Lacrime e passione per un abito da sposa

8 Dicembre 2024

“Chi scriverà una storia delle lacrime? In quali società, in quali epoche si è pianto?”. Se lo chiede Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso ben sapendo che il pianto è sì espressione umana, ma il suo valore cambia da epoca ad epoca. Caroline Guiela Nguyen propone una diversa interpretazione delle lacrime e della commozione nelle storie, con il suo ultimo lavoro teatrale, pubblicato da Actes de Sud, Lacrima (in italiano, forse omaggio al melodramma, genere che ispirò il primo lavoro del 2011 Se souvenir de Violetta) e nel sottotitolo sembra esplicitare una citazione del critico francese: “Histoire contemporaine de larmes”. La regista franco-vietnamita torna su questo lato dell’emotività e del sentire già affrontata in Saigon, che nel 2017 la impose come una delle più importanti e innovative personalità del teatro contemporaneo: il pianto, le lacrime fanno parte di una precisa tradizione culturale in Vietnam, paese da cui proviene la madre, e una storia commovente non serve a edulcorare la realtà, ma anzi ad essere immersi in essa, partecipi. Questo in contrasto con il giudizio negativo (da tradizione marxista) che ha fatto delle lacrime il simbolo di un sentimentalismo retrivo e consolatorio. Lo testimonia l’impianto generale della pièce, al tempo stesso drammatico, sentimentale e politico. Come altri lavori precedenti, Lacrima è costruito come un grande affresco narrativo fatto da più storie, minime e personali, intrecciate a loro volta al procedere dei destini generali della grande Storia. Come Saigon (e il più ambizioso, ma meno riuscito Fraternité del 2021) anche questo nuovo lavoro, che ha debuttato lo scorso luglio ad Avignone, è transitato per il Piccolo Teatro di Milano, che lo co-produce con Théâtre national de Strasbourg (insieme a una lunga lista di grandi teatri europei e istituzioni internazionali).

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Lacrima è la storia della realizzazione dell’“abito del secolo” commissionato da una inventata ma plausibile principessa d’Inghilterra per il suo matrimonio del 2025. È il suo sogno da favola, e la giovane aristocratica è voce narrante fuori campo che scandisce le tappe degli otto mesi necessari per realizzarlo. Un abito che, affidato a un brand dell’alta moda, un mito d’oggi, per dirla ancora con Barthes, è anche il sogno di una middleclass globale. A disegnare il vestito sarà uno stilista, Alexandre, quasi tipico nella sua nevrotica megalomania. Lacrima però narra soprattutto la storia della sua manifattura, del travaglio umano di questo processo di lavoro, e di come le sue condizioni porteranno anche dolore, sfruttamento, ricatti, sacrificio. Per realizzarlo saranno coinvolte una sartoria di Parigi, un gruppo di merlettaie di Alençon – depositarie di tecniche di lavorazione tramandate per generazioni e che dovranno restaurare un famoso velo antico, di cui la principessa vuole una copia e per realizzarla, con ricamo di 250 mila perle, la sartoria si affida a sua volta (con la consueta delocalizzazione) a un laboratorio di Mumbai, specializzato in questo tipo di intarsi complessi e preziosi. Se questa è la trama di una produzione globale, l’ordito (la metafora è ovvia ma necessaria) è nelle vite – e nelle difficoltà – di chi lavora. C’è Marion, che dirige l’atelier di Parigi, piegata e spezzata non solo dallo stress dei tempi serrati di consegna, ma anche da un marito ossessivamente geloso e violento che metterà a dura prova lei e la figlia. Oppure Thérèse, una delle merlettaie più anziane, che non solo porta le tracce sul corpo di un lavoro inaspettatamente pesantissimo (cecità, apnee, flebiti che colpivano le merlettaie, apprendiamo dalle interviste alle donne) ma dovrà scavare nella dolorosa storia familiare per aiutare la nipote che forse ha una malattia ereditaria. Infine, Abdul, il maestro ricamatore indiano, che lavora venti ore al giorno con il glaucoma e mantiene una figlia lontana e sarà però licenziato per le ipocrisie “di sostenibilità” degli europei (“voi volete l’etica ma che non vi costi un centesimo” dice il responsabile del laboratorio di Mumbai).

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Nguyen infila una grande quantità di dettagli, a volte c’è didascalismo, ma nel complesso questo affresco alla Balzac (aggiornato però al ritmo e montaggio serrato da serie tv) è trascinante. La sua chiave di volta è il segreto: dai vincoli di riservatezza imposti ai lavoratori dalle aziende, ai segreti familiari, per passare ai segreti della loro arte di ricamo. È come se Nguyen lavorasse in modo ravvicinato per mettere in luce come sia custodito il lato segreto della Grande Storia. Emozione e critica al sistema si fondono, questa è la novità estetica di Nguyen, senza perdere di vista l’obiettivo principale, l’accusa contro l’implacabile meccanismo delle committenze, il cinismo dell’industria degli abiti (negli ultimi anni tanti libri trattano il tema, tra cui il recente Fashionopolis di Dana Thomas, ma a suo tempo lo denunciò anche Roberto Salviano in Gomorra). Nguyen sintetizza il suo metodo con un detto cinese, ripetuto poi da un personaggio: “Non puoi disfare un tessuto di seta, perché in esso sono contenute le lacrime di un’epoca”. Lacrime come segno di storia, non velo melò per offuscarla.

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L’impianto drammaturgico di Lacrima è costruito a loop, la prima scena sarà anche l’ultima (il drammatico collasso di Marion poco dopo aver finito di cucire e assemblare l’abito): circolarità che smonta drammaturgicamente il meccanismo tradizionale del lieto o tragico finale, pur usando a volte registri da telenovela (la scena made della figlia di Marion che interrompe la videochiamata con la principessa) a volte più didascalici (il crollo della parete che svela il “retroscena”). Inoltre, nessuno in Lacrima è protagonista – sebbene le storie di Thérèse e Marion siano in primo piano – perché (brechtianamente?)  non ci sono eroi ed eroine. Se il dettaglio tecnico rallenta, esso pure è necessario (ha funzione straniante)  e nessun elemento sarebbe sacrificabile nel progetto generale di Nguyen, che appare limpido: mettere in scena tutto ciò che sta tra le 4668 ore di lavoro per realizzare l’abito della principessa e i 27 minuti effettivi di utilizzo. La scenografia di Alice Duchange è come in altri lavori di Nguyen, unico ampio luogo per più spazi e tempi, tra la Francia e l’India: grandi tavoli del ricamo e della sartoria, gli ambienti di lavoro, con manichini su cui stanno gli abiti dell’atelier d’alta moda (e i costumi) realizzati da Benjamin Moreau. 

Sulla parete degli ovali, quasi citazioni ottocentesche, intorno tavoli con specchi – simili a quelli dei camerini. Il racconto si avvale di raccordi multimediali, con interviste radiofoniche o videochiamate, messaggi whatsapp, che visualizziamo sullo schermo su cui scorrono anche i sottotitoli (le lingue in scena sono francese, inglese, tamil e lingua dei segni). Sullo schermo scorre anche implacabile il tempo, appaiono i luoghi con lo split screen, i tempi dei fusi orari, mostrando come il lavoro – nonostante tutte le ipocrite raccomandazioni dell’ufficio legale del brand fashion in Europa – si spalmi su quasi tutto il giorno. Con un calco di Carlo V qualcuno dice a un certo punto: “sull’abito della principessa non calerà mai il sole”, traccia di un colonialismo che non ha bisogno di conquistare terre, ma si esprime nei contratti di servizio delle multinazionali. Geopolitica e intimità, artigianato prezioso (e orgoglioso di aver partecipato alla bellezza del mondo) e cinismo dell’industria, si mescolano in Lacrima che tiene presente la lezione di Brecht (“Chi costruì Tebe dalle Sette Porte?”). Molto buono il lavoro fatto con il gruppo di attori, alcuni professionisti altri amatoriali, con una recitazione da iper-naturalismo minimale, fatto anche di irrilevanze, reso ancora più estremo dall’assenza dei microfoni (che forse però avrebbero aiutato le file più distanti). Nguyen porta in scena, con una sorta di realismo anti-teatrale. Alla regista – come ai pittori di grandi affreschi – interessa il dettaglio, ma sapendo che la grandezza del dipinto è data dalla somma, dal colpo d’occhio. E il colpo d’occhio di Lacrima alla fine funziona benissimo.

Le fotografie sono di Jean Louis Fernandez.

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