Olocausto: la Tv sociale / La televisione che vorremmo
La televisione ha cominciato a diffondersi in Italia a partire dalla metà degli anni Cinquanta e continua ancora oggi a essere particolarmente rilevante all’interno delle abitudini quotidiane delle persone. Negli ultimi anni, però, si è indebolita e non ha più quella posizione di monopolio che deteneva in precedenza. Ciò è dovuto soprattutto all’arrivo e alla diffusione particolarmente intensa fatta registrare dal mondo del Web. Non c’è ragione però di supporre che la televisione verrà sostituita dalle nuove forme di comunicazione, pur non potendo raggiungere i loro elevati livelli d’interattività e di partecipazione. Siccome offrono qualcosa di differente, la televisione e il Web possono infatti convivere senza grandi difficoltà.
Naturalmente, il mezzo televisivo ha dovuto sinora modificare la sua natura, adattandosi in misura crescente al nuovo contesto mediatico, e dovrà continuare a farlo anche in futuro. Esso, infatti, ha assunto delle caratteristiche inedite in conseguenza del presentarsi di fenomeni come l’arrivo dei nuovi canali digitali e il diffondersi del nuovo modello produttivo basato sul format, vale a dire l’acquisto da parte delle reti televisive di programmi in gran parte realizzati da società specializzate esterne. Per quanto riguarda i contenuti, è evidente invece che la televisione si è adattata al nuovo contesto attraverso la produzione e l’offerta al pubblico di una crescente quantità di serie (Grasso, 2007; Grasso, Penati, 2016). Ma la risposta più innovativa è quella basata sul modello dei cosiddetti «reality show», che mette sulla scena mediatica delle persone comuni e tenta di stimolare una massiccia partecipazione degli spettatori facendo ricorso alle possibilità delle nuove tecnologie della comunicazione.
Quelli che abbiamo appena presentato sono solamente alcuni cenni relativi ai radicali processi di trasformazione che hanno riguardato negli scorsi decenni il mondo televisivo italiano, sino ad arrivare alla situazione odierna, nella quale il modello del reality è diventato quello preso come punto di riferimento da tutto il mondo della televisione. L’obiettivo che in questa sede ci poniamo è innanzitutto di analizzare più approfonditamente i processi di trasformazione che hanno interessato il mondo televisivo, per poi tentare di delineare come potrebbe configurarsi un modello ideale di televisione che possa contribuire a uno sviluppo armonioso delle persone e della società. Un modello pertanto che possa contenere al suo interno anche un programma innovativo e stimolante sul piano culturale come Olocausto.
Dalla Paleotelevisione alla Neotelevisione
La televisione ha cominciato a diffondersi negli Stati Uniti e in Europa negli anni Quaranta, mentre in Italia ha avviato le sue trasmissioni il 3 gennaio 1954. Nel nostro Paese, però, è entrata ottenendo da subito dei risultati particolarmente evidenti, poiché si è insediata stabilmente nel giro di pochi anni nelle abitudini delle persone. Ciò le ha consentito di contribuire in modo significativo al processo di unificazione linguistica e sociale delle diverse culture regionali in atto in quel periodo. La RAI, infatti, ha cominciato a svolgere all’epoca un ruolo pedagogico-culturale strettamente derivato dalla sua natura di ente di Stato e ha mandato in onda perciò anche dei programmi tesi a favorire un processo di alfabetizzazione di massa.
Grazie alle sue specifiche caratteristiche, il mezzo televisivo ha contribuito però all’unificazione degli italiani anche attraverso la creazione di un forte senso di appartenenza a una comunità. Il che è avvenuto soprattutto grazie alla possibilità di presentare degli eventi capaci di raggiungere e coinvolgere delle grandi masse di persone. È il caso, ad esempio, di alcuni importanti eventi sportivi, ma anche di eventi di altro genere, come la trasmissione dei primi passi compiuti sulla Luna dall’astronauta americano Neil Armstrong, avvenuta il 20 luglio 1969.
Tutto ciò è stato possibile naturalmente anche perché i due canali della RAI operavano all’epoca in una condizione di totale monopolio. I programmi raggiungevano infatti delle elevatissime quantità di spettatori e questo nonostante la televisione dei primi anni si proponesse con il linguaggio estremamente povero e dimesso del bianco e nero. È soltanto infatti a partire dal primo febbraio 1977 che la RAI ha cominciato a trasmettere a colori. Tale innovazione ha portato con sé la possibilità per la televisione pubblica non soltanto di rappresentare più vivacemente la realtà sociale, ma anche di esprimere dei significati di abbondanza e benessere. Si può dunque affermare che la televisione a colori abbia permesso il costituirsi di un ambiente ideale per il successivo imporsi del modello consumistico caratteristico delle televisioni commerciali.
Con la sentenza n. 202 della Corte Costituzionale ha avuto fine infatti nel 1976 il monopolio della RAI, la quale ha avuto comunque a sua volta nel 1979 la possibilità di disporre della nuova terza rete. Così, nel giro di pochi mesi, le televisioni private sono passate da 40 a più di 500. Per il mondo rigidamente chiuso della televisione italiana dominata dalla RAI l’arrivo dei canali commerciali ha rappresentato una vera rivoluzione. Ne è nata infatti una contrapposizione tra due opposti modelli di televisione: quello pubblico, della televisione proveniente da un passato fatto di bianco e nero e che cercava di accreditarsi come strumento di comunicazione realistico in grado di mostrare la realtà così com’era, e quello consumista, pubblicitario e tipico della televisione capace di far sognare le persone, che doveva pertanto il suo crescente successo proprio alla capacità di sganciarsi da ogni riferimento alla realtà quotidiana (Colombo, 1998).
Non è un caso, perciò, che durante i primi anni Ottanta Umberto Eco (1983) abbia osservato come la televisione stesse rapidamente passando dal modello della «Paleotelevisione» a quello della «Neotelevisione». Il primo è quello fortemente pedagogico che era tipico della televisione delle origini e nel quale lo spettatore svolgeva un ruolo sostanzialmente passivo: si sedeva davanti allo schermo e accettava di vedere tutto quello che vi veniva trasmesso. Pertanto, lo spettatore rimaneva all’esterno della televisione, dove era ammesso solamente quando dimostrava di possedere delle qualità eccezionali, come nel caso dei concorrenti dei programmi a quiz del presentatore Mike Bongiorno.
L’affermarsi negli anni Ottanta dell’universo delle televisioni commerciali ha rafforzato in maniera crescente il modello della Neotelevisione, il quale rispondeva prima di tutto alla necessità di soddisfare i bisogni d’evasione dello spettatore. Si sono moltiplicati dunque i programmi di varietà e le fiction. Ma ciò che caratterizzava soprattutto la Neotelevisione era il nuovo ruolo svolto dallo spettatore, in quanto questi è stato progressivamente coinvolto all’interno della televisione. Naturalmente, rimaneva isolato all’interno del suo mondo domestico, ma l’illusione di coinvolgimento funzionava, anche per effetto della nuova disponibilità di uno strumento che determinava la sensazione di poter disporre di un grande potere: il telecomando. Lo spettatore poteva inoltre, per la prima volta, partecipare attivamente ai programmi mediante le telefonate effettuate in diretta da casa.
In seguito, ha avuto anche un ruolo da protagonista attraverso qualcuno che lo rappresentava in studio e che non aveva più una particolare competenza culturale o professionale, ma soltanto la volontà di condividere con il prossimo delle esperienze e delle emozioni che aveva vissuto in prima persona. Pertanto, comparivano per la prima volta nei programmi televisivi delle famiglie angosciate che cercavano i loro cari scomparsi, delle coppie e delle famiglie che sottoponevano i loro problemi personali al giudizio del pubblico e degli amanti che litigavano, si commuovevano e si riconciliavano. Questo modello ha preso vita nella televisione italiana con Portobello (nato nel 1977 su RAI 2) ed è via via proseguito con programmi come M’ama non m’ama (trasmesso dal 1983 su Rete 4), Il gioco delle coppie (comparso nel 1985 su Italia 1) e numerosi altri.
Verso la Transtelevisione
Dopo la Neotelevisione, è arrivata per il medium televisivo una fase ancora più innovativa: quella basata sul modello dei reality show. Negli ultimi anni, infatti, tali programmi hanno popolato l’immaginario televisivo di personaggi che erano scarsamente dotati sul piano delle competenze o delle capacità professionali, ma che sognavano comunque di poter diventare celebri in conseguenza di una qualche partecipazione televisiva. Perché tale modello televisivo rappresenta in qualche misura la realizzazione di qualcosa che nelle società contemporanee è considerato estremamente importante da parte degli individui: poter essere inquadrati dall’obiettivo di una qualche telecamera. Oggi cioè tutte le persone attribuiscono un grande valore alla possibilità di potersi trasferire all’interno di uno dei numerosi schermi elettronici che hanno quotidianamente davanti agli occhi (Codeluppi, 2013).
Proprio per questo motivo, per essi è necessario sviluppare una modalità di comunicazione basata su un modello relazionale di conflittualità simbolica con gli altri. Infatti, se la Neotelevisione di cui parlava Eco prometteva alle persone negli anni Ottanta di poter ricostruire quei legami personali e affettivi che erano andati progressivamente frammentandosi nella società, l’odierno modello del reality si basa invece sulla nuova «Transtelevisione» (Codeluppi, 2011), la quale si muove nella direzione opposta, in quanto tende a mettere tutti contro tutti: gli spettatori rispetto ai concorrenti (che, tramite il proprio voto, possono fare vincere o eliminare) e, di conseguenza, i concorrenti tra loro.
Ciò può avvenire perché la televisione è ancora in grado di presentarsi come il più importante strumento di comunicazione operante nella società. Uno strumento perciò che detta a tutti gli attori sociali i ritmi e le tematiche primarie della vita collettiva. L’eccessivo parlare che si è fatto in questi ultimi anni dei nuovi media digitali e del Web ha in parte oscurato questo fondamentale ruolo sociale ricoperto dalla televisione. Ma va considerato che tutti i media, com’è noto dai tempi di Marshall McLuhan, «istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi ma tra di loro» (1967, p. 63), procedono cioè sovrapponendosi progressivamente e spesso ibridandosi. Così, oggi i vecchi media come la televisione non sono scomparsi. Di fronte al sopraggiungere di tecnologie di comunicazione innovative, hanno semplicemente ridimensionato il loro ruolo e cercato d’inglobare almeno una parte di tali tecnologie all’interno dei loro contenuti e delle loro capacità comunicative. Proprio quello che ha fatto la televisione, trasformatasi in Transtelevisione, perché, di fronte all’arrivo e al crescente successo del mondo del Web, è diventata un modello televisivo che tende ad adottare quelle modalità reticolari e “liquide” di funzionamento che caratterizzano specificamente l’identità di tale mondo.
Pezzi della realtà quotidiana dell’individuo sono andati così a costituire l’ossatura di numerosi programmi televisivi e il contatto tra lo spettatore e il medium è sempre più diventato il tema al centro dei contenuti del medium stesso. Dunque, la realtà sociale si è sempre più massicciamente trasferita dentro lo schermo, confondendosi con le sue forme di rappresentazione. Il processo di evoluzione della televisione e dei media più in generale sembra pertanto spingere progressivamente la nostra società verso una crescente confusione tra lo spettatore e la messa in scena spettacolare, tra il reale e l’immaginario (Codeluppi, 2018).
Altri cambiamenti dello scenario televisivo
Può essere utile, a questo, punto cercare di vedere quali altri significativi processi di cambiamento stiano modificando il sistema televisivo italiano. Tale sistema sta cambiando infatti anche per effetto di un processo di frammentazione della sua tradizionale offerta. Le televisioni generaliste, sino a pochi anni fa, proponevano a grandi masse di spettatori un pacchetto di programmi rigidamente organizzato secondo un preciso palinsesto, mentre oggi i canali si stanno moltiplicando e di conseguenza si vanno contraendo le audience di ciascuno di essi. Anche l’arrivo del digitale terrestre esercita una pressione affinché il sistema televisivo si muova in questa direzione, grazie alla possibilità di tale tecnologia di offrire più canali e servizi interattivi. E si intensifica pure la concorrenza: le società di telecomunicazione, ad esempio, possiedono un elevato numero di abbonati ai quali sono in grado di offrire anche dei contenuti televisivi.
Lo spettatore, che ha a disposizione una maggiore offerta tra cui scegliere, accresce il suo potere e ciò comporta una crescita anche del suo livello d’infedeltà. Se il telespettatore può vedere lo stesso prodotto su più canali e su più supporti, non ha più la necessità di restare strettamente legato a una particolare rete. D’altronde, nell’attuale condizione, egli sa che se perde qualcosa ha comunque la possibilità di recuperarlo in qualsiasi momento.
Questa de-sincronizzazione della fruizione determina un indebolimento di quella importante funzione di regolazione del tempo sociale che veniva tradizionalmente svolta da parte della televisione generalista, ma produce anche un indebolimento della sensazione di far parte di una comunità riunita nello stesso momento davanti a un unico schermo. Tale sensazione non è però scomparsa. Non è sparito cioè quel «comune senso di connessione e condivisione che il singolo spettatore prova immaginando altri fruitori impegnati, pur non simultaneamente e chissà in che luogo, nella medesima visione» (Scaglioni, Sfardini, 2008, p. 119). Le immagini, semplicemente, vengono fruite in tempi differenti, ma si tratta comunque delle stesse immagini. E pertanto l’esperienza fatta dagli spettatori rimane sostanzialmente la medesima.
Le reti televisive generaliste sono comunque tutte oggetto di un processo d’indebolimento e per lottare contro tale processo non hanno altra strada che quella di tentare di sviluppare una specifica identità. Devono cioè reagire ai problemi che le riguardano tramite una strategia di “brandizzazione”, ovvero di costruzione di un’identità di marca che sia specifica e in grado di generare un maggior livello di fedeltà da parte degli utenti. L’attenzione del pubblico tende così a spostarsi dal singolo programma alle marchenetwork e ciò comporta che la singola marca televisiva, una volta che sia riuscita ad affermarsi sul mercato, può riuscire facilmente a collocare i suoi diversi programmi.
Il processo di “brandizzazione” può riguardare però anche singoli programmi, come è successo ad esempio con diverse serie televisive americane – I Soprano, Sex and the City, X-Files, ER, Disperate Housewives, CSI, Dr. House, Lost, Grey’s Anatomy, Mad Men, House of Cards, Narcos, ecc. – oppure con reality show di notevole successo come Grande Fratello o American Idol. Programmi che proprio la trasformazione in una marca dotata di una potente identità consente di fare fruire nello stesso tempo agli spettatori attraverso diversi strumenti di comunicazione, assecondando pertanto la loro sempre più evidente natura multimediale. Ne deriva che la fruizione del programma si dilata dal punto di vista temporale e si articola su spazi diversi dalla tradizionale abitazione domestica, con il risultato anche di determinare dei percorsi di fruizione che sono sempre più personali. Ma ciò non impedisce comunque a un programma “brandizzato” di ottenere un buon successo sul mercato televisivo. E di dare vita anche a fenomeni di fanatismo e d’intenso coinvolgimento emotivo, come quelli che sono stati riscontrati ad esempio in passato dagli studiosi in relazione a un programma di culto come Star Trek (Jenkins, 2006; Kozinets, 2016).
È possibile ipotizzare che, nei prossimi anni, la televisione e il Web possano tendere progressivamente a convergere tra loro. Già oggi, d’altronde, accade sovente che vengano fruite attraverso lo stesso schermo elettronico. Sarà interessante però vedere se ci sarà una vera fusione oppure se, come viene sostenuto dalla cosiddetta «teoria della rimediazione» (Bolter, Grusin, 1999), anche uno strumento di comunicazione non più giovanissimo come la televisione continuerà a ricoprire un ruolo estremamente significativo nonostante quell’intenso processo di digitalizzazione che sta sempre più interessando tutto il mondo dei media.
Questo testo è la prima parte della Postfazione di Vanni Codeluppi a Vanni Codeluppi e Aldo Grasso (a cura di), Olocausto: la Tv sociale, con testi di Jean Baudrillard e Günther Anders, uscito oggi per FrancoAngeli editore.
Per saperne di più
Bolter J.D., Grusin R. (2002), Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano.
Codeluppi V. (2011), Stanno uccidendo la tv, Bollati Boringhieri, Torino.
Codeluppi V. (2013), L’era dello schermo. Convivere con l’invadenza mediatica, FrancoAngeli, Milano.
Codeluppi V. (2018), Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite, Carocci, Roma.
Colombo F. (1998), La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’ottocento agli anni novanta, Bompiani, Milano.
Eco U. (1983), Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano.
Grasso A. (2007), Buona maestra. Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri, Mondadori, Milano.
Grasso A., Penati C. (2016), La nuova fabbrica dei sogni, Il Saggiatore, Milano.
Jenkins H. (2008), Fan, Bloggers e videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale, FrancoAngeli, Milano.
Kozinets R.V. (2016), Il culto di Star Trek. Media, fan e netnografia, FrancoAngeli, Milano.
Scaglioni M., Sfardini A. (2008), MultiTV. L’esperienza televisiva nell’età della convergenza, Carocci, Roma.