Le Serve di Genet e l’eros del potere
C'è un'intuizione storica molto interessante, nella decisione di Veronica Cruciani di riprendere oggi un classico del ‘900 di un autore cult, ma negli ultimi anni forse meno rappresentato, quale è Le serve di Jean Genet. La regista (Premio della Critica 2012 e Premio Hystrio 2022) ne ha curato l’adattamento e dirige un bel trio di attrici: Eva Robin's (Nastro d’argento e Premio Ubu 2011), Beatrice Vecchione e Matilde Vigna (due volte Premio Ubu e una volta Premio Duse 2021), con le quali ha debuttato in prima assoluta all'Arena del Sole di Bologna il 1° febbraio. L’intuizione è che nel cuore aggrovigliato di questa favola atroce c’è un sentimento impolitico protagonista della nostra epoca (anche politica): l’odio. Un’emozione ostile di rifiuto, che spesso ha a che fare con l’invidia e l'identificazione impossibile, il non potere avere o essere ciò che si desidera. Non a caso Cruciani ha segnato l’avvio dell’atto unico con la canzone dei Placebo Protect Me From What I Want che si ascolta mentre le due attrici, entrate in scena, ma ancora fuori dalla pièce, e dopo aver dato il via all’acting con un cenno, iniziano a spogliarsi dei loro abiti normali, quelli di Beatrice e Matilde, per vestire quelli di Claire e Solange, le due serve. Dietro di loro la scritta “Proteggimi da ciò che voglio”.
Scritto nel 1947, Le serve estrae il suo nucleo da un evento di cronaca che sconvolse la Francia negli Anni ‘30, quando una ricca signora venne atrocemente uccisa con la figlia dalle due domestiche di casa. Genet si concentra sul rapporto di amore, sottomissione, adorazione e odio di due serve verso Madame, la loro Padrona. Claire, Solange e la Signora – che comparirà solo per un segmento centrale – sono incastrate in continue tensioni di appartenenza e dominio. La coppia di domestiche, come una sola entità, adora e disprezza la Padrona, ma anche tra le due sorelle c’è una corrente di possesso e controllo reciproco e tensione erotica (“ogni sera si masturbano e alla rinfusa scaricano, l'una addosso all'altra, l'odio per la Signora” scrive nella sua nota Come recitare Le serve lo stesso Genet).
Su un palco inizialmente spoglio e spento, ingombro di casse nere chiuse, troviamo da subito Solange e Claire. Sono nella camera della Signora, che è assente. Discostandosi dalle indicazioni dell’autore (che voleva una camera e un letto reale, addirittura capitonné) Cruciani e Paola Villani, autrice delle scene, hanno immaginato cubi asettici dai toni scuri, casse da attrezzeria teatrale, che diventano basi per materassi gonfiabili e, schiudendosi, armadi pieni i vestiti, tutto nella medesima tonalità bluets come le lenzuola e come le divise delle serve e i fiori (i costumi sono di Erika Carretta) con un tocco vagamente proustiano.
Quella che si svolge da subito tra Claire e Solange è una “cerimonia”, un atto rituale. Le due serve, alternandosi, ogni sera recitano: l’una nei panni, alla lettera, della Signora, esprimendo il desiderio di essere “La Signora”; l’altra, a turno, interpreta la parte della sorella. L’atto si svolge nella sera in cui è Claire a fare Madame e Solange a interpretare sua sorella Claire.
Già in questo slittamento di identificazioni, prende avvio la catena di sottomissioni, il gioco in cui chi interpreta la Signora schiavizza sua sorella nel corpo, ma sé stessa nel nome. Entrambe identificandosi con ciò che odiano e che la fa esistere (“È grazie a me, soltanto a me, che la serva esiste. Grazie ai miei strilli e ai miei gesti” dice a un certo punto la Claire-Signora). È come se tra la Signora e le Serve si mettesse in atto il falso ribaltamento di ruoli che c'è nelle prestazioni BDSM a pagamento: chi ha i soldi è socialmente “il padrone”, ovvero chi paga per il lavoro sessuale una persona che dovrà però avere il ruolo da “master/mistress”. Così nel gioco sessuale sarà colui che ha i soldi e che paga a essere trattato “da servo” e colui che è al soldo di chi paga interpreta invece “il padrone” (dunque il gioco erotico non cambia la differenza sociale). Per Genet, tuttavia, lo spazio del rituale di asservimento di Claire e Solange non si ferma all’eros ma punta verso qualcosa di più oscuro e inafferrabile, l’atto criminale. Ogni sera l’omicidio della Signora verrà simulato (ma sempre interrotto “perché perdiamo troppo tempo nei preliminari” dice Claire, con doppio senso sessuale, quando suona la sveglia che segnala l’arrivo della Padrona). Le due serve talvolta “vanno fuori carreggiata” con il loro copione, e con lapsus escono dalla parte, facendo affiorare il perno dello sviluppo drammaturgico: il Signore, cioè l’amante della Signora, è ora in carcere accusato di furto a causa di lettere anonime. Non sono state scritte dalla Padrona (come Claire dice, nella foga identificativa della recita) ma da lei stessa, in un continuo entrare e uscire dalla parte, anzi dalle doppie parti.
Qui va detto che sono bravissime Matilde Vigna e Beatrice Vecchione a smontare e rimontare il teatrino dei paradossi emotivi, cambiando rapidamente più volte registro, mimica, postura del corpo, toni, tenendo un ritmo che, per quanto macabro, con sottofondo tragico di chi punta alla morte, è comunque da commedia. Vigna e Vecchione filano via, nei botta e risposta, con scioltezza, rivelando un affiatamento attoriale e personale (sono cresciute insieme alla Scuola dello Stabile di Torino) che cementa la complicità a orologeria delle loro personagge. Il fine dell’agire delle due sorelle è però sempre, come in un sogno, lo scarico dell’energia (o come nella masturbazione, l’orgasmo) che tuttavia non basta mai, si ripete e ogni volta è frustrato. Si sovrappongono i livelli: le due sorelle mimano l’odio serve-padrona, tirando in ballo gelosie e rivalità amorose tra loro con un lattaio, nonché l’attrazione sottesa. Sono giochi di ruolo, dell’odio come della vendetta, che però rivelano rispecchiamenti multipli. Solo proclamati o al massimo incompiuti, come le lettere false. Lo stesso faranno col progetto di avvelenamento, in una giostra di rimpalli e cambi di ruolo tra vittima e carnefice. Dietro questo tourbillon “fra gioco del delitto e delitto reale tipico della psicosi” come scriverà Musatti della pièce (anche Lacan si interessò del caso di cronaca che la ispirò) c’è paranoia o psicosi che si manifesta in una impotenza: il rituale non basta alla rivolta, perché ciò che si mette in scena è il desiderio di essere la Padrona, non di annientarla.
Ed è l’ingresso della Signora che fa cadere tutte le maschere, riportando le due sorelle “nel deserto del reale” (l’accenno a Matrix è la seconda nota che Cruciani pone a didascalia su uno dei bauli) e ristabilisce un ordine della casa (fatto di disparità economica e di status). Madame, col suo agitarsi melodrammatico, è preoccupata per il Signore in Carcere, ma resta vigile. Anzi, dissemina sospetti, osservazioni lucide sulle cose (chi ha messo la sveglia lì? Chi ha spostato la chiave del secretaire? Perché ti sei truccata?, dice a Claire). Padroneggia la realtà, porta le due sorelle a inciampare sui dettagli, fino a far rivelare alle due che il Signore ha chiamato ed è stato rilasciato. Ora rischiano di essere scoperte, tutto sembra crollare.
La scelta di Eva Robins’s per questo ruolo si rivela felice, per come sa tratteggiare in modo ambivalente, sottile, il personaggio che si muove tra alea fatua e cinismo, assecondando il tono non-naturalistico che raccomandava Genet per tutti i suoi interpreti (“l’attore per essere vero deve recitare falso” scrive). Aggiungiamo che la sua transessualità, divenuta iconica nella sua carriera televisiva ma anche teatrale, si fa un senhal di una fuoriuscita della pièce sia da connotazioni di genere – tanto che Genet avrebbe preferito in scena dei “giovanetti” – sia da ogni visione femminista. Non si mette in scena nemmeno quella “femminilità senza femmina” di cui parlava Sartre, che inchiodava il sottotesto di Genet alla sua omosessualità.
Cruciani immette invece la fluidità dei segni identitari al servizio di uno scontro tra figure: Claire veste abiti da vamp, calze autoreggenti, ecc., in linea con uno stereotipo erotico maschile, ma non è la Signora, che invece indossa i pantaloni (bello il completo maschile esibito da Eva Robin’s che ricorda quelli di Marlene Dietrich, come quello nel film Marocco). Riletto così, settanta anni dopo, è possibile trovare ne Le serve un gioco di simulacri, oscillando tra sesso e merce. Essendo una Diva, ciò di cui la Signora è padrona è l’immaginario, non è solo proprietaria di cose, abiti, gioielli, pellicce. Dunque, tutta la conflittualità riguarda il potere nell’alveo di eros, perché la lotta contro il potere è fatto di desiderio del potere. Conta la disparità economica, certamente, ma la rivoluzione non c’entra ed è più forte il desiderio che il comunismo (del resto Genet scrive di Le serve: “non si tratta di perorazione sulle sorti della servitù”). Fondamentale l’identificazione, l’eros anche nella conflittualità di un capitale sempre più astratto, perché è il ruolo dell’immaginario di potere che crea ricchezza, più che viceversa, come nel capitalismo classico.
Per dirla con una battuta: nel ruolo di Madame potrebbe esserci anche Chiara Ferragni che fa sé stessa. Il meccanismo degli haters che la invidiano perché la adorano è assimilabile a quello di Claire e Solange, un odio desiderante, che è olio nel motore del neo-capitalismo che ha costruito una strategia di simboli più importanti dei capitali, almeno nel XXI secolo occidentale. Non c’è lotta di classe, né logica Servo-Padrone di Hegel, ereditata dalla maschera del “Servo geniale” della Commedia dell’arte come Arlecchino che frega Pantalone.
Le serve ci dicono di una Padrona che sa convincere le Serve a esserlo, che le raggira, vantando addirittura crediti (“Che cosa non ho fatto per voi”); le seduce (“sono servita dalle domestiche più fedeli”) ma non manca di osservazioni padronali, dentro il paternalismo, quando rispondendo a un elogio di Claire dice velenosa: “Quanti onori e quanta negligenza: mettete le rose sui mobili ma non li spolverate”. Claire, uscita la Signora che ha evitato (e forse intuito) la trappola omicida, è soggiogata e affascinata e non può che commentare: “La Signora ci uccide con la sua dolcezza”. Il groviglio di sdoppiamenti e rispecchiamenti, reso ancora più serrato dal compattamento del testo, già di per sé non lungo, ne fa una “favola”, come voleva Genet, che vista con gli occhi di oggi, si trasforma in mostruosità al rovescio, Cenerentole al contrario in un tempo storico in cui le vittime sognano di essere proprio quei carnefici che le condannano.
Sognano anche di possedere “le cose”, che però “tradiscono”, come dice a un certo punto Claire, come se appartenessero magicamente solo alla Signora. Destinate alla sconfitta, non possono che ferirsi reciprocamente ricominciando la recita, che diventa anche uno “scaricabarile” disperato: “Abbiamo perso la partita” dice Claire. Per loro non c’è che una libertà, quella della morte (“Saremo libere?” la terza didascalia compare, con l’interrogativo).
Vigna e Vecchione si avviano al finale con una intensa cavalcata sul baratro. Se Genet voleva una recitazione “senza calore” le due attrici ritornano nelle parti, gelido vortice da dirty talking dell’odio che ha però la stessa foga e ossessione (come nel sexting virtuale) crescendo di insulti, che sale fino al climax del desiderio di un potere che annichilisce. “Ti stai spingendo troppo oltre!” dice Claire a Solange, la quale, presa dal suo delirio e da psicosi, vorrebbe uccidere la sorella, sua midons, unico modo per liberarsi di un’ossessione che le imprigiona entrambe, non solo al carcere del quotidiano, ma appunto al desiderio. Ma l’unica libertà possibile per chi desidera è restarci imprigionato. Il desiderio vivrà nella morte e (con un casuale, ma non improprio eco kafkiano di una delle ultime battute) “nella colonia penale”
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Le serve è prodotto da CMC/Nidodiragno– Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale – Teatro Stabile di Bolzano.
Dopo aver debuttato all'Arena del Sole di Bologna il 1° febbraio, lo spettacolo intraprende una lunga tournée. Info: https://www.nidodiragno.it/le-serve/
Le fotografie sono di Laila Pozzo.