Vittorio Giacopini / Il manuale dell’eremita
Nel nostro recente passato si sono avuti personaggi di successo nella vita dei quali ha fatto da basso continuo il richiamo dell’Altrove: ad un certo punto sono stati colti dalla sindrome della sparizione, una distopia che li ha condotti fuori dal mondo, inteso come comunità associata, e a vivere in stato di isolamento. Vittorio Giacopini ne ha scritto un gustoso e denso saggio narrativo, Il manuale dell’eremita (Edizioni dell’asino), che insegna non a scomparire ma a capire una condotta la quale si manifesta al top della notorietà con l’osservanza di un manuale comune a ogni ruolo.
L’autore romano, che ha già una collaudata dimestichezza con le biografie, particolarmente di scrittori, ha trovato in sei nomi più o meno noti (Georges Méliès, Ludwig Wittgenstein, James Joyce, Fernand Deligny, Giorgio Morandi e Malcom Lowry: un cineasta, un filosofo, uno scrittore, un sociologo, un artista e un altro scrittore) un fil rouge che chiama “linea di erranza”, lo sfaglio cioè che dirotta un personaggio dalla ribalta al cono d’ombra facendone un eremita, o meglio ancora un esicasta, colui che si apparta dal mondo ma senza serbargli alcun odio, l’escapista che si esilia dal presente alla maniera di Italo Calvino.
Giacopini indica altri nomi di eremiti volontari, da Dylan a Salinger, da Pynchon a Ornette Coleman a Bobby Fischer, e ricorda anche un italiano, Luciano Bianciardi, giudicandolo però “un po’ diverso, all’italiana”, novero nel quale possiamo allora comprendere anche eremiti come Lucio Battisti e Mina o scrittori come Bufalino che della “isolitudine” e dell’Altrove ha fatto la sua cifra letteraria. Tutta gente che non si è appellata al “diritto all’oblio” oggi consolidato giacché loro intento era di sottrarsi non alla memoria storica quanto alla propria contingenza e circostanza: peraltro non per sempre, l’occultamento essendo una strategia che in molti casi postula la riapparizione, tanto che si è visto come a tornare sia sempre chi meglio è scomparso, cioè chi meglio ha trovato un suo altrove.
Secondo Giacopini, l’epoca che in Occidente ha maggiormente favorito “il tempo del rifiuto” è coincisa con gli anni Sessanta, quando “farsi sconosciuti e diversi, separarsi, sottrarsi al gioco del mondo o ai riflettori – scrive l’autore – era una tentazione profonda, persistente, un impulso quasi perfettamente inconscio, spesso rimosso, ma difficile da evitare, inevitabile”. Giacopini giunge a prestare un evangelium laico a una stagione che preparava il Sessantotto col ricordare l’effetto che gli procurò nel 1965 il film di Luis Buñuel Simone del deserto nel cui finale, all’ex eremita diventato newyorkese che grida a Satana “Vade retro”, la Cosa che incarna il diavolo ribatte “Vade ultra”, indicando un oltre che è una direzione di senso, l’invito a cercare l’ultraneo e l’altrove: un topos che Giacopini, non riuscendo più a dimenticare quel finale e la sua fonte malefica, situerà nella dimensione quantomeno dell’eccentrico dove i sei personaggi pubblici che tratterà assumeranno la qualità di dropout, emarginati che alla debenedettiana “epica della realtà” sostituiranno “l’epica dell’esistenza” rendendosi dunque estranei a se stessi. Così di Georges Méliès scriverà che era “un tipo buffo; un simpatico personaggio; un vecchio eccentrico” e di Deligny e dei suoi compagni, che “li accusavano di essere eccentrici, troppo arroganti, troppo inconsueti”, appunto da isolare ed esiliare.
Giacopini si è lasciato affascinare da questi tipi erranti, erratici ed errabondi che hanno cercato l’ultra nel loro eremo a volte solo interiore quando avevano tutti i motivi per brillare al centro della scena, ma senza arrivare ad attribuire loro un merito o imputare invece una colpa, fermandosi piuttosto a prendere atto di una condizione umana, non stabilendo dunque se si è trattato di una scelta di vita o di una via di fuga e se avesse infine ragione Van Gogh a dire che “si perde sempre quando si sta isolati” – con la riserva se a rompere l’isolamento valga di più convivere nel mondo oppure vivere con altri “eremiti” alla maniera dei monaci.
Concentrato sui soli faits divers, il manuale di Giacopini ha deliberatamente mancato di esplorare la semiosfera della sparizione nel campo letterario, dove da Mattia Pascal a Wakefield di Hawthorne al pontiggiano travet senza nome de La grande sera che scompare senza fare più ritorno, il tema della fuga dal mondo è visto perlopiù come atto di volontà e non di coercizione. Per Giacopini esso integra una sorta di dimensione astrale, a sostegno della quale propone l’ultimo capitolo, apparentemente dissonante, che riguarda Heidegger e i suoi sonniloqui: avendo il problema di parlare nel sonno, quando una volta il filosofo capitò in un albergo, venne registrato a sua insaputa quanto diceva in stato di incoscienza. La trascrizione è stata da Giacopini fatta motivo per dedurre forme di eremitaggio in un mondo certamente tutt’altro che reale e del resto non diverso da quello che da adolescente lo stesso autore ricorda che ricreava ad occhi aperti abbandonandosi alle sue fantasticherie.
La realtà è quella che – con virtuosistica elusione temporale e uno stile suggestivamente evocativo, che prescinde da uno svolgimento diacronico ma si serve perlopiù di highlights, fuori da ogni ricerca per aneddoti e preferendo la via del pensiero critico – Giacopini ricostruisce attraverso le vite parallele e convergenti dei suoi “capitani di iceberg” che vanno dove vogliono e temono il sole, ovvero la luce della visibilità. Il giocattolaio Méliès, calcinato nel suo negozio di Montparnasse, tale da esserci come nato, è un revenant del mago dimenticato del cinema muto, il fromboliere dei primi effetti speciali che da giocoliere della celluloide diventa un giocherellone triste, eppure capace di costruire bambole che sono marchingegni a orologeria, trenini che corrono in verticale, anch’essi effetti speciali – la sua altro non essendo che una discesa agli inferi dall’alto dei trionfi di pubblico al tonfo dei passatempi senili. Cos’altro perciò se non un romitaggio?
Tale è senz’altro quello cui si addice Ludwing Wittgenstein che sceglie la brulla regione del Connemara in Irlanda per separarsi dal mondo e dedicarsi alla lettura di gialli hard-boiled e alla visione del paesaggio e della natura: convinto, come scrive, che “tutto il risultato di tutto il lavoro è di mettere il mondo da una parte”, cosicché lui se ne possa stare da un’altra, remota e perduta, dopo aver detto tutto di quanto avesse da dire, non potendo (giusta la sua settima proposizione) dire nulla di ciò che non fosse possibile dire, cercando lontano “soltanto l’isolamento perfetto, la reclusione, la garanzia totale di un’assenza”.
Come un confino vive invece James Joyce la sua breve permanenza a Roma, città che gli fa pensare “a un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna”, più brutta della “brutta Inghilterra” e incomparabile con Dublino. Vive a Roma da impiegato di banca in stato di attesa, eppure è stato lui a scegliere dopo Trieste la capitale: decisione inspiegabile per un esilio forzato, visto il giudizio che matura sulla città e sui romani “scoreggioni”.
Di tutt’altro tenore l’eremitaggio alle Cévennes, nel sud della Francia, di Deligny, educatore di bambini autistici, uomo cui “piaceva definirsi un ‘deragliatore’, uno che fa saltare i binari, cambia i percorsi, trasforma le strade segnate in linee d’erranza”. Deligny scappa da Parigi, una “decalcomania stinta nel grigio”, troppo formicolante e mossa mentre lui ha bisogno di fermarsi, di vedere le stesse cose come possono permettergli le montagne delle Cévennes dove regna il silenzio e l’immobilità. Ama Van Gogh e ne fa propria un’immagine bellissima: i punti neri della cartografia della Francia, corrispondenti a città e villaggi, contrapposti ai punti bianchi nel cielo, le stelle, che a guardarle fanno sognare, cosa che non consentono i punti neri.
La stessa voglia di immutabilità Giorgio Morandi la cerca e la trova nelle bottiglie, nei bicchieri e nei recipienti di cucina, il solo mondo inanimato che vede e vuole vedere, convinto che cambi nello splendore e nella luce, al contrario di quello esterno che non muta mai e dal quale ostinatamente si esclude in un’autoreclusione che dura tutta la vita, “eremita in casa”.
Eremita in una capanna in Canada e poi in Messico è Malcom Lowry, l’autore di Sotto il vulcano, gagliardo alcolizzato e genio di un solo romanzo. Scrive di lui Giacopini: “Diceva di sentirsi un ‘uomo tirannizzato dal passato’, ma non c’è alcun vittimismo in questa frase e, adesso che stava qui, neppure pena. Nella sua capanna abusiva lungo la spiaggia, ai margini della foresta canadese, nessuno specchio indiscreto a decretare sgradevoli verità, cupe sentenze. Della sua ‘situazione’ – ambigua, transitoria, sempre mutante – non dava un giudizio poi definitivo. Poteva essere tutto o niente, e questo è il bello. Paesaggi. Era semplicemente ammaliato dai paesaggi”.
Ma è davvero dal passato che i capitani di iceberg, quelli ripescati da Giacopini e tutti gli altri, hanno voluto prendere le distanze? O sono rimasti preda di una logica dello spaesamento che ha fatto perdere loro la rotta come balene fuori dal banco? O magari sono stati vittime di improvvisi rigetti della vita e di sé, straniamenti che possono fare sentire estranei e fuori posto? Giacopini, volendo fare storia del costume, ha scoperchiato un vaso nel quale fermenta un mistero antico che suggerisce una domanda moderna: perché, se i dolori si portano inevitabilmente appresso ovunque si vada, gli uomini si staccano dal mondo nell’illusione di liberarsene?
Vittorio Giacopini, Il manuale dell’eremita, pp. 228, E. 14, Edizioni dell’asino, 2018.