Candidato a 7 premi Oscar / Kenneth Branagh, Belfast
27 luglio 2012: si inaugurano ufficialmente i Giochi Olimpici di Londra. Intitolata Isles of Wonder, per la regia di Danny Boyle, la cerimonia inizia con tre brevi filmati di cori a cappella registrati in Scozia, Galles e Irlanda del Nord, poi naturalmente si concentra sulla celebrazione dell’Inghilterra e della sua città più rappresentativa. Il primo attore ad avere l’onore di recitare in mondovisione è Kenneth Branagh, nel ruolo del grande ingegnere vittoriano Isambard Kingdom Brunel; le sue parole, intese come omaggio all’isola della Gran Bretagna, sono quelle pronunciate da Calibano in La Tempesta di Shakespeare: “Be not afeard; the isle is full of noises, sounds and sweet airs, that give delight, and hurt not” (Non devi aver paura; l’isola è piena di rumori, suoni e dolci arie, che danno piacere e non fanno male).
Anche se Branagh era stato ingaggiato per la parte solo un mese prima in sostituzione di Mark Rylance, rinunciatario per motivi personali, era sembrato il testimonial perfetto per rappresentare la quintessenza dell’anglicismo: l'allievo ed erede di Laurence Olivier, l'interprete e regista shakespeariano di teatro e cinema più noto dei nostri tempi, pluripremiato per la sua opera e già insignito del titolo di cavaliere per i suoi meriti artistici dalla Regina Elisabetta. Non ultimo, un attore dalla pronuncia inglese perfetta. Difficile presumere, senza saperlo, che quell'impeccabile simbolo vivente dell’Inghilterra non fosse inglese, bensì nordirlandese: la sua isola britannica di origine è l’Irlanda, la sua città natale è Belfast, abbandonata cinquant’anni fa assieme alla famiglia ma con la quale ha mantenuto un indissolubile legame che ha celebrato nel titolo del suo film più personale.
15 agosto 1969: è il giorno scelto da Branagh per la prima scena. Siamo al culmine degli scontri nelle strade che danno inizio ai cosiddetti Troubles, la guerriglia civile tra cattolici e protestanti che affliggerà l’Irlanda del Nord fino all’Accordo del Venerdì Santo del 1998. Dopo quella firma, vengono poste le basi di una civile convivenza interna e si rasserenano i rapporti tra Regno Unito e Repubblica d’Irlanda, senza tuttavia la completa cessazione degli atti di violenza (l’ultima vittima è del 2019) né il superamento della divisione netta tra le due comunità. Dei precedenti trent’anni di conflitto, Branagh si concentra sulle origini perché le ha vissute in prima persona: nel 1969 viveva ancora a Belfast, aveva otto anni e mezzo, la sua comprensione delle vicende geopolitiche che interessavano il suo paese era inevitabilmente limitata.
Adotta saggiamente il punto di vista parzialmente autobiografico di un bambino, Buddy (interpretato dal debuttante Jude Hill), coincidente con quello dei suoi stessi ricordi, per raccontare come una famiglia protestante di Belfast affronta l’insorgere di violenze che stravolgono la tranquilla vita di un intero quartiere, senza soffermarsi a spiegare perché si giunse a vivere in un clima di odio reciproco e pericolo costante: non spetta a un bambino delle elementari fornirci il preciso contesto storico. Persino a noi spettatori contemporanei, lontani nello spazio o nel tempo, i Troubles potrebbero sembrare episodi dimenticati o lasciati definitivamente alle spalle, richiamati appena alla memoria dalle vivaci discussioni sui nuovi confini dell’Unione Europea dopo la Brexit.
Ci sono più vicine le rassicuranti immagini della Belfast contemporanea sui titoli di testa: una grande e pacifica città europea che accoglie turisti nelle navi da crociera e negli hotel, con i suoi edifici vittoriani, i musei, il porto industriale e la rete di trasporto in funzione. È la nuova normalità di una città che in un passato non troppo lontano è stata devastata frequentemente da aggressioni e attentati. Se non sembra soltanto una cartolina promozionale è grazie alla canzone Down to Joy di Van Morrison che accompagna le immagini, unico inedito di una colonna sonora infarcita di brani dei decenni scorsi: una ballata che suona proprio come un classico del passato e che da subito impone al film un tono nostalgico eppure gioioso, come la propria infanzia ancora innocente e piena di speranze che il regista sceglie di ricordare.
Quando si passa al bianco e nero delle memorie di fine anni ‘60, troviamo l’alter ego bambino di Branagh giocare per strada con la serenità di chi considera le vie del quartiere come un grande giardino di casa; tutti si conoscono, adulti e bambini scambiano chiacchiere e saluti, non si fatica a immaginare che gran parte delle relazioni sociali estive si compiano più all’aria aperta che dentro le abitazioni. Con una spada di legno e il coperchio di un bidone usato come scudo, prima Buddy si diverte a immaginare epiche battaglie vittoriose, poi si dirige allegramente verso casa, quando si imbatte per la prima volta in una battaglia vera, nella violenza reale che scorge come un lampo distante e poi lo travolge come un tuono. Un gruppo di uomini esagitati si compatta all’estremità della strada e avanza sferrando un assalto brutale che travolge tutto e tutti, con armi improvvisate ben più offensive dei giocattoli dei bambini.
Vengono lanciate bombe molotov, distrutte porte e finestre, terrorizzati e minacciati indistintamente tutti i presenti. Buddy, rimasto impietrito in mezzo alla calca, viene portato in salvo all’interno delle mura domestiche dalla madre (Caitríona Balfe) ma continua a urlare terrorizzato per minuti. È successo tutto all’improvviso e non ha avuto il tempo di capacitarsene; come neppure a noi vengono dati indizi per capire le motivazioni di una violenza inattesa, cieca e apparentemente ingiustificata che non risparmia nessuno. Buddy ottiene qualche informazione aggiuntiva origliando i discorsi degli adulti: la loro casa è stata risparmiata dalla devastazione perché sono protestanti; gli aggressori, anch’essi protestanti, si sono accaniti specificamente contro le case delle famiglie cattoliche del quartiere.
Il cambio di atmosfera iniziale è molto brusco, come la rapida trasformazione della vivace Mountcollyer Street, dove si svolgono gli eventi, in campo di battaglia con tanto di barricate e carri armati. Non stentiamo a credere che Buddy non abbia alcuna consapevolezza delle tensioni sociali che stanno annunciando le ostilità pluriennali delle cui prime fasi è stato involontario testimone. Dalla sua prospettiva non esiste il facile schematismo delle divergenze politiche insanabili tra protestanti favorevoli all’appartenenza al Regno Unito e cattolici che auspicano il ricongiungimento con la Repubblica d’Irlanda.
Tra i suoi vicini di casa, compagni di giochi e compagni di scuola, vi sono sia cattolici sia protestanti; la maggiore differenza che riesce a cogliere tra i due gruppi è nel sacramento della confessione, che invidia ai cattolici come scorciatoia per essere comodamente assolti da ogni peccato. Ma anche entrando nell’ordine di idee dei due schieramenti nettamente contrapposti, appartiene a una famiglia protestante e perciò i “cattivi”, i nemici che li attaccano per primi e successivamente ne minano la serenità familiare, dovrebbero essere gli altri, i cattolici: invece il ruolo di antagonisti appartiene ai militanti lealisti protestanti, responsabili delle violenze che vediamo sullo schermo e delle minacce che il padre di Buddy (Jamie Dornan) deve affrontare quando rifiuta di fiancheggiarle economicamente e tantomeno affiliandosi. Branagh, attraverso i suoi ricordi di bambino, può omettere un’esplicita analisi storico-politica degli eventi, eppure ci offre la rappresentazione lampante delle maggiori responsabilità dei paramilitari protestanti nello scoppio dei Troubles.
Sono le stesse conclusioni cui è giunto lo storico Michael McCann nel libro del 2019 Burnt Out: How The Troubles Began in cui ha ricostruito la catena di eventi che portarono all'esplosione di violenza dell'agosto 1969. McCann, cattolico e di qualche anno appena maggiore di Branagh, ha vissuto sulla sua pelle gli stessi avvenimenti delle prime scene del film: la sua famiglia, assieme a molte altre, fu costretta ad abbandonare la casa di Belfast il 14 agosto, vittima di quello che, alla luce degli eventi, ha ripetutamente identificato come pogrom. Nei decenni precedenti, i cattolici nordirlandesi avevano subito una forte emarginazione economica e sociale da parte della maggioranza protestante, tanto che le loro istanze di integrazione e maggiori tutele si erano saldate con l’ondata dei movimenti dei diritti civili che si stavano sviluppando contemporaneamente nel resto del mondo. Mentre per molti cattolici la riunificazione con il resto dell’Irlanda era un’aspirazione teorica senza molte conseguenze pratiche, per i protestanti più estremisti fedeli all’appartenenza al Regno Unito la presenza stessa dei cattolici nelle loro province era considerata una minaccia esistenziale, anche perché era stata volutamente fomentata la paura di una possibile insurrezione dell’IRA (che però era ancora la vecchia inefficace organizzazione che si opponeva da decenni alla presenza britannica in Irlanda, prima delle scissioni che portarono alla formazione di due gruppi paramilitari con lo stesso nome ma ben più aggressivi).
Nella ricostruzione di McCann, basata su decine di testimonianze e su uno studio accurato dei documenti disponibili, in quei giorni di agosto arrivò al punto di non ritorno l'azione deliberata, già in atto da tempo, di cacciare con la forza i cattolici da alcuni quartieri di Derry e Belfast, anche con la compiacenza delle forze di polizia locali; le violenze del 15 agosto con cui si apre il film furono portate avanti nella più completa impunità nonostante già da quarantott’ore la capitale dell’Ulster britannico fosse in fiamme, fino all’intervento dell’esercito che proprio quel giorno impose una tregua. Oltre a raccontare le incursioni per le strade cittadine e gli atteggiamenti arroganti dei lealisti similmente a come Branagh li ha messi in scena, McCann ha chiarito, come altrettanto evidente nel film, che la maggioranza dei protestanti conviveva pacificamente e senza alcuna ostilità con i vicini di casa cattolici, anche coloro che si erano trasferiti nei quartieri a maggioranza protestante. Sebbene non fornisca premesse storiche dettagliate, Belfast riesce quindi a cogliere l'atmosfera del periodo con accuratezza.
Laddove gli eventi tragici arrivano imprevisti, spesso si reagisce sostenendo che sembra di stare dentro un film. Forse a Buddy, grande appassionato di cinema, non dispiacerebbe affatto: grazie all’immaginazione può trasformare le strade di Belfast in quelle di una cittadina del Far West, grazie alle proiezioni in sala può sorvolare serenamente sulle incognite del presente con la fantasia. I film dell'infanzia di Buddy sono squarci di colore che lo proteggono dall'oscuro grigiore che offusca sempre più gli adulti, settimana dopo settimana. Sono i due genitori a prendere seriamente in considerazione l’idea di lasciare la loro città, perché intimoriti dalle ostilità striscianti ma anche stritolati dai debiti, un problema non meno preoccupante; sconsigliano la fuga l’affetto verso i nonni paterni di Buddy, anziani e non più in perfetta salute (Ciarán Hinds, irlandese purosangue, e Judi Dench che ha faticato non poco a perfezionare l’accento locale) e la paura di abbandonare la città dove hanno radici ben salde, in particolare dove tutti parlano nella loro stessa maniera.
Il padre, già abituato a lunghi periodi di lontananza per lavoro in Inghilterra, è il più convinto dell'opportunità di andarsene: è già entrato in contatto con il resto del mondo anglofono, dove si parla la stessa lingua ma in modo così “diverso” che sua moglie è convinta che altrove nessuno capirebbe una parola di ciò che dice, a causa del suo accento. Non è un timore del tutto campato in aria: nella versione originale, l’accento irlandese degli attori è così realisticamente marcato che le prime recensioni della stampa nordamericana proponevano addirittura di distribuirlo con i sottotitoli, affinché gli spettatori d’oltreoceano potessero comprendere correttamente tutti i dialoghi. Quell’accento è il loro elemento identitario più forte eppure non è sufficientemente aggregante; è una barriera che divide gli irlandesi dagli inglesi più di quanto non faccia il mare, ma non è neppure un collante capace di unire gli irlandesi di diversa fede religiosa. Gli eventi di quei mesi insegnano a tutti che l'accento è un falso problema: chi non vuole capire l'interlocutore troverà sempre una scusa anche se si parla la stessa lingua, viceversa chi vuole davvero comunicare trova sempre un modo di farlo. L’accento che la famiglia di Buddy non tollera è quello della lingua della violenza, l’unico che rende davvero impossibile ogni dialogo.
In attesa degli Oscar, nei mesi scorsi Belfast ha raccolto consensi e premi in tutto il mondo (Branagh è stato premiato anche come miglior regista di Alice nella Città, la sezione autonoma dedicata al cinema per ragazzi della Festa del Cinema di Roma) ma è approdato nelle sale italiane solo il 24 febbraio, primo giorno dell'invasione russa in Ucraina. Le immagini dal fronte ci hanno mostrato morte e distruzione ma sono altrettanto impressionanti i milioni di profughi in fuga verso i confini sud-occidentali. Tanti hanno dovuto decidere se scappare oppure restare e lottare, se mantenere unita la famiglia oppure separarsi. I numeri di ciò che accadde in Irlanda del Nord sono molto più contenuti, ma il dolore delle vittime non fu certo inferiore: migliaia di persone temettero di essere brutalmente uccise da una comunità loro vicina, osservarono impotenti la distruzione delle proprie abitazioni, furono spinti a fuggire altrove. In quel contesto, la famiglia di Buddy è nella posizione di poter scegliere se affrontare i rischi della guerriglia civile oppure abbandonare la città e le proprie radici.
Quando Buddy urla di non voler andare a vivere in Inghilterra fa una sceneggiata da bambino capriccioso che i genitori non interrompono perché in fondo non è un capriccio infantile ma una legittima presa di posizione: si identifica completamente con Belfast e le sue vere paure sono lasciare la casa, i nonni, gli amici, il primo amore. Anche i suoi genitori hanno delle ottime ragioni, perché bambini dell’età di Buddy sono già morti, in altri quartieri; inoltre sanno che le tensioni peggioreranno ulteriormente un’economia locale già in crisi da tempo. Branagh può ancora ricordare cosa si prova a rassegnarsi alle scelte altrui, ma oggi può anche mettersi nei panni dei suoi genitori, e di tanti altri genitori in situazioni simili, ragionando come padre adulto e non più solo come figlio.
Così deve ammettere che restare avrebbe significato correre pericoli inutili, ma partire era stata una sconfitta particolarmente dolorosa perché causata dalla prepotenza che non sente ragioni e ottiene tutto ciò che vuole, se nessuno lo impedisce con altrettanta prepotenza. Che oltre a tanta gioia, divertimento, risate, affetti, amori, ci sia stata anche della sofferenza, in quell’infanzia bruscamente scossa dai disordini nordirlandesi, è chiaro; forse, c’è anche qualche vago rimpianto per essersi arresi troppo presto mentre altri resistevano. Se ancora gli fosse rimasto qualche dubbio sulla bontà della scelta fatta molti anni fa, Branagh prova a dissiparlo con l’esortazione finale pronunciata dalla nonna Judi Dench alla sua amata famiglia, che suona come un’assoluzione: salvare (materialmente e psicologicamente) a ogni costo la gioventù, per salvare il futuro, è una responsabilità inderogabile in ogni conflitto.