La fissità inquieta di Gregory Crewdson
L’incomunicabilità, il disorientamento sociale e psicologico e l’immobilità che la quasi totale assenza di speranza provoca nel corpo e negli occhi dell’uomo sono temi che già appaiono in quasi tutta la ricerca che ha coinvolto il Novecento. Specialmente in pittura, con Edward Hopper, e poi nel cinema, da Antonioni a Lynch, gli esempi sono numerosi. Proprio nel punto mediano tra la pittura e il cinema, a volte, può trovare collocazione la fotografia, assumendo il ruolo di filtro e catalizzatore sia del suo passato, la pittura, che del suo futuro, il cinema, rendendo esplicita la trasversalità con cui l’immagine può muoversi e manifestarsi.
A Gallerie d’Italia, a Torino, si trova ora in mostra il lavoro di Gregory Crewdson, l’incarnazione di questo passaggio e mediazione fra le tre due arti, e portavoce a sua volta di quei temi imperituri e quel sentire così profondamente ormai connesso alla società occidentale, specialmente americana.
La mostra Eveningside, curata da Jean-Charles Vergne, presenta quattro lavori: Fireflies, un preludio che apre il sipario su una trilogia – Cathedral of the Pines (2012-14), An Eclipse of Moths (2018-19) e Eveningside (2021-22) – e che compongono insieme una panoramica esauriente della ricerca di quello che viene comunemente considerato uno dei fotografi contemporanei più influenti e importanti al mondo.
Quel mutismo verbale e muscolare è da Crewdson tradotto in scenari apparentemente verosimili, ma intimamente inquieti e alieni: in interno o in esterno, in paesaggi urbani o naturali, mai più di tre soggetti compongono una scena che pare estratta dallo svolgimento di una pellicola, da una trama più complessa bloccata nel punto morto che segue o precede l’azione portante.
Quello che accade nelle immagini di Crewdson è in sostanza il suo specchio psicologico, la traduzione simultanea delle trame immobili che lo accompagnano: affida in qualche modo ad altri attori la ricerca del suo rifugio, la paura di non trovarlo; il disorientamento tra le strade di Pittsfield o Becket è sia il suo, sia quello di ogni uomo che si troverà a camminare per quelle stesse vie metaforiche.
La fotografia, quindi, ha per Crewdson un valore domestico, abitativo: in quelle stesse scene in cui col grande formato è in grado di proiettarci creando uno spaesamento al di là di ogni memoria, lui si ritrova, abita quei fermo-immagine come se si trovasse finalmente a camminare in una desolazione che gli appartiene.
La solitudine che esprime Crewdson, va notato, è solitamente espressa con l’utilizzo di due soggetti, o meglio, quando un singolo soggetto guarda dentro uno specchio, di due sguardi, posti in relazione in modo tale da non farli comunicare mai. Questo genere di composizione provoca negli occhi di chi fruisce dell’immagine un percorso che rimbalzerà più volte tra i due attori prima di inoltrarsi nello spazio circostante. Verranno quindi imprigionati in una sorta di disegno a ellisse, che vedrà i due fuochi negli sguardi dei soggetti, e che, come la Terra intorno al Sole, li farà vagare finché una forza estranea non li spingerà oltre, nello spazio vuoto che li circonda. Il vero solitario sarà così unicamente il nostro sguardo che contempla l’allegoria di quella stessa solitudine; l’incomunicabilità che di fronte a lui è rappresentata è la stessa in cui cadrà e a cui sarà costretto di fronte al mutismo dell’immagine.
Vagare è un termine che si presta molto per descrivere un possibile senso dell’intera mostra: per acuta scelta curatoriale, il primo lavoro Fireflies, che è rimasto chiuso in un cassetto dal 1996 fino ad oggi, apre il percorso espositivo con immagini che difficilmente sono accomunabili con quello che poi è diventato il filone stilistico con cui Crewdson si è imposto sul panorama fotografico internazionale. In questo lavoro, l’autore ha fotografato insistentemente l’inafferrabile movimento luminoso delle lucciole, la sera tardi, quando altro non resta attorno a quei minuscoli bagliori se non qualche contorno oscuro e indecifrabile.
Le scie luminose, caotiche e in movimento, sono il perfetto contraltare dell’immobilità inverosimile dei soggetti di Crewdson, e della loro premeditata collocazione: il fotografo americano è infatti sempre seguito da una troupe che conta non meno di una quarantina di collaboratori, esattamente come nei set cinematografici, andando ad applicare il sapere e l’attitudine della natura morta, o still life, all’uomo e al paesaggio.
La dispersione delle lucciole è la manifestazione della loro stessa vita; allo stesso modo, l’assenza di movimento dei soggetti di Crewdson evocano il congelamento di una qualsiasi vitalità, tornando a uno stadio di quasi “ante-umana” solidità inanimata.
Le lucciole pare esprimano lo stato di libertà originaria e animale del movimento, del vagare incontrollato che così bruscamente si è interrotto nell’evoluzione umana, dando forma a sua volta a un vagare straniato e paradossalmente immobile, inconsciamente correlato allo spazio prevalentemente vuoto che lo circonda. In Cathedral of the Pines è infatti esplicito il rapporto controverso fra il dentro e il fuori: nelle immagini si vedono spesso i soggetti congelati ed estratti dal naturale fluire delle loro azioni all’interno di rifugi sempre aperti sul fuori, su un fuori, o in cui il paesaggio naturale esterno è sempre perfettamente visibile da porte o finestre, come nei quadri del Quattrocento.
La chiusura fisica e comunicativa pare non corrispondere qui con le altezze e le estensioni del bosco in cui si manifesta. La luce, naturale, non ha identità o intenzioni differenti in base a chi o cosa tocca, sui visi come sugli alberi o la neve leviga uniformemente, fa emergere senza distinzioni. Ed è da questa luce intatta che Crewdson fa nascere l’astrazione di un’azione fuori dal tempo, azione che non prevede gesto, rimanendo soltanto intuita, estratta a sua volta da quegli elementi che nell’immagine riescono a plasmare gli occhi che successivamente la immagineranno. Le fotografie di Crewdson si può dire che seguano una grammatica precisa e che formulino frasi come col predicato sottinteso, e quindi sincopate: sono immagini costrette a giurare che qualcosa in loro succede, o è successo, anche se non ci è permesso conoscere altro.
Le non-azioni delle immagini di Crewdson fuggono dal loro potenziale manifestarsi, esattamente come i soggetti che fuggono – o rincorrono – uno stato esistenziale restando fermi e immersi nel loro “stato in luogo” mentale.
Vivono, si può dire, tra la potenza e l’atto, portando chi guarda a chiedersi se scorre davvero vita in loro o se le funzioni organiche si siano piegate anche loro all’inerzia della sospensione. Se è vero che non c’è bisogno di un pretesto per compiere anche il più semplice gesto, Crewdson pare suggerire che l’assenza di quel pretesto può accadere, ed è lì che il meccanismo umano può incepparsi e trovarsi in uno stallo desolante.
La stessa accuratezza nelle luci e nella regia delle immagini in mostra pare far oscillare la percezione tra la finzione e l’iperrealismo, gettando ancora una volta dei dubbi sulla struttura e sulle categorie stesse della fotografia: se è percepibile una scena fotografata come iperrealista, ciò significa che non tutto quello che viene registrato dall’otturatore meccanico è reale, o considerabile tale.
Dei quattro lavori in mostra, due sono in bianco e nero, il primo, Fireflies, e l’ultimo, Eveningside. Questo, commissionato da Intesa San Paolo in onore della mostra, usa delle tonalità che il curatore Vergne paragona al cinema noir anni Quaranta e Cinquanta, diretta conseguenza dell’espressionismo tedesco degli anni Venti, consolidando quel ponte che vede molta fotografia contemporanea attingere da quella cultura cinematografica che, prima degli anni Venti, si era prodigata a fondare e a formulare.
Nella dispersione di Crewdson, anche lo sguardo del soggetto rimane fermo, come incantato dallo spegnersi di qualunque significato che ciò che lo circonda ha pure un tempo posseduto. Si assiste così a delle immobilità immanenti, non più simili a quella immobilità richiesta dalla vera contemplazione, dalla stasi provocata da una qualunque esaltazione visiva o emotiva, che fermi fa semmai rimanere per l’abbondanza di significato che ciò che era ignoto di colpo esprime e manifesta.
In Crewdson i soggetti e le stesse immagini cercano una causa, quel pretesto per continuare a raccontare, ad agire, a evolvere verso una qualsiasi risoluzione. Incarnano la fissità quasi puntiforme cui ogni dispersione tende, fissità apparentemente tenuta in equilibrio dal movimento non già dell’aria o di altre forze fisiche, ma dal tempo stesso a cui aderisce totalmente, e che toccandola e levigandola, come la luce, le va addosso sorreggendola.
La mostra di Gregory Crewdson, Eveningside è visitabile presso Gallerie d’Italia Torino, dal 12 ottobre 2022 al 22 gennaio 2023.Martedì, Giovedi, Venerdì, Sabato, Domenica dalle 9.30 alle 19.30. Mercoledi dalle 9.30 alle 22.30. Lunedì chiuso. Per informazioni e prenotazioni.
GREGORY CREWDSON, Starkfield Lane, 2018-2019, Stampa digitale ai pigmenti, dimensione immagine 127 × 225,8 cm © Gregory Crewdson.