Il tempo alla prova del tempo

27 Marzo 2023

Su che cosa sia il tempo la discussione è in corso da quando l’uomo ha cominciato a osservare il suo essere al mondo. E ancora non se ne esce. Non solo, la sensazione, usiamo un termine assai generico, è che ci siano molte ragioni per pensare che una sua definizione non esista. Lo fa ben intuire il fisico del CERN Guido Tonelli – che ha lavorato alla scoperta del bosone di Higgs – nel suo Tempo. Il sogno di uccidere Chrónos, (Feltrinelli, 2021, vedi qui). E tuttavia “sentiamo” il tempo come l’involucro che più di ogni altro ci contiene, come la dimensione, misteriosa fin che si vuole, che ci designa. Siamo gettati nel tempo, diceva il filosofo, e di tempo ci occupiamo dalla mattina alla sera e oltre, se è vero che ormai viviamo in un Ipertempo, come lo chiama Pascal Chabot, filosofo francese autore di Avere tempo. Saggio di cronosofia (Treccani 2023, pp.173). 

Ma prima di parlarne vale la pena ricordare alcuni importanti dati che anni fa Domenico De Masi ci ha messo a disposizione relativamente alla massa quantitativa del tempo che gli uomini hanno generalmente a disposizione. L’uomo di Neanderthal, scrive il sociologo, “viveva in media 250.000 ore e si dava da fare tutto il giorno per procacciarsi il cibo e difendersi dalle belve. I nostri nonni vivevano in media 300.000 ore e ne dedicavano 120.000 alla libera professione, al lavoro nei campi o nelle fabbriche.

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Noi viviamo in media 700.000 ore e ne spendiamo 70.000 per lavorare negli uffici o in giro per il mondo.” Ma il fenomeno più importante dell’ultima metà del Novecento – dice De Masi – è il notevole incremento del tempo di cui gli adulti possono disporre per occupazioni non legate al lavoro o ai bisogni vitali. “Il capitale di tempo libero nell’arco di una vita era, nel 1800, di 25.000 ore. Tra il 1945 e il 1975 esso è passato da 45.000 ore a 135.000 ore, e si ritiene che possa raggiungere nel 2000 le 170.000 ore” (Introduzione a Paul Laforgue, Bertrand Russell, Economia dell’ozio, Edizioni Olivares, Milano 1992, pp.15-16). Inutile dire che i dati andrebbero certamente aggiornati per il periodo delle grandi accelerazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi due decenni.

L’analisi di Avere tempo, che è un libro dedicato non tanto alla nozione di tempo quanto alla pragmatica del tempo (per questo è una riflessione generale di oggettiva utilità), si articola in tre parti: una prima in cui l’“avere tempo” è tematizzato come un nuovo problema storicamente determinato con il quale giocoforza dobbiamo confrontarci. “Vivere non è altro che avere tempo”, dice Chabot nel suo libro, e, al di là di che cosa effettivamente sia il tempo, di certo ci viviamo dentro, è un fatto contestuale alla nostra esistenza, sia esso un’entità oggettiva o una nostra proiezione sul mondo. Si tratta di averne piena coscienza e riflettere su come il tempo si moduli a sua volta in diverse forme a seconda delle differenti realtà con cui si misura. È quello che il filosofo francese prova a fare, come dire, mettendo il tempo alla prova del tempo. Ma senza mai dimenticare che “l’umano è un essere perplesso” poiché dispone di due tempi diversi, “il tempo spontaneo del suo ritmo di vita e il tempo che passa, di cui è consapevole” (p.28). Insieme al tempo del singolo e al tempo sociale (la mente e la clessidra) c’è tuttavia un terzo ordine temporale, quello del “tempo della civiltà”. La percezione psichica dell’individuo conserva delle invarianti – la gioia che io provo assomiglia certamente a quella di un mio simile di alcuni secoli fa –, ma sono i contesti collettivi e ambientali che cambiano, è per questo che possiamo dire che “ogni civiltà è un’interpretazione del tempo” (p.33).

Nella seconda parte il tempo si dispone su un asse diacronico nel quale si osserva il succedersi dei diversi schemi culturali che hanno caratterizzato la storia umana che sono il Fato, il Progresso, l’Ipertempo e la Scadenza. Successivamente, nella terza parte, si vede come, tramite la figura centrale della spirale, i diversi schemi culturali si succedono e si ripropongono instaurando un amalgama funzionale in cui i caratteri fondamentali di ciascuno di fatto coesistono e si determinano a vicenda. È la sintesi del “Pensare in 4D” che è il pensare sincronico che utilizza tutte e quattro le dimensioni come sola via possibile per l’individuazione tempestiva dell’“Occasione”, una fase attraverso la quale l’umanità possa aprirsi a una nuova realtà complessa e armonica. 

Le civilizzazioni hanno cinque principali modalità: un periodo premoderno “in cui il tempo appartiene alle potenze celesti, a Dio e alla Natura” che lo determinano come Fato. Poi viene il periodo moderno (XV secolo) in cui l’uomo “ruba a Dio” il tempo per farne un Progresso. Con l’effetto delle ultra-forze tecno-scientifiche e finanziarie in un contesto globalizzato il tempo “scivola via dall’uomo” creando effetti specifici straordinari, ma anche dannosi. È l’Ipertempo in cui la temporalità accelera, dice Chabot, ma diventa anche Scadenza, “poiché la questione che si pone è sapere quanto tempo rimane per agire prima che si verifichi una catastrofe ecologica che si definisce ineluttabile” (p.41). Di qui la necessità di pensare a un’Occasione che rielabori il mondo.

 

Che fine hanno fatto, ci si chiede, le ore dedicate dagli adulti alle “occupazioni non legate al lavoro o ai bisogni vitali” di cui si occupava il sociologo nel 1992? Per le nostre vite trascorse nello schermo in cui tutto (tutto!) accade, in cui i flussi dei fenomeni non si arrestano, in cui anche la nostra psiche fluttua “masticando” l’interiorità per risputarla e farne ulteriore oggetto di scambio, che importanza può ancora avere la staticità del semplice dato quantitativo? Quali sono precisamente le mie ore “non legate al lavoro o ai bisogni vitali”? E poi, che cos’è “lavoro”, che cos’è “bisogno vitale” nel quotidiano dell’Ipertempo? Provate a cercare una risposta a p.85 (riprodotta anche in quarta di copertina) nell’agghiacciante timing di una giornata tipo. Sono i frutti dell’età del forcing, in cui la stessa longevità appare come una vera e propria “performance”. 

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Che dire? Gli smarrimenti delle nostre menti di fronte ai fenomeni cataclismatici a cui stiamo assistendo forse sono addirittura ragionevoli. Se pensassimo secondo la visione del Fato di fronte ai fenomeni sociali che ci sovrastano diremmo che siamo inermi, non potremmo fare altro che sopportare e aspettare che passino. Ma la nostra sensibilità è quella dell’Ipertempo, quella del Me Too, in cui interveniamo “tutti e subito” sui fenomeni. Noi ora, scrive Chabot, abbiamo la necessità di trattenere e riformulare tutte le forme temporali, abbiamo bisogno di una nuova “figura del tempo” che tenga conto dei nuovi vincoli che rendono il tempo obsoleto. L’idea di Scadenza, “non avere più molto tempo è la formula con cui dobbiamo vivere” (p.121).

C’è una storia fatale ed è quella che non facciamo noi, di cui siamo spettatori passivi o anche vittime impotenti; e accanto c’è “una storia plurale, che abbraccia la forza e la contingenza, (…) in cui la libertà e l’azione possono avere un senso, senza pretendere che siano tutto, ma senza nemmeno negare la loro capacità di iniziativa. Tra la storia fatale e la storia plurale, alla fine è in gioco il posto della libertà” (p.162). 

Ed è il Progresso, dice Chabot, “l’unica categoria che permette un rapporto non fatalista con il tempo”, nel progresso “gli aspetti materiali e gli aspetti della dignità umana si sostengono a vicenda”. Solo il progresso “dà un posto di rilievo alle questioni di emancipazione civile e politica, che tratta senza facili antitecnologismi. Perché ha capito che è da una pluralità equilibrata che nascono i miglioramenti” (pp.164-166). Si tratta di lavorare per il perfezionamento e non per la perfezione, e la differenza tra le due strade è proprio il tempo: solo la prima si confronta con la “resistenza del reale”, con i suoi tempi. 

Di qui la “Cronosofia” del sottotitolo del libro, che secondo l’autore: “È una forma di saggezza basata sulla figura dell’Occasione: il momento che si presenta e non tornerà più. È il tempo filosofico per eccellenza, una sorta di fuga dalle varie temporalità di cui abbiamo parlato. Per riconoscere l’Occasione serve la consapevolezza del carattere irreversibile della spirale del tempo. Per me è l’immagine di kairos che per i greci era un piccolo dio raffigurato con la testa rasata affinché nessuno potesse afferrarlo per i capelli. È uno schema in cui l’espressione “avere tempo” ritrova la sua umanità, perché il tempo va preso, quanto lasciato, in base alle priorità dei nostri desideri” (Repubblica, 14.02.2023).

Per intanto mi prendo il mio tempo e esco il più possibile; l'altro giorno ho sbagliato il timing e al fiume le anatre e le folaghe non c'erano più, e così ho dato il pane vecchio ai cigni... che mi sono meno simpatici. Già, è una questione di timing, io non sono arrivato alla curva delle canoe all'ora solita e il nostro mondo, mio e delle folaghe, è cambiato, non c'è stata la coordinazione dei tempi… Ma domani ci riprovo perché non credo che loro matureranno “una nuova figura del tempo”.

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