Cannes. Parte 1 / La politica della Croisette
Esiste la politica a Cannes? A giudicare dalla bolla di operatori del settore, professionisti, attori/attrici o sedicenti tali che occupano la gran parte delle coperture stampa e delle attività sulla Croisette parrebbe proprio di no. Eppure a volte le cose sono un po’ più complicate. Ne abbiamo avuto un esempio durante la conferenza stampa ufficiale in cui venne presentata l’edizione di quest’anno – ed è una data importante perché è il Settantesimo anniversario del Festival – quando il délégué général Thierry Fremaux pressato dalle domande dei giornalisti sulla congiuntura politica francese ci tenne a dire che il festival non potrà mai essere “politico”: al limite i film possono esserlo. È un po’ la sintesi dell’approccio cannois, che ama presentarsi con la faccia della neutralità market-oriented ma che in realtà ha una regia gestita con sapiente equilibrismo politico, in un mix di potentati economici (il Presidente del Festival è Pierre Lescure, patron di Canal+ che ancora oggi è molto più che un semplice sponsor) e istituzioni politiche nazionali. Non bisogna infatti dimenticare che il Festival un padrone ce l’ha, con un nome e cognome: si chiama Association française du Festival international du film ed è il consiglio d’amministrazione che presiede alle scelte artistiche e organizzative della manifestazione. Tra i suoi membri siedono delegati dei ministeri della cultura e degli affari esteri, membri dell’Assemblea Nazionale e del Senato oltre a moltissimi rappresentati delle associazioni di categoria dei professionisti del cinema (dall’ARP, la società civile degli autori-registi-produttori, alla SACD, la società degli autori e compositori drammatici) e rappresentati di sigle sindacali come la CGT.
Tra questi vi è anche la FNCF, la Federazione nazionale del cinema francese, cioè l’associazione che riunisce gli esercenti cinematografici nazionali, che quest’anno ci ha tenuto, in un modo assolutamente non rituale, a esprimere una posizione ufficiale di disapprovazione riguardo alla selezione ufficiale dei film scelti da Fremaux. Il casus belli è rappresentato da due film del concorso – Okja del coreano Bong Joon-ho e The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach – e il problema non riguarda certo le qualità artistiche delle opere dato che si parla di due grandi registi, quanto della loro casa di produzione: Netflix. Com’è noto a chiunque non sia vissuto sotto un masso negli ultimi 5 anni, Netflix ha aperto la strada a una modalità di distribuzione dei film non tradizionale che bypassa completamente tutta la rete di distribuzione delle sale e mette direttamente a disposizione i film su una piattaforma online in 190 paesi contemporaneamente. La notizia di queste settimane è che Cannes, dopo aver invitato questi due film, ha deciso di fare marcia indietro. Cioè che il padrone del festival – appunto quell’Association française du Festival international du film di cui la FNCF è uno dei membri – in modo ben poco neutrale ha deciso che da ora in poi non verranno più ammessi in competizione quei film che non hanno un’uscita nelle sale cinematografiche francesi. Attenzione, non film che non verranno distribuiti in Francia (Netflix è ben presente e popolarissimo nel paese), ma film che non verranno distribuiti nella rete delle sale cinematografiche francesi. È come se Cannes ci stesse dicendo che il cinema è un’altra cosa rispetto alla visione in streaming su un computer o alla televisione.
Quello che si è consumato in queste settimane non è solo uno scontro tra il Festival di Cannes e Netflix, o una competizione in cui diversi gruppi dell’entertainment audiovisivo globale tentano di spartirsi il mercato, ma è un vero e proprio scontro tra due idee di cinema diverse. Il cinema deve passare attraverso la sala cinematografica – e quindi la mediazione di un luogo pubblico, di una comunità, di un’esperienza della visione collettiva? Oppure è ormai destinato a venire relegato agli spazi privati e domestici e a un consumo solitario che magari viene socializzato soltanto attraverso i social network? Perché questo scontro non riguarda soltanto un modo di concepire il cinema ma anche un’idea di come si vogliono gestire gli spazi pubblici e gli spazi domestici, la divisione tra pubblico e privato, la relazione tra individuo e comunità (e beninteso le comunità esistono anche sulla rete). Persino nella presentazione alla stampa della giuria mercoledì mattina a inizio festival vi è stato uno scontro piuttosto acceso tra il Presidente della Giuria Pedro Almodovar che ha preso posizione a favore della centralità della sala, e Will Smith, che è qui a Cannes in veste di giurato e che invece portava ad esempio le abitudini spettatoriali dei propri figli adolescenti (che ovviamente guardano Netflix esattamente come vanno al cinema in sala). Proporre un’idea di cinema non vuol dire soltanto avere un’idea di come fare esperienza delle immagini in movimento: le conseguenze sono ben più ampie. Vuol dire anche – quasi inevitabilmente – avere un’idea di mondo. Perché le immagini non esistono senza il mondo di cui fanno parte e dal quale emergono.
A molti la posizione di Cannes è sembrata debole (anche perché l’ascesa degli streaming service non è detto che debba andare necessariamente a detrimento dell’esperienza del cinema in sala), e tuttavia basterebbe spostarsi nel piano sotterraneo del Palais des Festivals per vedere che tra i 9mila operatori che stanno occupando i 13 mila metri quadri di stand del marché (la fiera mercato che si tiene durante gli stessi giorni del festival e che è di gran lunga l’evento più importante sulla Croisette per gli operatori del settore), i rappresentanti degli streaming services e gli affari che vengono fatti attorno a queste piattaforme sono in crescita esponenziale. È una metafora di quanto nonostante i limiti che Cannes vorrebbe imporre alla propria selezione ufficiale (che spesso tradiscono un sapore un po’ protezionista) ci sono alcuni cambiamenti che stanno investendo il cinema contemporaneo alla radice.
Ma la politica si è vista anche in sala dato che il film d’apertura di questa Settantesima edizione di Cannes inizia proprio al Quai d’Orsay di Parigi dove nelle primissime sequenze si vede uno stuolo di diplomatici, gente dei servizi segreti, uomini in doppiopetto che corrono in giro per le stanze del Ministero per gli Affari Esteri alla ricerca dell’enigmatica identità di Paul Dedalus. Si tratta di Les Fantômes d’Ismaël di Arnaud Desplechin dove ancora una volta ritornano gli stessi temi, le stesse questioni, gli stessi nomi, gli stessi paesi di molti altri suoi film nell’ennesimo tassello di una filmografia iper-autoreferenziale eppure sempre più interessante. Se si inizia con un film che a giudicare dalle prime scene sembrerebbe di spionaggio è proprio perché le spie hanno notoriamente un’identità incerta: anzi la propria identità se la riscrivono letteralmente in continuazione cambiando nome, documenti, persino aspetti del proprio passato.
Ma non siamo in un film di spionaggio, o meglio Desplechin se ne serve soltanto per indagare i fantômes di uno scrittore di film e di opere teatrali, l’Ismaël del titolo (Mathieu Amalric), che sta mettendo su carta la storia di questo enigmatico Ivan Dedalus. Bastano quindi una ventina di minuti di film ambientati al Quai d’Orsay che subito veniamo catapultati nello studio di uno scrittore e vediamo i personaggi diventare di carta, la storia diventare una sceneggiatura, il mondo diventare una rappresentazione. Perché il problema, come sempre nei film di Desplechin, è il rapporto tra la scrittura e la vita. Esattamente come nel suo precedente Trois souvenirs de ma jeunesse dove Paul amava Esther scrivendole delle lettere, qui Ismaël vive scrivendo il proprio film su Ivan Dedalus. È il modo attraverso cui si prova a dare una soluzione all’enigma della propria identità. Tramite il linguaggio, scrivendo. Tuttavia non tutto si lascia ridurre a parola. Vent’anni prima Ismaël, “egoista e troppo preso dai suoi film”, veniva abbandonato dalla sua giovane moglie di allora, una Carlotta (Marion Cotillard) dal nome hitchcockiano che un giorno decide di prendere e andarsene da un’altra parte senza addurre alcuna ragione (“non respiravo più”). Il padre di lei anche a distanza di vent’anni glielo rinfaccia ancora – “sei tu che l’hai fatta morire e che hai deciso che fosse morta” – perché è stato Ismaël a decidere di andare all’anagrafe e dichiarare la sua scomparsa e dire che Carlotta semplicemente non esisteva più. Appunto, scrivendo, cioè apponendo la propria firma a un documento che ne dichiarasse la scomparsa (e Les Fantômes d’Ismaël è un film pieno di burocrazia, documenti, dichiarazioni giurate, uffici pubblici). Il problema è che non tutto della vita riesce a essere ridotto a parola e a linguaggio come vorrebbero la letteratura o gli uffici dell’anagrafe. Le cose continuano a esistere anche dopo che ne abbiamo dichiarato l’inesistenza. C’è qualcosa che sfugge al controllo che Ismaël vorrebbe dare al proprio mondo, così come l’amore non è fatto solo di parole ma anche di corpi. Si chiamano appunto fantasmi. E ritornano nelle nostre vite, nonostante tutto.
Un giorno allora, quando Ismaël è in ritiro al mare con Sylvia (Charlotte Gainsbourg), la sua donna attuale, per riuscire finalmente a finire il proprio film (ma il film non è mai finito, perché come si dice a un certo punto, bisogna scriverlo “ancora, ancora e ancora”, proprio perché è il mondo che non riuscirà mai a essere ridotto a linguaggio) vede arrivare il “fantasma” di Carlotta. I fantasmi sono per definizione qualcosa che non si può uccidere nemmeno con le parole e non possono che continuare a ritornare, come un’ossessione. I fantômes allora diventano cauchemar, cioè incubi, che in questo film tormentano più o meno tutti i personaggi, da Ismaël a Ivan a Carlotta. Non si contano le scene di ossessioni notturne, di tentativi di cure mediche, di gocce per il sonno, di medicinali, persino di interventi chirurgici che possano liberare dalla condanna del ritorno di ciò che si vorrebbe in tutto e per tutto spedire nell’oblio.
Tuttavia in un cinema che mette sempre al centro il punto di vista maschile ciò che ritorna e che fa problema – e bisogna ripeterlo ancora una volta, come sempre nei film di Desplechin – è soprattutto il femminile. Perché non sapremo mai il motivo per cui Carlotta se n’era andata rifacendosi una vita, cambiando il suo nome, risposandosi con un indiano, così come non sapremo perché poi ritornerà (e alla fine se ne andrà via nuovamente). Il suo desiderio rimane enigmatico anche quando Ismaël glielo chiederà urlando e spaccando tutti i mobili di casa che si trova a tiro. Il desiderio femminile non si fa parola e non si fa mai linguaggio: rimane muto, o meglio rimane un punto cieco (che infatti poi si fa punto di fuga nell’ossessione di Ismaël per la “prospettiva” nella parte finale del film) che fa letteralmente impazzire l’uomo. E tuttavia è proprio il punto cieco ciò che attrae il desiderio; è il punto di esclusione dal linguaggio l’elemento attorno a cui il linguaggio ruota. Così come è il corpo ciò che il linguaggio vorrebbe ridurre a parola. In altre parole l’erotismo si lega al punto cieco della follia, o come si dice in un dialogo tra Sylvia e Ismaël, l’amore deve rendere pazzi non ragionevoli.
Ma il problema del rapporto tra la vita e il linguaggio, tra la realtà e la sua rappresentazione, tra il bisogno di razionalizzazione e la fascinazione per ciò che ne è escluso è anche quello che dà forma al cinema di Desplechin. È il suo tratto nevrotico ossessivo che è allo stesso tempo il suo aspetto più originale ma inevitabilmente anche il suo limite. Les Fantômes d’Ismaël è un film logorroico e squilibrato, eccessivo e sopra le righe, che passa senza soluzione di continuità dalla spy story alla commedia, dal melodramma all’erotismo, e tuttavia è forse anche il suo film dove la forma è più fedele a quelle che da sempre sono le questioni che attraversano il suo cinema.
(prima puntata di tre.)