Il rinoceronte defilato e l’arte delle grotte
Alcune opere d’arte, meglio di altre, scompigliano i paradigmi dell’interpretazione; forse perché offuscano quella stessa cornice epistemologica in cui l’arte viene recintata. Su una delle pareti rocciose del complesso di grotte di Lascaux, nascosta ai piedi della cavita di un pozzo, lontana dall’entrata principale e dopo una discesa perigliosa, si staglia l’enigmatica “Scène du puits” (in italiano indicata come “Scena del pozzo” o “Il pozzo dell’uomo morto” o anche “La lancia dell’uomo morto”).
La scena, soggetta a numerosissime letture (esistono più di 150 libri sull’argomento, per non considerare gli articoli di matrice più o meno scientifica), mostra un personaggio umano, tratteggiato schematicamente, dal pene eretto, e con un becco di uccello, riverso di lato, come in agonia; alla destra campeggia un bisonte maestoso, più dettagliato, la pelliccia imbizzarrita, la fronte voltata, e le interiora che si rovesciano fuori in una ricca voluta; in basso si trova un bastone alle cui estremità è appollaiato un uccello senza zampe né coda; e a sinistra, infine, defilato, un rinoceronte che sembra indifferente all’azione, i cui pigmenti sono stati soffiati, verosimilmente con delle cannucce, e non tratteggiati come nel caso delle altre figure.
Dalla sua scoperta avvenuta nel 1940, questa figura parietale di 20.000 anni fa ha ossessionato gli studiosi (ne parlerà lungamente anche Bataille). Cosa rappresenta la scena? Qual è il ruolo dei soggetti raffigurati? L’interpretazione “verista”, o naturalista, vi vede una scena di caccia: l’uomo attacca il bisonte con una zagaglia; l’uccello sul bastone sarebbe quindi un propulsore, o uno strumento di caccia ornato; ma permangono dubbi sul significato del becco di uccello del cacciatore, sulla sua posizione morente, e sul ruolo del rinoceronte. Forse il bisonte e il cacciatore si sono feriti vicendevolmente; oppure, per coinvolgere il rinoceronte, la scena potrebbe richiamare un incidente di caccia: sul punto di uccidere il bisonte il cacciatore è stato attaccato da un rinoceronte, che furente ha caricato anche il bisonte, lasciando la scena noncurante. Ma il becco d’uccello, in questo caso, resterebbe senza spiegazione.
Davanti ai limiti dell’interpretazione verista è germinata una rosa di letture semiotiche. Alcune delle più interessanti vi vedono la scenografia di un rito: l’uomo sarebbe uno sciamano in preda ad una trance estatica che sacrifica un bisonte indossando una maschera di uccello; il bastone con l’uccello raffigurerebbe un totem, uno strumento carico di religiosità. Ma la scena potrebbe anche essere metaforica: in alcune raffigurazioni jakuti davanti al sacrificio di una vacca si trovano pali conficcati nel terreno sormontati da uccelli scolpiti che avevano il compito di indicare il cammino celeste lungo cui lo sciamano avrebbe guidato l’animale sacrificato. L’uccello della scena del pozzo potrebbe dunque rimandare all’involarsi dell’anima, il bisonte alla morte, e lo sciamano all’azione dell’uomo sulla terra. Per quanto sia verosimile, l’interpretazione però langue: che significato attribuire al rinoceronte?
Altri elementi subentrano per imbrogliare ulteriormente la lettura. Analisi più moderne hanno potuto identificare segni geometrici sbozzati lungo tutta la scena: alla base del bastone con l’uccello quello che potrebbe essere un uncino, ai piedi dell’uomo moribondo la punta di una freccia, sotto la coda del rinoceronte una successione tratteggiata di punti. Ogni personaggio della scena potrebbe dunque essere il depositario di un pittogramma con un significato specifico e la raffigurazione condensare un messaggio segnaletico complessivo, o meglio, a detta di alcuni esperti, uno dei primi calendari stellari primitivi.
L’aspetto intrigante è la resistenza che la figura parietale del pozzo sembra mantenere davanti ai nostri assalti interpretativi: quasi che fossimo noi i cacciatori, impugnando i più diversi strumenti, a volerne sviscerare il senso. I ventimila anni circa che ci separano da questa composizione si caricano di fascino; e tra le incognite disseminate in quello strato di tempo un punto risalta: quello che interroga la natura dei primi uomini. Quanto erano diversi, quanto possiamo capirli: domande, queste, che l’esposizione Arts et Préhistore al Musée de l’Homme, a Parigi, genera negli spettatori.
La prima parte del percorso espone poco meno di un centinaio di oggetti di origine preistorica (a cavallo tra paleolitico e neolitico), tra cui spiccano, oltre ad una collezione di manufatti vari: piastre di scisto incise, punte di frecce, frammenti di pietra o di ossa o di avorio scolpiti, alcune tra le più importanti Veneri del Paleolitico (segnaliamo qui l’articolo di Giuseppe di Napoli, che recensisce uno dei volumi più esaurienti sull’arte preistorica, edito da Einaudi e curato da Carole Fritz, uscito recentemente: L’arte della Preistoria, 2022). Uno dei pezzi più preziosi della collezione è senza dubbio la Venere di Lespugue. Ritrovata in una grotta ai piedi dei Pirenei, questa statuetta femminile scolpita in un osso di mammut risale a circa 25.000 anni fa e appartiene al periodo Gravettiano, durante il quale, al livello del petto e lungo i fianchi, le raffigurazioni dei soggetti femminili erano più abbondanti; le figure di donne più longilinee, come la Venere detta «impudica» (in ragione della nitidezza dell'incisione della fessura vulvare; fu così chiamata, nel 1863, quando venne ritrovata dal marchese Paul de Vibraye), appartengono invece, tradizionalmente, al periodo Magdaleniano.
La profusione di figure femminili raccolte nella stessa esposizione permette comparazioni tra i diversi periodi: la continuità di alcune tecniche nel tempo, nonché le proprietà della loro diffusione sul territorio, vengono tematizzate, tra i vari fini possibili, anche con quello di interrogarsi sul ruolo che per gli uomini antichi occupava la donna. Non è chiaro infatti quale messaggio le Veneri del Paleolitico dovessero incarnare: la bellezza? la fecondità? la natura? Ad ogni modo, sorprende l’esuberanza simbolica che richiama apertamente l’intimità femminile, e così in tutto il Paleolitico: ampiamente più modesta, per esempio, tutta la rappresentazione falliforme. Alcuni antropologi hanno tentato di categorizzare le numerose raffigurazioni del sesso femminile nelle pitture rupestri. Spesso rappresentata insieme ad altri soggetti, specialmente ad animali (cavalli, leoni, etc.), le riproduzioni della vulva rinvierebbero al paradigma della vita, a cui simbolicamente si oppone la caccia e quindi la morte: questi “atlanti” su roccia evocherebbero dunque il ciclo dell’esistente, che media tra i due grandi estremi, la vita e la morte, a cui l’arte si richiamava.
La seconda parte della rassegna si compone di un apparato audiovisuale che proietta su degli schermi alcune delle più famose pitture parietali nel mondo: dalle grotte della Dordogna alle falesie cinesi, dalle isole indonesiane ai canyon dello Utah etc. Le immagini permettono di ammirare la pluralità degli stili, ma anche delle ricorrenze: tecniche per dare più profondità agli zoccoli di un cavallo in corsa che si riscontrano in culture mai entrate in contatto tra loro; oppure procedimenti per legare i pigmenti a partire da resine ricavate dalla cottura delle ossa di animali che si ritrovano in pitture geograficamente distanti. La mostra, allestita al Musée de l’Homme – storico museo parigino destinato al campo etnografico – sarà visitabile fino al 22 maggio.
Ma torniamo, per concludere, alla “scena del pozzo”. È stato rilevato che l’inesattezza della maggioranza delle letture avanzate è quella di ricondurre la scena all’interno di una cornice, come se si trattasse di un quadro. Su una parete davanti alla scena si è potuto stabilire che il profilo di un cavallo sarebbe stato inciso con gli stessi pigmenti dei soggetti della “scena del pozzo”: il problema diverrebbe dunque non cosa fanno i personaggi della scena ma il rapporto tra il principio con cui era concepita la superficie su cui disegnavano e incidevano questi uomini e le corrispondenze che intercorrevano tra le figure sulle pareti (tra loro anche lontane graficamente).
L’arte delle grotte, per quanto misteriosa (e “l’enigma e il dramma”, scriveva Bataille, “devono rimanere tali”), rimandava ad una rappresentazione del tutto: l’elemento defilato, il cavillo interpretativo che non rientra nel complesso, appartiene al giudizio occidentale di pensare l’arte come gerarchia di significati. Il senso di cui si carica il particolare, l’ossessione di sciogliere gli interrogativi, si personifica qui in un disinteressato animale: che potrebbe come non potrebbe aver compiuto una strage