Una rilettura di “Delitto e castigo” / La terapia della grazia

1 Settembre 2021

In Nicodemo a Pietroburgo, (Mimesis, Milano-Udine, 2021, pp. 96, euro 10) Lorenzo Gobbi, rilegge Delitto e Castigo di Dostoevskij alla luce della categoria della grazia che illumina e trasfigura improvvisamente la vita dei maledetti, dei reietti, degli ultimi, nella quale scorge la possibilità di una terapia esistenziale per quanti sono sopraffatti dallo spirito di risentimento nei confronti della vita – sentimento ben illuminato da Nietzsche – come Raskol’nikov, il protagonista del romanzo. Ad incarnarla è Sonja, una sventurata costretta dai genitori a prostituirsi appena diciottenne per mantenere la famiglia caduta in miseria per colpa dei debiti contratti dal padre alcolizzato, nella quale l’autore scorge una figura cristica, ispirata, in particolare, al Vangelo di Giovanni. Una spiritualità alla quale tuttavia, osserva, “raramente si arriva percorrendo le navate di una chiesa” (p. 14). 

 

Nella figura del Cristo, del resto, Dostoevskji ha sempre scorto un’ideale di umanità e giustizia che è progressivamente divenuto il suo credo, che tuttavia non lo ha condotto ad abbracciare alcuna religione, come spiega con chiarezza in una lettera celebre lettera del 1854 a Omsk: 

“Vi dico di me stesso che io sono figlio di questo secolo, ancora adesso figlio dell’ateismo e dei dubbi e che addirittura (questo lo so) rimarrò tale fino alla tomba. Che terribili tormenti mi è costata, e mi costa ancora, questa sete di credere che si fa tanto più forte nella mia anima quanti più argomenti contrari a essa trovo in me. E pur tuttavia, a volte Dio mi concede dei minuti in cui sono perfettamente tranquillo; in questi minuti io amo e mi accorgo di essere amato dagli altri e in momenti simili io ho formulato il simbolo della mia fede nel quale tutto per me è chiaro e sacrosanto. È un simbolo molto semplice, eccolo: credere che non ci sia niente di più bello, profondo, simpatico, ragionevole, virile e perfetto di Cristo e non solo che non ci sia, ma – mi dico con amore geloso – che non ci possa nemmeno essere. E ancor di più, se qualcuno mi dimostrasse che Cristo non è la verità e se anche realmente la verità fosse al di fuori di Cristo, allora io preferirei restare con Cristo che nemmeno con la verità» (citata in T. Kasatkina, Dostoevskij. Il sacro nel profano, Rizzoli, Milano 2012, pp. 25-26.)

 

È importante sottolinearlo perché la terapia della grazia che Sonja fa sperimentare a Raskol’nikov, per quanto profondamente iscritta nell’insegnamento del Cristo, appare non di meno potenzialmente laica e consiste nel “restituirgli la vita riscrivendone la biografia” (p. 81), ossia offrendogli categorie di significato capaci di trasfigurare il senso della sua esistenza facendolo passare dal paradigma del giudizio – abbracciato ancora oggi da buona parte delle chiese, religiose e non – a quello, per l’appunto della grazia. Un paradigma non pontificato ma testimoniato da un accompagnamento responsivo, non giudicante, che lo invita ad essere innanzitutto veritiero con se stesso – “la verità ti salverà”, sentenzia il Vangelo di Giovanni, ma una verità da fare, da compiere, da incarnare e non da comprendere in astratto.

 

 

Ed è appunto questa la verità che Sonja, ultima degli ultimi nella società d’allora – ma è poi cambiato molto oggi? – incarna; ella non si lascia definire dal ruolo che ricopre e che è ben lontana dall’amare, non si abbandona al risentimento verso l’ingiustizia di un mondo, di una vita, di un Dio, che permettono tutto questo, ma nemmeno, ed è questo un punto cruciale, vive la sua condizione come quella di un agnello sacrificale. In questi giorni che ne hanno visto la scomparsa, mi piace ricordare in queste righe una folgorante considerazione di Roberto Calasso in Le rovine di Kasch: “ci hanno insegnato che il sacrificio serve a lavare la colpa. Non è così, il sacrificio è l’unica colpa”. La teologia che Gobbi indaga, e dimostra di fare propria, in questo libro ispiratissimo e a tratti poetico, è dunque una teologia non sacrificale (“Misericordia voglio, non sacrifici”, dice del resto il profeta Isaia ed è su questo insegnamento, lo voglia riconoscere o meno la chiesa, che s’impernia l’intera vicenda evangelica). Grazie a questa misericordia, come scrive Romano Màdera nella prefazione, “il mondo è ogni volta ri-creato dalla grazia di un cuore ri-donato a chi lo ha perduto, a chi è stato trafitto, a chi è stato derubato, ma anche a chi ha rubato, ha colpito, ha violato, ha disprezzato”.

 

È per questo che propongo di leggere la grazia come una terapia dell’esistenza, nel senso letterale ed etimologico di servizio che onora la vita, riconosciuta nella sua dignità e nel suo splendore persino nelle sue forme più reiette. Spiega bene Gobbi:

“La grazia è questo, semplicemente: un amore immotivato che accompagna, attende, trasforma restituendo la terra, il cielo, lo spazio, il tempo, la voce, il passato e l’esattezza; è un’intimità che ci raggiunge, ci coinvolge e ci apre. È così che ci riporta a casa, in un mondo che si fa vivibile, (…) fosse anche la Siberia dei lavori forzati”, (p. 84) dove finiranno Raskol’nikov e Dostoevskij. Fate attenzione ai verbi scelti: la grazia non è astratta ma legata ad azioni che tratteggiano azioni, dispongono diversamente alla vita e al rapporto con se stessi, nel segno di una maggiore intimità e autenticità, figlia innanzitutto di un buon esame di realtà finalmente percepita, come direbbe Simone Weil, nel suo splendore (La prima radice, Se, Milano, 2013). È importante sottolineare che si tratta di un’esperienza e non di un giudizio astratto perché mentre questo ci pone sempre a distanza da ciò che giudichiamo, la grazia ci porta nel cuore, compassionevole, delle cose. 

 

 

“Non è così”, osserva l’autore, “che dovremmo guardare al mondo? Come Sonja? Non è con lei che dovremmo osservare e avvicinare le cose e le persone? Che Dio sia o non sia: questo è il punto. Se praticassimo la laicità della grazia, se accettassimo di essere Sonja – e può accadere di scoprire che davvero lo siamo – se vedessimo come lei, se come lei cogliessimo in noi e in chiunque le azioni e non i giudizi, se come lei uscissimo dalla logica della condanna e del contraccambio, se come lei donassimo spazio e voce, esattezza, offerta di contatto allora – pur nella chiarezza, nella consapevolezza [della tragicità della vita] che non cerca menzogne – non disprezzeremmo né l’innocente né il colpevole, né l’orgoglioso né il vile. Se vedessimo in noi – nel bambino che siamo stati, nell’adolescente che è stato umiliato, nell’adulto che è stato oltraggiato – la dignità di Sonja e la sua innocenza traboccante e viva, avremmo un delicato rispetto per lei ma anche pietà per Raskol’nikov: dei tanti Raskol’nikov che sono in noi e anche di quelli che sono fuori di noi.” (p. 87)

E ancora:

 

“Se così vivessimo, se la grazia circolasse dall’uno all’altro di noi, Dio – che sia o che non sia – affiorerebbe sorridente dalle acque dei fiumi, dalle cortecce degli alberi, persino dalle pozzanghere stagnanti negli avvallamenti dell’asfalto, dalle fiancate degli autobus, dalle falle insegne dei negozi, dalle impalcature dei muratori intorno alle case in costruzione: non avremmo bisogno di resuscitarlo in noi né di cercarlo. Gli restituiremmo il mondo perché saremmo nella vita, pienamente e semplicemente. La vita e la grazia sarebbero la stessa cosa e scopriremmo che la grazia è una delle possibilità della vita e non qualcosa che nella vita si riversa provenendo chissà da dove”. (p. 91)

 

A questa possibilità, ed ecco spiegato il titolo di questo lavoro, si accede quando, come dice Cristo a Nicodemo, ci si dispone a rinascere; Cristo dice dall’alto, Sonja dal basso, ma mai come in questo caso le due vie si rivelano essere la medesima: ciò che conta è che conducano al cuore della vita, che diano cuore a una vita che sembra non averne, che siano capaci di rigenerarla come questo breve libro, nel suo piccolo, riesce a fare.

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