La luce della montagna
È difficile non pensare alle parole recenti che il Professore Italo Zannier ha pronunciato durante un’intervista telefonica a riguardo della fotografia di montagna. “Uno dei soggetti più antichi di questa disciplina, nato perché era come fotografare la Luna, dato che la Luna era troppo lontana”. Ebbene, pensando alla fotografia di montagna vengono subito in mente alcuni nomi che sono riusciti a forgiare a un tempo sia la fotografia, che la loro montagna. Uniti in una mostra, Ansel Adams, Vittorio Sella, Axel Hütte e Martín Chambi vengono rievocati per parlare di quella Chimera lunare che è la roccia. Abitata o solitaria, ad alta quota o vista da fondo valle, il mistero dell’altezza che prende forma nella pietra è l’unico limite che, dalla lastra alla tecnica moderna, hanno voluto imprigionare.
Fotografare la montagna – può apparire una banalità – significa andarla a vedere da vicino, magari salirci sopra, significa guardarla da abitanti, da esploratori e da alpinisti, conoscere ogni sua regola. La montagna è una creatura che non si fa guardare facilmente negli occhi, accoglie e allontana come un dio capriccioso chi si inoltra per conoscerla. Per questo Adams, Sella e i molti altri che questi nomi rappresentano, possono davvero essere considerati i moderni Edipo che sono stati in grado di ingraziarsi le proprie Sfingi, e di portare a noi le vette dei loro enigmi. Lo Yosemite visto attraverso molte stampe “vintage” di Ansel Adams è l’esperienza a un tempo lirica e tecnica di uno sguardo abituato a discernere ogni tipo di luce per poterlo rendere e orchestrare sulla stampa: Adams, contemporaneo alla nascita delle teorie della Gestalt, pare incarnare nel suo metodo fotografico il concetto del totale come diverso dalla somma delle parti. Sebbene nata da un controllo tecnico estremo e minuzioso, l’immagine in Adams parla sempre una lingua assoluta, di molto superiore all’unione delle zone grigie che delineano le forme dei crinali. Così come risalta vivida l’esigenza in Vittorio Sella di contemplare quello stesso assoluto in un’immagine, modificando anche, a volte, le proporzioni delle montagne rispetto agli umani, come Piranesi nell’incidere le architetture romane: il piccolo come il grande in Sella acquisiscono quel significato concreto che all’uomo così spesso pare sfuggire nel guardare il paesaggio naturale; la vastità delle valli asiatiche, come di quelle alpine, è il confine impossibile anelato dall’occhio come dal passo dell’alpinista, a volte ricomposto in sette, nove, undici lastre – a Sella si deve la prima veduta panoramica a 360 gradi – per illudersi di poterlo abbracciare per intero, almeno da lontano.
Presso gli spazi del Museo di Santa Giulia di Brescia e fino al 25 giugno, la mostra curata da Filippo Maggia Luce della Montagna propone i lavori dei quattro autori in sequenza scandita, facendo ora fiancheggiare, ora penetrare lo spettatore in altrettante epoche e località geografiche. Martín Chambi, considerato da Salgado “uno dei fotografi più importanti che il pianeta terra avesse negli anni Trenta”, scoprendo per caso la fotografia si portò dietro per sempre il cavalletto per registrare ogni aspetto della vita peruviana. La montagna può essere, allora, una città: i suoi abitanti la sua estensione naturale, a dire ancora che la roccia permette davvero ad alcuni la vita, e con lei le feste, i matrimoni, il lavoro di tutti i giorni. Ѐ curioso vedere quanto un autoctono possa sentire l’esigenza di documentare l’esistenza dei propri concittadini, come fosse uno straniero a entrare in contatto con una cultura distante, meritevole di memoria, come possono essere stati Irving Penn o Salgado stesso nei loro famosi reportage. Questo merito Chambi lo conferì a tutto ciò che quotidianamente gli accadeva intorno, alla sua stessa vita specchiata negli altri abitanti di Cusco.
Chambi è anche autore, però, di un autoritratto particolare in cui, ben vestito, guarda assorto una lastra che riporta il negativo di un altro suo ritratto, come se la stesse controllando: allo stesso tempo pare, però, che voglia dirci anche dell’altro, forse che non c’è altro modo di guardarsi che tenendo tra le mani un’effigie già passata di chi siamo, senza dover alzare lo sguardo per scrutare la vacuità dell’otturatore. In questo autoritratto c’è forse tutto, tutta la circolarità irrisolvibile del conoscersi se non come un negativo in cui scrutare l’equilibrio tra le luci che vi sono rimaste impresse. Di tutti gli autori, Chambi è l’unico che ci rende partecipi di una montagna quotidianamente viva, e da secoli; di una montagna assolata, sotto l’Equatore, rovesciando ogni altra categoria nata dall’altra parte del mondo, e senza l’affanno dell’uomo di raggiungere la vetta, perché a 3400 metri di altezza, in vetta già si vive.
Dell’unico rappresentante vivente della montagna in questa mostra – Axel Hütte (Essen, 1951), noto erede della scuola di Düsseldorf dei coniugi Becher – è la montagna sospesa tra le nebbie, la montagna bresciana, su commissione della Fondazione Brescia Musei. Nelle tipiche stampe di grande formato di tutti gli esponenti della scuola tedesca – da Andreas Gursky a Candida Höfer – sotto plexiglass, incarnando ovvero la modernità installativa della fotografia, Hütte ingrandisce il già grandissimo, portandoci a quella quota dove smettono anche di crescere gli alberi, sul confine e oltre i 2000 metri di altezza.
Hütte pone in una saturazione quasi marina le proprie montagne, che, oltre a quelle bresciane, spaziano da quelle austriache allo Yosemite, ripercorrendo le orme di Adams. Allo stesso tempo, la condizione più favorevole per il fotografo tedesco per immortalarle pare sia quando l’agente atmosferico – tipicamente la nebbia – cancella del tutto il panorama, lasciando solo le prime vette visibili in primo piano. Come isolate dentro un confine impalpabile, le montagne quando circoscritte nei loro margini è come se perdessero la loro importanza sacrale, spesso giustificata proprio in virtù di tutte le altre vette che dietro di loro spuntano e si intravedono in prospettiva. Ed è come se a un tempo la assumessero, diventando protagoniste indisturbate di uno scenario misterioso. Una parte, allora, in Hütte può davvero diventare il tutto: un tutto diverso, ma autonomo, da poter essere guardato come esempio unico di un più ampio universo. In mancanza di prospettiva, il soggetto solitario non può parlare con altri elementi che non siano il vuoto nebuloso e verdeacqua che lo avvolge; qui potremmo vedere ambientato lo spirito dell’inverno della Cold Song di Purcell: “What Power art thou,/ who from below, /hast made me rise, /unwillingly and slow, / from beds of everlasting snow!” (“Quale potere tu sei, / che dal di sotto / mi hai fatto alzare / malvolentieri e lentamente / da letti di neve eterna!”).
La montagna accontenta chi la visita, nella sua immutabilità apparente, restando ciò che vogliamo che sia quando la cerchiamo: immensa, innevata, scoscesa; sempre si fa trovare dal passo e dall’occhio. Il fotografo, guardandola, si intromette in una quiete secolare, accarezza qualche metro di squame di un drago gigantesco.
Trovarsi a ridosso di un essere simile, ci fa vedere Vittorio Sella fotografando i campi base da cui partiva coi suoi compagni di spedizione, significa convivere con l’incombenza materiale, con l’estensione fatta neve della meraviglia.
“Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato”: è una celebre citazione di Ansel Adams, musicista a sua volta, che indubbiamente vedeva nelle circonvoluzioni rocciose quegli stessi apici che trovava suonando Bach o Skrjabin, le stesse verità. Vedere la Luce della Montagna, allora, può significare trovare ad ogni sua variazione un senso, un messaggio, un linguaggio da assimilare e con cui poter comunicare. Ogni fotografo, nell’imparare come dominare il bianco puro della neve, come il nero delle pieghe rocciose in cui non arriva il sole, impara a scalarla con gli occhi, a visualizzare la sua conquista come una forma dentro una stampa.
Ma la montagna cambia come cambia ciò che la tocca, la mano dell’uomo come la luce che riceve; non esiste regola assoluta per parlare con lei.
In copertina, Vittorio Sella Ultimo picco del Cimon della Pala San Martino di Castrozza 26 agosto 1891, Courtesy Fondazione Sella Biella.