La sconfitta della ragione. Sciascia e la giustizia
L’interesse di Leonardo Sciascia per i temi della giustizia, quella sociale e quella amministrata, è sempre stato centrale. Non stupisce quindi che i giuristi se ne siano occupati e, ancora di recente, dopo Diritto verità giustizia a cura di Cavallaro e Conti (Cacucci, Bari, 2020), ne approfondiscano i contenuti un’altra coppia di autorevoli studiosi, i professori Amodio e Castellano (La sconfitta della ragione, Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio, 2022)
Il saggio prende le mosse dalla ricognizione sui riferimenti culturali di Sciascia, in particolare quelli relativi a Pirandello e Manzoni, ed esplora la sua rappresentazione del processo penale, soprattutto con i limiti che lo rendono debole e spesso soccombente di fronte alla verità da accertare. Mentre la verità letteraria non incontra ostacoli, quella processuale ha un suo canone rigido. La dichiarazione di responsabilità richiede prove certe da acquisire secondo regole prefissate, in mancanza delle quali vacilla l’accusa. Alla verità letteraria si arriva invece anche attraverso sentimenti che si insinuano tra le parole e i racconti delle storie estranei alle aule giudiziarie.
Il saggio sviluppa i temi classici del rito processuale calandoli nella produzione di Sciascia e cogliendo la permanenza di una duplice ossessione, per la giustizia e per il potere. Da un lato, la giustizia coinvolge e stringe a sé la verità, la libertà, la dignità umana, il rispetto tra uomo e uomo, dall’altro, secondo le parole del Presidente Riches, rivolte all’ispettore Rogas in Il contesto, essa è un mistero impenetrabile, infallibile, insensibile all’umanità come la transustanziazione, ovvero la trasformazione del vino e del pane in Cristo che avviene sempre e comunque, nonostante i limiti e le indegnità del sacerdote. “Così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore, ma nel momento in cui celebra non più”.
Nel processo però per decidere si richiede, osserva Sciascia, un’umanità spesso assente in quanto gli avvocati e i giudici ne sono privati dall’astrattezza del diritto o vinti dalle logiche del potere, “portatori del dogma dell’accertamento come atto sacrale”. I giudici soprattutto diventano “burocrati del Male…onesti ed intelligenti quanto gli aguzzini erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali”.
Gli autori del saggio non lesinano approfondimenti su come il processo accerta le prove secondo l’andamento delle congetture e delle verifiche. Significativa, sotto questo aspetto, è l’incursione di Sciascia nel mondo poliziesco, antologizzato in Il metodo Maigret ed altri scritti sul giallo (Adelphi, 2018). Nessun richiamo alla muscolarità dell’investigatore nelle metropoli buie, al giustiziere senza fiducia nella legge, alle vicende sature di violenza e prive di morale. Neppure alcuna indulgenza per la logica razionalista del giallo classico, ma vince la predilezione per l’indagatore che usa la ragione calata nei problemi morali, “un uomo con eccezionali qualità visionarie e razionali”, un eletto. Il prescelto non può che essere Maigret, un’anomala persona che non pensa ma vede, che scorge la verità nelle atmosfere, che predilige l’intuizione, che rifugge dalle capacità algebriche. Il suo metodo non ha nulla di filosofico o scientifico, ma richiama la “scienza del cuore umano”, una sorta di carta assorbente del reale da cui trapela il mistero.
È un personaggio vero, non un tipo: ha avuto un’infanzia, ha ricordi, impara, è sposato, invecchia e va in pensione. Influisce sulla sua autenticità anche il ruolo istituzionale: è un poliziotto e non un investigatore privato, a lui i cittadini guardano con fiducia sentendosi tutelati. Anche in Sciascia prevalgono i rappresentanti delle istituzioni che sentono però di non poter arrivare ai colpevoli perché, pur onesti e competenti, sono paralizzati dai contesti in cui agiscono. Solitari, quasi isolati come il capitano Bellodi che ha l’arduo compito anche di lottare contro un fenomeno sociale dell’omertà. Il giallo è così una nuova forma di romanzo realista d’inchiesta, impegnato nella denuncia e nella riflessione morale.
È vistosa poi l’influenza in Sciascia di un’altra ossessione, cioè il Potere che inquina le indagini e la raccolta delle prove. Sempre il “contesto”, che darà poi il titolo all’omonimo romanzo, apre gli occhi del lettore (e dell'investigatore) sugli inquietanti scenari d'un Potere che si trasforma in regime-piovra, artefice d'intrighi e di crimini, con anche un’omertosa corresponsabilità dell'opposizione politica. Non è esente da questo quadro anche l'onesto investigatore Rogas che elude la legge nel consentire al reo-vittima Cres di continuare a farsi giustizia da sé, come l'eretico fra' Diego di Morte dell'inquisitore e il pittore di Todo modo. È questa la sua battaglia contro i “Poteri’ e, ancor più, quella contro il più terribile (da qui il termine da lui usato della “Terribilità Manzoniana”), “quello esercitato da certi giudici che potevano fare quello che volevano, distruggere una persona innocente nella reputazione e negli averi e soprattutto privarlo della Libertà …”.
La convergenza di queste traiettorie porta a una visione cupa della macchina giudiziaria che procede con incertezze, blocchi, ritardi cronologici, circondata da un’opinione pubblica desiderante che sollecita soluzioni sbrigative come nel romanzo 1912 +1, con cui il saggio ripetutamente si confronta. Rimangono per Sciascia gli uomini semplici, quelli sul campo, come Vice di Il cavaliere, la morte e il diavolo che colpì Moravia per l’alta valenza simbolica (“Il cavaliere di Sciascia”, La stampa, 2.1.1980). Vice è la polizia, l’uomo logorato dal cancro di cui morirà, e il cancro altro non è che la cosca. Vice è Sciascia che finirà sconfitto.
Le ossessioni, cioè la giustizia e il potere, sono però talora consiglieri insidiosi. È ben vero che le opere di Sciascia non sono saggi teorici sul diritto e sulla giustizia, e quindi è consentito loro di non essere lineari, come prevedibile per un autore che programmaticamente “contraddisse e si contraddisse” (su questo aspetto e su questa rivista “Sciascia e la giustizia”). In sostanza quelle contraddizioni, pur esistenti, manifestano l’inquietudine di uno spirito inappagato e inesausto.
In merito al giudicare, Sciascia ha esaltato il culto della legge, “delle regole, del diritto e della costituzione in quanto la legge è uguale per tutti”, influenzato dalle acquisizioni della Rivoluzione francese. È eliminato così l’arbitrio invertendo i rapporti dello stato assoluto: il diritto non è più creato dal potere, ma il potere esiste perché esiste il diritto. Si afferma il valore del principio di legalità secondo cui alla legge, strutturata con norme generali, astratte, sistematiche, complete, non è opponibile alcun diritto superiore. Queste sono le garanzie per il cittadino, questo è il “positivismo giuridico” su cui si incardina “il garantismo”. All’opposto la Legge è respinta da Sciascia perché espressione di quello Stato intaccato dal Potere che lo inquina e lo corrode.
Come nota il saggio, Sciascia interviene sui problemi collettivi osando, proponendo verità taciute o rimosse, svelando scenari occulti, tentando di demistificare le certezze bugiarde del Palazzo. È un caparbio "uomo-contro", un ostinato dissidente che preferisce al disegno delle idee le piccole storie e la cronaca, un combattente contro la retorica che alligna “dietro ogni angolo”. Provoca il dubbio e il dissenso combattendo il conformismo che marchia come “La fillossera della convivenza”, “L’insidia più spaventosa alla libertà”. Sciascia è un’icona come Pasolini: entrambi corsari, entrambi letterati e saggisti, entrambi polemisti, entrambi avversi all’unanimità, entrambi con senso morale e libertà intellettuale. Sciascia però non è protetto dall’armatura di idee preconfezionate, non legge la realtà attraverso il filtro di Marx o di Adorno, ma utilizza Manzoni, Pirandello, Brancati, Savinio, Stendhal per assorbire la loro saggezza.
L’essere sempre e cocciutamente ‘contro’, senza se e senza ma, talora però lo proietta in battaglie discutibili.
L’ultranoto articolo sui professionisti dell’antimafia (Corriere della sera, 10.1.1987), che il saggio ricorda, è la probabile conseguenza dell’ambivalenza sul tema della Legge, amata e odiata. Sciascia, nel censurare la nomina di Borsellino a Procuratore Capo di Marsala, invoca il rispetto della legge e quindi il criterio dell’anzianità per evitare eccessi discrezionali, mentre il Consiglio Superiore della Magistratura aveva adottato quello della competenza, così bocciando “gli altri (magistrati) più anziani e, per graduatoria, più in diritto di ottenere quel posto”.
Sul versante invece dello Stato stritolato dal Potere esiste una pagina forse ingiallita ma significativa. Il processo in Corte d’Assise a Torino contro i vertici delle Brigate Rosse nel 1976 deve confrontarsi con un fatto imprevedibile: gli imputati revocano il mandato ai difensori e minacciano quelli nominati d’ufficio dalla Corte stessa per consentire che il processo si celebri. Secondo il codice quando vengono a mancare anche questi ultimi è il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati a ricoprire il ruolo rimasto vacante, nell’occasione l’avvocato Fulvio Croce. Questi Il 28 aprile 1977, cinque giorni prima dell’inizio del processo, viene ucciso da quattro brigatisti a colpi di pistola sotto lo studio professionale. A questo punto molti giurati sorteggiati si sottraggono all’incarico presentando certificati medici con diagnosi spesso fantasiose di cui la più diffusa è “sindrome depressiva”, funzionali soltanto a sfuggire alla designazione. Sulla paura di quei cittadini di fronte ad uccisioni, agguati, ferimenti inizia un dibattito crudo ed aspro.
In un’intervista Eugenio Montale ammette che anche lui avrebbe avuto paura e senza giri di parole spiega che “Non si può chiedere a nessuno di essere un eroe. Una paura giustificata dal dato attuale delle cose, non metafisica né esistenziale” (“La sconfitta dello Stato viene da lontano”, Corriere della Sera del 3.5.1977). Replica Alessandro Galante Garrone dichiarando che la presa di posizione del poeta lo intristiva ed era inaccettabile in quanto proveniva da un senatore a vita.
Ricorda invece un giovane torinese che, dopo aver accettato l’incarico di giurato, alla domanda di come potesse fidarsi di uno Stato così poco efficiente aveva risposto: “Lo Stato siamo noi”. (“Il coraggio d’essere giusti”, La Stampa del 8.5.1977). Qualche giorno dopo Italo Calvino si schiera con Galante Garrone ricordando il ruolo dello Stato e dei “cittadini democratici che non si arrendono” proprio quando l’istituzione si dimostra fragile. È pericoloso, aggiunge, che “…il nostro massimo poeta… ci esorti a fare nostra la morale di Don Abbondio… Ci sono momenti in cui non solo gli eroi e gli sfregiati accettano i rischi, ma anche molte persone che, per loro gusto, non amano il pericolo” (“Al di là della paura”, Corriere della Sera del 11.5.1977).
Interviene a questo punto Sciascia con parole esplicite: “non vorrei entrare in una giuria – e specialmente in una giuria chiamata a giudicare quelli che si usano dire delitti contro lo Stato. Così come non capisco che cosa polizia e magistratura difendano… ancor meno capirei che io, proprio io, fossi chiamato a fare da cariatide a questo crollo o disfacimento di cui mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi … sono soltanto parole. C’è una classe di potere che non muta e che non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito o contribuire a riconfermarla (…)”. (“Non voglio aiutarli in alcun modo”, “Corriere della sera” del 12.5.1977). Quei cittadini impauriti che rifiutano l’incarico con certificati medici discutibili per non dire irrealistici rappresentano la sconfitta dello Stato davanti a un rischio dal quale lo stesso Stato non può proteggerli. Opinione condensata nella frase che lo scrittore non ha mai smentito: “Né con lo Stato né con le Brigate Rosse”.
Non è finita. Come una mannaia si abbatte la mano pesante di Giorgio Amendola, forse risentito per l’uscita di Sciascia, proprio nel 1977, dal PCI in cui militava come consigliere comunale di Palermo dal 1975. Intima il silenzio agli intellettuali afflitti dall'ipertrofia del dubbio, che costituisce un sabotaggio in una lotta che non ammette disobbedienza. “Le dichiarazioni di Sciascia e Montale non mi hanno sorpreso in quanto il coraggio civico non è mai stata una qualità di larghe sfere della cultura italiana. Durante il fascismo era diffusa tra molti intellettuali… la pratica del “nikodemismo”, cioè il rendere sempre il dovuto omaggio a Cesare – cioè al regime – riservando alla propria coscienza le intime credenze di libertà. … Quelle dichiarazioni sono diseducative poiché pronunciate nel momento in cui gli italiani sono chiamati a dar prova di coraggio civile, ognuno nel posto che occupa” (“Intervista con Giorgio Amendola”, “L’Espresso” del 5.6.1977).
Sciascia, nel ribadire la propria posizione, accusa il dirigente comunista di essere liberticida quando definisce vile chi la pensa diversamente: “Chi dentro un partito comunista ha attraversato senza scendere da cavallo lo stalinismo e l’antistalinismo, una giustificazione del suo restare a cavallo deve pur darsela e dare» (“Del disfattismo, della carne ed altre cose”, “La Stampa”, 9.6.1977). Il ritorno sull’argomento di Amendola ha la consueta durezza “Chi come Sciascia crede, non riconoscendosi in questo Stato, che bisogna “rifarlo dalle fondamenta” usando “materiali più adatti”, …dà il suo contributo alla demolizione. È un suo diritto, ma se ne assuma tutte le responsabilità politiche” (“Difendere la Repubblica”, “L’Unità” 12.6.1977). (su questo dibattito Borgna, Un paese migliore, Laterza 2006, e Atti Convegno “Storico per passione civile”, a cura di Agosti, Edizioni dell’Orso, 2009).
Nel 1979, dopo un aspro per non dire furibondo dibattito sul rapporto tra gli intellettuali, lo Stato e le BR (Onofri, La storia di Sciascia, Laterza, 2004 e ampiamente Bianchi, Corpo a corpo con il Leviatano. Potere e violenza in Sciascia, Università Padova, 2019) Sciascia non si sottrae e aderisce al Partito Radicale. Sempre in quell’anno accetta di introdurre il Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate Rosse, minuzioso e drammatico resoconto della dirigente radicale Adelaide Aglietta che, pur minacciata, aveva accettato l’incarico di giurato (Milano Libri, ora Lindau 2009). La sua posizione sui giurati che hanno paura è senza dubbio attenuata: "Nelle prime pagine di questo diario, Adelaide Aglietta ricorda quel mio breve articolo, "per cui tanto reo tempo si volse", in cui esprimevo un'opinione sull'essere giurato nel processo che all'Assise di Torino stava per cominciare contro Curcio e altri delle Brigate Rosse. Opinione che continuo a sostenere come abbastanza sensata e per nulla eversiva, se affermavo che, per rispetto e dovere verso me stesso avrei accettato di fare il giurato in un processo di quel tipo: e anzi forzando la mia innata e assoluta ripugnanza a giudicare i miei simili… Di un dovere verso una astrazione e astratto io facevo un dovere concreto e inamovibile; e con gli stessi effetti”.
Furono in totale 134 i cittadini che, per evitare l’incarico di giurato, depositarono i certificati di malattia, e fu la fierezza di alcuni, come la citata Aglietta, a dare l’esempio ad altri di accettare, permettendo così la formazione della giuria. Il 9 marzo 1978 il portavoce dei brigatisti Maurizio Ferrari lesse in un comunicato che “Quel manipolo di linciatori di Stato chiamata giuria non è che la feccia … Le mimose non ingannano più”. Il dibattimento si concluse il 23 giugno 1978 con la condanna di ventinove brigatisti a pene tra i dieci e i quindici anni di carcere. Consentirono la celebrazione del processo anche 20 avvocati torinesi che, estratti a sorte, avevano accettato di essere difensori di ufficio, a differenza di altri 210 indisponibili o indisposti. Durante lo svolgimento delle udienze, circa un mese prima, il 9 maggio, era stato ucciso Aldo Moro.
Amodio-Catalano, La sconfitta della ragione, Leonardo Sciascia e la giustizia penale, Sellerio 2022.