Kundera: un altro testamento tradito?
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Quando, qualche settimana fa, ho visto il libro di Milan Kundera, intitolato Un Occidente prigioniero (traduzione di Giorgio Pinotti, Adelphi, Milano, 2022), ho esclamato in francese: «C’est une blague!», «Si tratta di uno scherzo!».
Sono trent’anni che conosco Kundera, prima come lettore, poi come allievo del suo «Seminario sul romanzo europeo» all’École des Hautes Études di Parigi, poi come traduttore e infine come amico. Kundera, sin da ragazzo, ha sempre amato prendere in giro gli altri e il mondo. Per questo a un certo punto, verso la fine della giovinezza – «l’età lirica», come l’ha sempre chiamata – ha abbandonato la serietà e il lirismo della musica e della poesia per dedicarsi all’arte del romanzo nata, come ha ripetuto mille volte, grazie a Rabelais e a Cervantes, sotto il segno della non serietà. Tuttavia, non mi sarei mai aspettato che, dopo La festa dell’insignificanza, il suo ultimo romanzo uscito nel 2013, tirasse fuori dal cilindro qualcosa di nuovo. Mi ricordo che, dopo avermi consegnato il manoscritto di La festa dell’insignificanza per la traduzione italiana, mi aveva detto: «Ho chiuso bottega!». In realtà, ne era convinto anche dopo la pubblicazione nel 2008 del suo ultimo saggio, Un incontro, tanto che nel 2011 erano usciti i due volumi della Pléiade, curati da François Ricard (a Ricard, il più importante interprete dell’opera kunderiana, morto qualche mese fa a Montréal, mando un affettuoso au revoir!) con tutte le sue opere. Anzi, con tutta la sua «opera», al singolare, a rimarcare l’unità della sua intera produzione e il suo desiderio di proporre le singole opere staccate dai singoli contesti che le hanno viste nascere allo scopo di collocarle nell’unica storia a cui appartengono: la storia dell’arte del romanzo moderno. L’edizione «definitiva» della Pléaide del 2011 è stata poi resa ancora più «definitiva» da Kundera e dal curatore nel 2016 con l’inclusione del romanzo pubblicato nel 2013. Pensavo, data l’eccezionalità della seconda edizione, uscita solo pochi anni dopo la prima, che Kundera avesse compiuto l’ultimo gesto artistico a protezione della sua opera: «Ecco il mio testamento letterario! Fatene buon uso…».
Inoltre, per quei lettori sbadati o ostinatamente sordi alle precise volontà degli scrittori, il curatore dei due volumi della Pléiade kunderiana, ha aggiunto una Nota dove si afferma che il «titolo, il contenuto e la presentazione» dell’opera sono stati «decisi dall’autore» e «riflettono i suoi propositi e le sue intenzioni estetiche». Non solo. Cita un brano di Kundera del 1991, tratto da una lunga nota dell’autore scritta in occasione della pubblicazione de Lo scherzo in Repubblica Ceca dopo la liberazione del paese dall’occupazione russa, dove tra l’altro si dice:
Esistono due concezioni di ciò che è “opera”. Si può intendere come opera tutto quello che l’autore ha scritto; è il punto di vista, ad esempio, della celebre edizione della Pléiade, che ama pubblicare tutto di un autore, ogni lettera, ogni nota di diario. Oppure l’opera è solo quello che l’autore ritiene valido al momento del bilancio. Sono sempre stato un fervente sostenitore di questa seconda concezione. Trovo immorale che un autore offra ai lettori qualcosa che lui stesso considera imperfetto, qualcosa che non gli apporta più piacere.
Ma non basta. Nella stessa nota d’autore, Kundera specifica i testi che non desidera più ripubblicare: a) tutto ciò che gli sembra immaturo (le sue tre prove poetiche; il suo saggio su Vančura, la sua pièce I proprietari delle chiavi); b) tutto ciò che non gli sembra perfettamente riuscito (la pièce Ptákovina, le tre novelle scritte per Amori ridicoli, scartate all’epoca della pubblicazione del libro); c) tutto ciò che ha scritto spinto dagli eventi storici, politici e culturali che ha vissuto: tutti i suoi articoli e saggi pubblicati in ceco e in francese, salvo quelli che ha ripreso – tra l’altro sempre modificandoli – nei suoi quattro libri: L’arte del romanzo, I testamenti traditi, Il sipario e Un incontro. Ed anche quei saggi noti, apprezzati e tradotti in diverse lingue, come Un Occident kidnappé ou la tragédie de l’Europe centrale, che «gli sembrano scritti di circostanza e che si rifiuta di lasciar ristampare». Si può essere più chiari? Si può lasciare un testamento letterario più definitivo di così?
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Che cos’è successo allora?
Kundera ci ha giocato un altro scherzo? Si è clamorosamente smentito? Si è voluto fare beffe ancora una volta dei suoi lettori? Dobbiamo quindi aspettarci un’altra (la terza!) «edizione definitiva» della sua «opera» nella prestigiosa collana della Pléaide?
Il libro di Kundera, pubblicato qualche settimana fa in Italia (l’edizione francese risale a novembre del 2021), è infatti composto da due testi: La letteratura e le piccole nazioni e Un Occidente prigioniero, rispettivamente una conferenza tenuta dall’autore davanti all’Unione degli scrittori cecoslovacchi nel 1967, uscita ne «Les Temps modernes» nell’aprile del 1968 con il titolo Culture et existence nationale, e un saggio uscito nella rivista francese «Le Débat» (n. 27) nel novembre del 1983 con il titolo Un Occident kidnappé ou la Tragédie dell’Europe centrale. Si tratta di due testi che, come riportato dal curatore della Nota del primo volume della Pléiade, Kundera sin dal 1991, epoca in cui scrisse la nota per i lettori cechi dello Scherzo, si è rifiutato di ripubblicare. Rifiuto ribadito nel 2011 e nel 2016 all’uscita della prima e della seconda «edizione definitiva» della sua «opera».
Certo, mi si dirà, Kundera può aver cambiato idea. Sì, è vero. Del resto, ha provato sempre un certo disgusto per le idee e per coloro che, «indifferenti all’opera», riducono «un’opera alle sue idee». Voglio dire che per lui le idee sono sempre state meno importanti della forma. Con Broch ha ripetuto spesso che senza la creazione di una nuova forma non c’è possibilità di scoprire nuovi territori conoscitivi. Da romanziere, poi, non è mai stato un uomo dalle ferree convinzioni, che spesso non sono altro che ipotesi passeggere, per forza di cose relative, e che «soltanto i veri ottusi» possono far passare per certezze e verità. Ha raccontato e scritto che a chi gli domanda se è di destra o di sinistra, risponde sempre allo stesso modo: «Sono un romanziere». Questa affermazione dovrebbe bastare a chi ieri e oggi gli vorrebbe far indossare la camicia di forza del “dissidente” o dello “scrittore engagé”.
Si è sempre definito un «edonista» intrappolato «in un mondo estremamente politicizzato». Ed Epicuro non era solo colui che viveva per il piacere, ma anche e soprattutto colui che affermava che per ottenerlo bisogna «vivere nascosti». Mi ricordo che un giorno di quasi vent’anni fa lo vidi piuttosto arrabbiato. Ce l’aveva ancora una volta con Orwell e il suo detestato romanzo 1984 che per lui, con la scusa di rappresentare il male del totalitarismo, non faceva altro che ridurre l’esistenza individuale alla politica e alla propaganda. Ed è questo il vero male! Ridurre la Storia a «criminografia» (proprio a quell’epoca Kundera aveva usato questo neologismo per la prima volta). Far sì che la memoria del passato si riduca a un lungo elenco di crimini, dietro ai quali non c’è posto per nessun altro valore.
A questo tema è dedicata la parte ottava di Un incontro, dove a un certo punto, parlando degli artisti ebrei rinchiusi a Theresienstadt, una sorta di campo che i nazisti utilizzavano come «vetrina per i babbei della Croce rossa internazionale», Kundera spiega come costoro, pur non facendosi nessuna illusione sul loro destino, continuarono a creare le loro opere, a recitare, a comporre e a suonare, a intrecciare amori e amicizie, convinti che «tutto il ventaglio della loro vita aveva un’importanza incomparabilmente maggiore della macabra commedia dei loro carcerieri». La loro vita era orrore, ma non solo orrore. Mentre noi, i loro posteri, perseguitati dal dovere della memoria, non facciamo altro che ricordare i crimini che subirono, gli ebrei di Theresienstadt «se ne infischiavano dell’immortalità dei loro torturatori e facevano di tutto per serbare il ricordo di Mahler e Schönberg».
Kundera ha scritto che solo due fedeltà lo caratterizzano: quella all’arte moderna e quella all’arte del romanzo. Ma è anche sempre stato un amico fedele («Tra la verità e l’amicizia che cosa scegli?». «Beh, l’amicizia!») e ha scritto un libro intitolato I testamenti traditi, denunciando tutti coloro che per invidia, incomprensione, vendetta, insensibilità, tracotanza o amore (ah, che cosa non si fa per amore!) si erano sentiti in dovere di lasciare cadere nel vuoto o di violare la parola scritta dei loro carissimi amici o parenti più o meno celebri: Goethe, Kafka, Janáček, Stravinskij, Brecht, Schönberg (la lista sarebbe lunga), rendendosi così esecutori testamentari delle loro non volontà. Perché pubblicare ciò che l’autore ha eliminato? Eppure, come Kundera ha scritto:
Tagliare un paragrafo richiede più talento, più cultura, più forza creativa di quanto occorra per scriverlo. Pubblicare ciò che l’autore ha eliminato è un atto di violenza equivalente alla decisione di censurare ciò che egli ha deciso di conservare.
Ben consapevole delle possibili deformazioni che una posterità sempre meno disposta a rispettare il copyright dell’autore, ovvero la sua autorità integrale, avrebbe potuto apportare ai suoi testi, Kundera, a mio avviso, ha voluto chiudere a chiave la casa della sua opera liberandosi di tutto ciò che riteneva incompiuto e apponendo per ben due volte le parole “edizione definitiva” sul frontespizio dei due volumi della Pléiade. E si ricordino le sue parole: l’opera «è solo quello che l’autore ritiene valido al momento del bilancio».
Ora, a parte le dichiarazioni categoriche presenti nella Nota della Pléaide, ci sono diverse ragioni che mi inducono a pensare che questo libro non avrebbe mai dovuto essere pubblicato e che perciò non dovrebbe far parte dell’opus kunderiano, per utilizzare una terminologia musicale cara all’autore.
Beh, intanto: perché riprendere due saggi così distanti nel tempo (1967, 1983) uno dall’altro e così lontani dal nostro presente storico senza apportare la minima modifica? Non era mai successo. E poi: perché non scrivere almeno una presentazione dove circostanziare le due diverse situazioni storiche ed esistenziali e spiegare i motivi della scelta, lasciando invece questo compito a un esperto di storia e politica dell’Europa centro-orientale (Jacques Rupnik) e a uno storico francese e Accademico di Francia (Pierre Nora)? Per amicizia? Sebbene l’amicizia per Kundera abbia un posto privilegiato nella scala dei sentimenti, il gradino più alto è stato sempre occupato dall’opera. E l’opera, per Kundera, è uno spazio intoccabile se non dalla volontà estetica del suo autore. L’opera è la sua casa. Egli ne è il solo architetto. Dov’è in questo libro l’architettura? Dov’è la forma? Dov’è la composizione senza la cui originalità non si può trasmettere alcun contenuto nuovo?
A me sembra che questo libro sia una mise en scène il cui regista occulto non assomiglia per nulla all’autore – uno dei pochissimi – della cui opera non sono mai riuscito a saltare una sola frase (assecondando per altro il nucleo della sua estetica: «andare all’essenziale delle cose»). E allora chi è? E come posso saperlo?
Quello che so è che nei due testi che formano questo libro non c’è nulla di nuovo, assolutamente nulla di nuovo rispetto a quello che Kundera ha già detto, in modo più essenziale, e perciò più profondo, nei suoi libri precedenti. E questo è il punto decisivo. Kundera è un maestro dell’arte delle variazioni su tema: ritornandovi costantemente scava sempre più in profondità il tema che gli sta a cuore facendone emergere ogni volta nuove sfaccettature. Alcuni anni fa gli ho chiesto se per uno scrittore abbandonare una lingua (l’autore era già passato dal ceco al francese) significava rompere con il proprio passato. Ecco una parte della sua risposta: «Si pensa sempre che un romanziere abbia le proprie radici in un paese. Non è così. Come romanziere egli affonda le proprie radici in alcuni temi esistenziali che lo affascinano e sui quali ha qualcosa da dire. Al di là del cerchio magico di questi temi, egli perde tutta la sua forza […] Un giorno, quando li avrà esauriti, chiuderà bottega».
Ora, uno dei temi su cui Kundera, sin da quando negli anni Sessanta era un giovane romanziere, non ha mai smesso di compiere le sue «variazioni» è l’Europa centrale e il destino delle «piccole nazioni» che la compongono, tema centrale dei due testi del 1967 e del 1983 pubblicati in italiano sotto il titolo Un Occidente prigioniero. Ma questo tema non lo aveva forse già riassunto, essenzializzato, approfondito e perciò esaurito già nel 2008 quando ha pubblicato il suo saggio Il sipario? Non è forse vero che, dopo aver scritto tra gli anni Settanta e Novanta innumerevoli testi sulla situazione culturale e letteraria della Cecoslovacchia e delle altre «piccole nazioni» dell’Europa centrale, da quella data non sono più apparsi articoli su questo argomento?
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Dato che i lettori italiani non possono ancora accedere all’«edizione definitiva» dell’«opera» kunderiana, dirò solo, per non annoiarli troppo, che qui i due testi del 1967 e del 1983 sono citati. Il secondo, poi, è ampiamente descritto e commentato nella «biografia dell’opera» (sì nei volumi della Pléiade non c’è nessun apparato critico né biografia dell’autore, ma solo una «biografia dell’opera») che accompagna ogni singolo romanzo, saggio o pièce teatrale dell’autore. E dove si trovano citati? Nella parte della «biografia dell’opera», precisamente nel capitoletto intitolato Il cielo stellato dell’Europa centrale, dedicato a Il sipario. Perché? Perché è in questo saggio, e in particolare nella sua seconda parte intitolata Die Weltliteratur, che l’autore riprende con il suo solito metodo delle variazioni su tema tutto ciò che aveva scritto sull’Europa centrale nel 1967 e nel 1983 e negli articoli successivi degli anni Novanta.
L’arte delle variazioni su tema, in musica così come nel caso della prosa kunderiana, comporta che ogni ripresa del tema sia allo stesso tempo un suo sviluppo – intendendo per sviluppo, nel caso di Kundera, un’intensificazione e un andare all’essenza del tema – e una scoperta di nuove dimensioni interpretative. Ed è quello che Kundera fa nella seconda parte del Sipario. Riprendendo il tema, dice qualcosa di nuovo. Lo ha sempre fatto, trovando non solo esteticamente riprovevole, ma immorale chi non lo fa. Tanto che proprio nella terza parte del Sipario, intitolata Che cos’è un romanziere?, oppone la «morale dell’essenziale» alla dilagante e pervasiva «morale dell’archivio» che contraddistingue il nostro mondo, per la quale tutto diventa «opera»: taccuini, diari, lettere, articoli, note della spesa di un autore. In questo modo eserciti di biografi e di professionisti dello scavo filologico accumulano tutto ciò che trovano nel tentativo di abbracciare il Tutto, loro scopo supremo. Il Tutto, cioè una montagna di scartafacci, di paragrafi cancellati, di capitoli rifiutati dall’autore ma che i ricercatori pubblicano in edizioni dette “critiche”, sotto la perfida etichetta di “varianti”, il che significa, se le parole hanno ancora un significato, che tutto ciò che l’autore ha scritto si equivale, è in ugual modo autorizzato da lui.
Così, afferma Kundera, la letteratura «si sta suicidando». Come dargli torto? Se neppure gli scrittori concepiscono più l’opera come «un lungo lavoro su un progetto estetico», come salvarsi dalle infinite «varianti» che pongono sullo stesso piano tutto ciò che scrivono? Beh, con l’arte della «variazione»: ritorna a meditare sul cerchio magico dei tuoi temi, ma solo per andare alla loro essenza, o alla loro «anima», come diceva Flaubert.
Ancora una volta: perché allora pubblicare nel 2022 due testi del 1967 e del 1983 tels quels già completamente assorbiti, se non transustanziati, nel 2008 nel Sipario? E ancora una volta devo rispondere che non lo so. Per me è un mistero.
Quello che posso fare è rimandare i più o meno illustri giornalisti e recensori dell’Occidente prigioniero a rileggersi la seconda parte del Sipario, prima di sfoggiare il loro brillante savoir-faire su un libro composto da due testi ritenuti dallo stesso autore, nell’«edizione definitiva» della sua «opera», cronologicamente obsoleti ed esteticamente imperfetti. Lì vi troveranno all’ennesima potenza tutti i passaggi chiave sull’Europa centrale, naturalmente arricchiti grazie all’arte delle variazioni kunderiana: il ruolo fondamentale, se non fondatore, della cultura e della letteratura per la storia e l’identità ceche; la necessità per la cultura e la letteratura ceche di superare lo spazio nazionale per creare valori che permettano loro di inscriversi in uno spazio più vasto, e cioè in quello della cultura occidentale; l’ideale europeo definito con la bella formula: «il massimo di diversità nel minimo spazio»; ciò che distingue le «piccole nazioni» dalle «grandi nazioni», e cioè non tanto il loro esiguo numero di abitanti, ma qualcosa di più profondo: la consapevolezza che la loro esistenza è sempre in pericolo, è sempre una domanda, «una scommessa» e, di conseguenza, la loro diffidenza nei confronti della Storia che non le ha mai prese davvero sul serio; le nozioni di «piccolo contesto» (nazionale) e «grande contesto» (sovranazionale, la Weltliteratur di Goethe) in cui è possibile collocare un’opera d’arte, con il corollario che un’opera d’arte mostra il suo vero valore estetico solo se collocata nel secondo; «il fallimento intellettuale» dell’Europa – cosa ripetuta con mille variazioni da Kundera –, che non è mai riuscita a pensare «la propria letteratura come un’unità storica»; «il provincialismo dei piccoli» e il «provincialismo dei grandi»; la differenza tra il «mondo dell’Est» e l’Europa centrale: se c’è «un’unità linguistica» delle nazioni slave, non c’è nessuna «cultura slava».
Afferma Kundera: «la storia dei cechi, così come quella dei polacchi, degli slovacchi, dei croati o degli sloveni (e, naturalmente degli ungheresi, che non sono per nulla slavi), è prettamente occidentale: Gotico; Rinascimento; Barocco; stretto contatto con il mondo germanico; lotta del cattolicesimo contro la Riforma. Niente a che vedere con la Russia»; il sequestro (kidnapping) subito dalle piccole nazioni dell’Europa centrale costrette a un trasferimento coatto dal contesto culturale occidentale a un contesto politico completamente diverso, sin dall’epoca del Trattato di Yalta e poi con l’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia da parte dei russi; la nozione di «Europa centrale», che non è tanto geografica (le frontiere delle «piccole nazioni» sono sempre «mobili»), quanto fondata su situazioni storiche e culturali comuni; la distinzione per Kundera fondamentale tra «Europa centrale» e «Mitteleuropa» (parola mai usata dall’autore), nozione quest’ultima che contempla l’orizzonte dell’Europa centrale solo dalla prospettiva viennese (e che perfino i traduttori non di area germanica dell’opera kunderiana si ostinano a utilizzare) e che non vi vede il suo essenziale policentrismo (Belgrado, Zagabria, Budapest, Praga etc.); le due vie della rivolta modernista: mentre quella francese, fondata sulla pittura e la poesia, è una grande insurrezione lirica, «antirazionalista, anticlassicista, antirealista e antinaturalista», quella centroeuropea si oppone alla tradizione romantica «estatica, sentimentale» rivolgendosi verso quell’arte «che è la sfera privilegiata dell’analisi, della lucidità e dell’ironia: il romanzo»; i grandi romanzieri modernisti dell’Europa centrale, la «grande pleiade» dei maestri di Kundera: Kafka, Broch, Musil, Gombrowicz; la nozione di «Kitsch», nata in area germanica e centroeuropea, come «male estetico supremo», incomprensibile in Francia dove la riprovazione estetica va a ciò che è «volgare»; e infine, un punto decisivo che è alla base di quello che chiamerei il “Grande Malinteso” tra Kundera e il mondo intellettuale francese e occidentale (compreso, naturalmente, quello italiano): la diversità tra il modernismo compiacente e rivolto costantemente verso il futuro dell’Occidente e il «modernismo antimoderno», critico e scettico nei confronti del progresso e attento alla conservazione all’eredità culturale del passato europeo, proprio dei grandi artisti dell’Europa centrale del XX secolo.
Quando, alla fine del suo testo del 1983, Kundera afferma che la vera tragedia dell’Europa centrale non è tanto la Russia, quanto l’Europa, si riferisce proprio a questo “Grande Malinteso”: mentre le rivolta artistica modernista e le rivolte politiche degli anni Cinquanta e Sessanta dell’Europa centrale cercavano di «restaurare il passato della cultura, il passato dei Tempi Moderni», perché solo in un mondo che conserva una dimensione culturale l’Europa centrale poteva riconoscersi e difendere la propria identità, l’Europa, o meglio l’Occidente, abbracciata la modernità come ininterrotto cammino verso il futuro (ricordate Rimbaud: «Bisogna essere assolutamente moderni!»), nella seconda metà del XX secolo non aveva fatto altro che accelerare la sua corsa, riconoscendosi sempre meno nel suo passato e nei suoi valori culturali. Se lo «choc di civiltà», avvenuto con l’invasione russa, aveva gettato la Cecoslovacchia e l’Europa centrale degli anni Sessanta in «un’epoca post-culturale», la politicizzazione della cultura, con la sua conseguente banalizzazione, aveva gettato l’Occidente nella stessa epoca. E non erano stati necessari nessuno «choc di civiltà» e nessuna invasione. Quale dialogo poteva nascere tra chi aveva nostalgia del passato della civiltà europea e chi sentiva solo nostalgia del futuro?
Post scriptum
Un’ultima perplessità. Conoscendo per esperienza personale il valore che Kundera dà alle traduzioni delle sue opere e l’attenzione ossessiva con cui sceglie ogni singola parola, questo libro mi stupisce già dal titolo: Un Occidente prigioniero. Ma il titolo dell’originale è Un Occident kidnappé. E kidnappé non significa prigioniero, ma sequestrato. Del resto, nella seconda parte del Sipario, nel capitoletto intitolato L’Europa centrale, Kundera lo cita per intero: Un Occidente sequestrato o la tragedia dell’Europa centrale. Ora, se Kundera ha usato la parola kidnappé (rapito, sequestrato, catturato, portato via), che tra l’altro è un anglicismo (da kidnapping), e non prisonnier (o emprisonné, o enfermé), ci sarà una buona ragione. C’è sempre una buona ragione se un autore come Kundera sceglie una parola e non un’altra. Andate a leggere la quarta parte di I testamenti traditi, intitolata Una frase, dove Kundera fa le pulci ai traduttori francesi del Castello di Kafka, se volete averne una prova. E in questo caso, poi, ancora di più, visto che non l’ha trovata nel vocabolario corrente del francese, ma è andato a cercarsela in un acquisto piuttosto recente dall’inglese. “Prigioniero”, poi, non è neppure uno degli odiatissimi sinonimi di “sequestrato” (rimando ancora una volta alla quarta parte di I testamenti traditi, dove Kundera se la prende con il gusto sinonimico dei traduttori che, a loro volta, odiano le ripetizioni degli scrittori).
Qui, mi sembra, la scelta sia sbagliata tanto dal punto di vista semantico, quanto, cosa ancor più grave, dal punto di vista di ciò che Kundera ha voluto dire. “Sequestrato” implica un’azione, una dinamica, un prelevamento repentino di qualcuno da un posto a un altro, dove sarà tenuto “prigioniero”. “Prigioniero” è un aggettivo statico, cancella l’azione e lo straniamento che questa azione provoca in chi è stato “sequestrato”. Ed è qui che l’errore semantico si converte in un allontanamento dal tema fondamentale del testo: secondo Kundera, le piccole nazioni dell’Europa centrale, da secoli legate al passato della civiltà occidentale, sono state a un certo punto preciso della loro storia “sequestrate” da un’altra civiltà, quella russa, subendo uno «choc des civilisations». E, come tutti coloro che sono stati “sequestrati” e portati in un luogo lontano da casa, le piccole nazioni dell’Europa centrale, non riconoscendo in quel luogo nulla che appartenesse loro, si sono sentite perdute. E ancora più perdute, perché incomprese da quell’Occidente che in quello stesso momento marciava inebriato sotto il sole dell’avvenire.