Storie d’ambiente / La buccia dell’arancia blu

20 Settembre 2020

La preoccupazione per le sorti dell’ambiente nasce dalla consapevolezza che un territorio distrutto non è più sfruttabile. È una inquietudine tutta economica quella che sorge nelle colonie inglesi e francesi durante il Seicento, la massiccia opera di disboscamento necessaria all’introduzione della produzione agricola dei prodotti ambiti dagli europei come cotone, caffè, tè e chiodi di garofano, provoca una desolante erosione del suolo, cambiamenti nel clima, siccità che inizia a trasformare il paesaggio soprattutto nelle isole dei Caraibi e nella costa orientale africana. A questo contribuisce l’arrivo di specie aliene da un altro continente, soprattutto maiali, capre e topi che determinano a volte l’estinzione della fauna e della flora locali in misura talmente grande da mettere a repentaglio la stessa sopravvivenza dei coloni. E quando la vita dei coloni, che chi abita quelle terre chiama più propriamente invasori, è in pericolo, allora bisogna correre ai ripari e riparare, conservare, tutelare la proprietà privata, in quel caso, i territori, la natura. 

 

Nel 1702 nelle Isole Sopravento, l’arcipelago più a Nord delle Antille, viene introdotta la prima legislazione per la tutela delle foreste. Può iniziare da qui il cammino di quello che diverrà l’ambientalismo moderno. Stefano Nespor, in La scoperta dell’ambiente, edito da Laterza nel marzo 2020, ne fa una breve storia partendo dall’analisi di alcuni libri che ne hanno determinato lo sviluppo. 

 

 

È a metà Ottocento, in corrispondenza con l’assestamento dei metodi di produzione industriale che l’attenzione all’ambiente fa capolino in Europa. Nel 1858 nasce la London Natural History Society e la Birmingham Natural History Society. Nel 1866 il naturalista tedesco e magnifico disegnatore Ernst Haeckel, conia il termine “ecologia”, definendolo come “la scienza dell’insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante”. Nel 1872 nasce la British Entomological and Natural History Society, nello stesso periodo si forma in India la Bombay Natural History Society, nel 1886 negli Stati Uniti la Aubon Society e nel 1892 il Sierra Club. Su pressione di queste organizzazioni viene approvata nel 1900 la prima convenzione internazionale in materia di ambiente, riguarda la conservazione degli animali, degli uccelli e dei pesci dell’Africa, convenzione che non riesce però a impedire l’abbattimento di oltre 300.000 elefanti fra il ’24 e il ’45 nella sola Rhodesia del Sud. Nel 1913 viene fondata in Gran Bretagna la British Ecological Society con lo scopo di “promuovere e incoraggiare lo studio dell’ecologia nel suo senso più ampio.” Nel 1928 viene fondato a Bruxelles quello che diventerà la World Conservation Union, la più importante organizzazione internazionale in materia ambientale. 

 

 

In perfetta controtendenza, nel 1947, 23 fra i paesi più ricchi del mondo stipulano il GATT, General Agreement on Tariffs and Trade, un accordo per disciplinare il commercio internazionale che si pone come obbiettivo il “completo sfruttamento delle risorse mondiali.” Sono gli anni della fiducia nell’energia nucleare che provoca anche i primi movimenti di protesta. Il filosofo tedesco Günther Anders indica Hiroshima come l’inizio di una nuova epoca nella quale il futuro dell’intera umanità è diventato precario. L’immaginario legato all’era atomica trova spazio nella proliferazione di riviste americane di letteratura fantascientifica dove si allenano autori che costruiranno l’immaginario del futuro nel quale ancora ci muoviamo. Già Wells nel 1914 aveva preconizzato la bomba atomica nel romanzo The world set free

 

Nel 1949 esce A sand county almanac, di Aldo Leopold, considerato l’ispiratore dell’etica ambientalista e dei principi che hanno portato alla creazione delle aree protette degli Stati Uniti. Leopold dice che bisognerebbe iniziare a “pensare come una montagna” e vedere la natura e la vita come un unico organismo in cui tutto è connesso. È un pensiero molto in anticipo sui tempi, che verrà compreso solo quindici anni più tardi, dopo il clamore suscitato da Silent Spring. La critica al sistema in questi anni si espande a diversi settori, nel 1961 esce Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, dell’antropologa Jane Jacobs che critica pesantemente lo sviluppo delle città contemporanee al servizio del sistema industriale, indicando nella dimensione del quartiere, della convivialità, eterogeneità e della dimensione umana la vera essenza della città, in contrapposizione ai grandi assi attrezzati regno delle automobili. Nello stesso anno viene fondato in Svizzera il World Wildlife Found da due ornitologi inglesi con lo scopo di raccogliere fondi per conservare e proteggere l’ambiente. 

 

 

Questa era la situazione generale quando nel 1962 esce Silent Spring di Rachel Carson. Forse la novità vera sta nel fatto che, sia pure nei modi gentili che caratterizzavano la biologa statunitense, dirige l’attenzione, attraverso la condanna del DDT, sulle industrie che lo producono e indirettamente su tutto il sistema che le sostiene. Sistema che non sta a guardare in silenzio l’improvviso e inaspettato clamore che il testo provoca e si butta a capofitto in un copione che poi si sarebbe puntualmente ripetuto ogni volta che qualcuno o qualcosa mette in pericolo i suoi profitti. Denigrazione, screditamento, negazione, ribaltamento della tesi da parte di scienziati compiacenti, oscuramento. Ma ormai il sasso nello stagno è lanciato. Nel 1972 il presidente Nixon vieta l’uso del DDT in agricoltura in tutti gli Stati Uniti, Silent Spring si avvia ad essere considerato un classico dell’ambientalismo moderno.

 

Nel 1971 compare The closing circle, dove Barry Commoner propone le sue quattro leggi dell’ecologia: “1. Tutto è connesso con tutto. Ogni specie vivente è collegata con molte altre. 2. Ogni cosa deve finire da qualche parte. In ogni sistema naturale, ciò che viene eliminato da un organismo, come rifiuto, viene utilizzato da un altro come cibo. Niente scompare. 3. La natura sa sempre che cosa è meglio. L’innovazione tecnologica può creare miglioramenti, ma è probabile che produca anche danni alla natura nel suo insieme. 4. Non ci sono pasti gratis. Lo sfruttamento della natura porta sempre a trasformare risorse naturali in rifiuti.” In quello stesso anno, uno sparuto gruppo di persone a bordo di un vecchio peschereccio si dirige verso Amchitka, una piccola isola dell’Alaska con l’obbiettivo di impedire un esperimento nucleare. È la prima azione di Greenpeace, fondata quell’anno a Vancouver. 

 

Nel 1975 esce un testo di James Lovelock, Gaia: A new look at life on earth, snobbato dalla comunità scientifica ma che ha un grande impatto sull’immaginario con l’idea del mondo come organismo vivente. Ormai il cammino del pensiero ambientalista ha preso corpo e si diffonde dappertutto nel mondo, ma ci sono delle differenze e consistono nel grado di benessere raggiunto da ogni paese. Nei paesi ricchi la tutela ambientale “esprime la ribellione contro la concezione di un progresso economico asservito ai piani dei grandi gruppi industriali e pone l’obbiettivo di un recupero di un’etica della natura; nei paesi poveri è invece percepita come l’astuto strumento di una nuova politica postcoloniale, volta a mantenere la condizione di inferiorità economica e tecnologica in cui essi si trovano e a continuare a sfruttarne le risorse naturali.”

 

 

Un altro punto di vista sulla storia dell’ambientalismo si trova nel bel libro di Ramachandra Guha, Ambientalismi, Una storia globale dei movimenti, un testo del 2000 prima opera dello storico indiano tradotta in italiano da Linaria nel 2016. Una visione decisamente alternativa alla visione tipicamente occidentale, che coinvolge personaggi e movimenti di tutto il mondo con un occhio di riguardo verso i “paesi poveri” e le loro ragioni. Dai delicati poeti inglesi agli americani della wilderness, dalla lezione fondamentale di Ghandi fino all’Amazzonia di Chico Mendes e all’Himalaya del movimento Chipko. 

 

Nel 1987, il Rapporto Bruntland, conosciuto anche come Our common future, un documento prodotto dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, punta l’attenzione sull’interdipendenza fra le condizioni sociali e l’ambiente: “la povertà produce degrado ambientale, il degrado ambientale produce povertà”. Questo è il punto di partenza per l’analisi che Enzo Scandurra, Ilaria Agostini e Giovanni Attili fanno nel libro Biosfera, l’ambiente che abitiamo, uscito per DeriveApprodi nel gennaio 2020. Il testo, che porta come sottotitolo Crisi climatica e neoliberismo, si presenta come una buona sintesi, oltre che del concetto di Biosfera, anche delle ragioni dei movimenti ambientalisti fino all’Enciclica Laudato si’ di Papa Francesco e ai movimenti giovanili nati dall’azione di Greta Thunberg, soffermandosi anche sul concetto di Antropocene, di Smart City e sul possibile sviluppo futuro delle città. L’immagine della Biosfera come buccia dell’arancia blu rende piuttosto bene l’idea dello spazio in cui ci muoviamo, nel quale la vita, almeno per quanto ne sappiamo ora, si sviluppa, di fatto un sottile strato non più spesso di 20/30 km e che contiene sia “elementi abiotici (mari, oceani, pianure, catene montuose, fiumi), biotici (tutti gli esseri viventi). Comprende l’idrosfera (quella parte che dalla superficie del mare arriva a circa 11 km di profondità), lo strato superficiale della crosta terrestre, detto litosfera (fino al limite inferiore delle acque di falda), e l’atmosfera, che si estende fin dove c’è ossigeno.” È utile tenere sempre presente che quando parliamo di “pianeta”, “ambiente”, “natura”, “vita” in realtà ci riferiamo a questa sottile buccia vivente che ricopre il pianeta Terra, è all’interno della Biosfera che noi umani ci muoviamo, questi sono i limiti della nostra sopravvivenza. 

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