglia di cui s’è perdutamente innamorato. Lo Snoopy traduttore e terzomondista, nel film, viene ridotto alla stregua di un peluche, banale merchandising di se stesso, per la gioia istintiva di grandi lettori e ignari piccini. Il pet torna a essere un pet e nient’altro, ‘cucciolo caldo’ direbbe qualcuno, tanto cariiiiino quanto insignificante.
Col che, si badi, non sto giocando a confrontare Originale e Copia, strisce e film, alla ricerca di fedeltà o tradimenti. Anzi, sono andato a vedere questo film – curato, si sa, dagli eredi del celebre vignettista – alla ricerca di estro, di innovazione, di nuove storie e nuove forme per raccontarle. Trasporre al cinema la serialità a loop delle strisce di Schulz, il suo cinismo al tempo stesso leggero e spietato, la sua ironia senza sbavature, la sua critica feroce alla società americana, il suo amore immenso per i bambini non era né facile né indubitabile. I precedenti avevano fatto fiasco, e quest’opera era stata annunciata come l’esito di una svolta creativa. M’aspettavo di tutto tranne che un ipotetico ‘rispetto’ dell’opera primigenia. A giocare il gioco dei confronti, ho scoperto in sala, è il film stesso, come travolto dall’immensa responsabilità di offrire a un pubblico di lettori/spettatori ipercompetente e iperesigente un continuo esercizio di filologia inutile. Così, non manca quasi nulla: la coperta di Linus, l’aquilone di Charlie Brown, la sua eterna maglia gialla e nera, il pianoforte giocattolo di Schröder, la nuvoletta di sporcizia che attornia Pin-Pen, Marcie che chiama ‘capo’ Piperita Patty, le frustranti partite a baseball del gruppo, Snoopy sul tetto della cuccia… Il tutto, come dire, in disordine, senza alcun intreccio che possa riraccontare in modo interessante, o quanto meno divertente, un tale insieme di patetiche iconine di un mondo che, proprio per questo, si percepisce via via sempre più lontano, sfocato, irrimediabilmente perduto. La cura maniacale del dettaglio, che avrebbe dovuto onorare il culto mediatico dell’autorialità, s’è trasformata nel suo contrario: ha dato luogo a un’opera fortemente anti-schulziana che ne tradisce non la lettera ma lo spirito profondo.
A testimoniarlo, guarda caso, è giusto l’unica trovata narrativa originale del film: innamorato, come si sa, della ragazzina dai capelli rossi, alla fine Charlie Brown riesce non solo a farsi notare da lei ma perfino a conquistarne la stima e l’affetto. Come è potuto accadere? È riuscito finalmente a trasformarsi, a perdere timidezza e goffaggine, a diventare ‘qualcuno’? Per nulla: ogni suo tentativo di cambiamento fallisce miseramente. Se la ragazzina s’innamora di lui è piuttosto perché lo apprezza così com’è: incapace, impacciato, immancabilmente loser. È il trionfo del più penoso buonismo, mediatico e non, che, ribaltando la gelida poetica di Schulz, strizza l’occhio al suo lettore più banalizzante: quello, appunto, che va a caccia di ‘carineria’ per ogni dove, che vede nel geniale Snoopy nient’altro che un ‘cucciolo caldo’ e nel malinconico Charlie Brown un personaggio positivo da idolatrare smodatamente. La ragazzina dai capelli rossi, che per la prima volta vediamo da vicino agire e parlare, si rivela per quel che è: la rappresentate commerciale del merchandising più bieco (presente, del resto, nel film). Ammettiamolo dunque: non potremmo mai innamorarci di lei.