Oresteia di Terzopoulos

27 Settembre 2024

Un cronotopo teatrale da brivido quello che ha unito tra il 12 luglio e il 20 settembre il teatro di Epidauro in Grecia e il Teatro Olimpico di Vicenza, nel segno di un maestro del teatro contemporaneo come Theodoros Terzopoulos che ha adattato e diretto, per la prima volta nella sua vita, in forma integrale, l’Orestea di Eschilo (nel titolo greco, Ὀρέστεια). Dopo averlo fatto nel suo paese, il regista greco ha riadattato per lo spazio ideato da Palladio quello che appare un approdo di decenni di ricerca, metodo e scavo culturale che ne ha fatto uno dei punti di riferimento per registi e attori nel mondo.
Oresteia ha aperto il 77° Ciclo di Spettacoli Classici, un progetto del Comune di Vicenza al Teatro Olimpico di Vicenza, affidato da quest’anno, con incarico biennale, a Ermanna Montanari e Marco Martinelli (Teatro delle Albe), i quali hanno stilato un programma ricco di interesse su cui torneremo in chiusura. 

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Nel corso della sua carriera Terzopoulos ha alternato il lavoro sui classici con il teatro del 900, ma questa prima volta con l’Orestea integrale a 77 anni (“non mi sentivo pronto finora” ha dichiarato) ha il sapore di un lascito. Una lunga gestazione e oltre sei mesi di prove, in Oresteia (prodotto dal Teatro Nazionale di Grecia) si concentra il metodo portato avanti dal 1985, fondando il Teatro Attis di Atene e basato sull’attore, sul corpo e sulla voce, tra tecniche del respiro e esercizi del “trigono pelvico” che – spiega il regista “crea assi sonori, fisici ed energetici liberando così un linguaggio speciale inscritto nel corpo”. 

L’ultima volta in Italia era stato per Aspettando Godot di Beckett, prodotto da ERT-Teatro Nazionale e Fondazione Teatro di Napoli. Ora il ritorno, tra le architetture palladiane, di uno spettacolo pensato per l’arena di Policleto da diecimila persone. Lo spazio, tuttavia, per Terzopoulos non è solo un contenitore, ma una geometria di passioni, forse qui compresso e sorvegliato da un di più di bellezza rinascimentale, certo per lo spettatore un contrasto suggestivo. Sulla scena, rialzata per l’occasione e ampliata, il regista ha posto un cerchio solcato da diametri e circoscritto da panni insanguinati. Sullo sfondo la città in prospettiva di Vincenzo Scamozzi (che gioco di accostamento: quando fu inaugurato era la rappresentazione di Tebe per l’Edipo re). Qui si muovono i 35 attori, alcune storiche presenze nelle sue regie, molti giovani come i 22 del coro, sempre in scena per tutte e tre le ore dello spettacolo. Scritta in un periodo di forte tensione ad Atene tra i sostenitori dell'oligarchia e quelli della democrazia, l’Orestea si specchia sul nostro presente del XXI secolo, con la crisi delle democrazie insidiate dal populismo (e ora dagli “oligarchi” delle Big Tech come Musk) che premono per sistemi autoritari.

Terzopoulos chiude la sua Oresteia con un graffio di fortissima attualizzazione, ma ci arriva scavando nelle vicende di sangue e assassinii della dinastia degli Atridi. Nell’interpretazione corrente la catena di vendetta tribale si spezza, con la svolta della ragione, della Giustizia dialettica, nel segno di Atena e Apollo e del tribunale dell’Areopago. Terzopoulos, tuttavia, espone un’interpretazione più ambivalente, nel farne una critica al presente, indicando una contraddizione alla radice ellenica della democrazia. Il regista rimette al centro il Coro, perché “la tragedia non è un dramma borghese” afferma in molte interviste. Qui ci appare come scontro di forze e di comunità. Anche i personaggi, a partire dal Corifeo (Tasos Dimas) che si colpisce alla gola e alla testa prima di parlare, hanno torsioni fisiche innaturali, per far fuoriuscire il linguaggio come se la voce affiorasse da un fondo oscuro e “altro”. Ispirati al suo metodo, i movimenti degli attori ne fanno statue che prendono vita, in una tensione muscolare, come piantanti nel terreno, marionette solenni e goffe insieme. Si percepisce da subito l’alterità, quando il Coro entra in fila lenta e serrata, battendo i piedi, ritmo di marcia rituale, fiato espulso con forza. Ognuno ha in mano un coltello, sembrano un bassorilievo in movimento, rimbomba gutturale un canto luttuoso. Tutto elimina psicologie, innesca uno stato di ipnosi tra pubblico e attori. La scena è tutta qui nel cerchio, unica presenza moderna le luci e i contributi sonori, a volte di ronzio di mosche a volte di note fisse. Il Coro è in uno stato di estasi cosciente, da un lato discute delle sorti della casa degli Atridi, dall’altro è attraversato da paure. Vota, esprime opinioni, commenta, ma nella voce, tenuta sul tono del grido (così fanno quasi tutti i personaggi) rivelano una maestosità antinaturalistica e danno subito la connotazione di inquietudine pre-linguistica che resterà sospesa per tutto lo spettacolo.

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Clitennestra (Sophia Hill) in nero, pantaloni e camicia con esagerato volant, si muove (per stare al gioco attualizzante) come una femme fatale, tiranneggia il coro, espone la sua rabbia per il maschio violento che ha ucciso la figlia, ha la prossemica da potere moderno (modello di Ivana Trump o Giorgia Meloni). Hill è straordinaria nel modulare la voce da acuti penetranti a cadenze ctonie, tenendo in tensione il ritmo quasi musicale della traduzione in greco moderno fatta da Eleni Varopoulou. Anche Cassandra (Evelyn Assouad) spicca con le sue modulazioni di lamento e angoscia che richiamano l’oriente. Nello svolgimento drammatico delle prima due parti della trilogia, Terzopoulos affida alle coreografie e posture del Coro la sua interpretazione. Il Coro teme la dismisura della violenza non necessaria, il sangue nella “casa che puzza di cadaveri” – e il tappetto porpora su cui camminerà Agamennone (Savvas Stroumpos) è fatto dei loro corpi. Il Coro appoggia il desiderio di riscatto di Oreste (Kostas Kontogeorgopoulos) e Elettra (Niovi Charalambous) di ristabilire la Giustizia dopo l’assassinio di Agamennone da parte di Clitennestra e Egisto (David Malteze). Il re era accusato di aver sacrificato vite umane, ma per motivi legittimi. E però condannerà il matricidio. Non è un caso – e dunque forse non solo una necessità per uno spettacolo che ha già un numero rilevante di attori – che il Coro, in questo suo manifestarsi tra due opposti, parola e angoscia, comunità dialettica e convulsioni, scosse di energia, a momenti salti come di primati, scivoli nell’incarnare – cambiando il colore della maglia da nero a carne – le Erinni che braccano Oreste come animali feroci. Tutti e due i gruppi (i 22 sono davvero bravi nello scatenare energia, canti, vocalizzazioni) sono l’umanità in contatto con l’umano, col Mito, con Dioniso (il motore immobile della poetica di Terzopoulos), sono la memoria ontologica e corporale di un arcaico certo, ma che ha “leggi più profonde” scrive il regista nelle note. 

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Per questo l’Oresteia di Terzopoulos non si attiene alla lettura della terza parte della trilogia come simbolica di un cortocircuito antropologico, di passaggio evolutivo verso epoche razionali e non barbare. Lo si vede già da Apollo mellifluo e suadente (Nikos Dasis) tutto vestito di bianco, e Atena (Aglaia Pappa). Nell’appoggiare l’assoluzione di Oreste, Atena, vestita pastello, e con movenze sorridenti e morbide, tra von der Leyen e Merkel, fa ragionamenti labirintici, non ha il tono del grido ma parla normalmente: bisogna accettare nuovi dei, nuove leggi, cancellare l’arcaico, il tribunale dell’Areopago converrà a tutti, si distribuiranno ricchezze, dice al popolo, ma non ammette il dissenso. Il vecchio ordine è schiacciato, con le Erinni costrette a mutare in Eumenidi. Al Coro che contesta l’assoluzione (“questo darà vita a una serie di crimini e impunità” insomma i timori di oggi verso il garantismo) risponde ordinando un “contenete la folla” accompagnato da un muro sonoro di spari, mitragliate. È il primo innesto di Terzopoulos attualizzante e politico (memore della sua formazione che da Brecht arrivava al Living Theatre); il secondo arriva al temine, stabilizzato il nuovo ordine democratico, con il Corifeo che esulta: “Welcome in the new World”, dice in inglese, mentre dalle casse arrivano voci di notiziari che evocano l’indice Dow Jones, le crisi, le guerre in Iraq, il conflitto a Gaza. Una coda didascalica, forse superflua, era tutto già chiaro. 

Terzopoulos legge in Eschilo l’inizio di una democrazia mai veramente democratica. Se non guarda da reazionario al passato (ma guarda al Mito) colloca con questa coda la sua Oresteia nelle posizioni “Né-né”, criticando le tirannie e pure le false democrazie, la modernità solo economica, priva di valori (come non pensare alla discussione sull’intervento in Grecia della Troika europea). Il valore, la vera libertà per Terzopoulos è in Dioniso e nel mito.

Uno spettacolo, al di là delle possibili interpretazioni, di indubbia bellezza, che non lascia tranquilli, come deve fare la grande arte, immersi in una potenza carsica da rito. Esordio dunque di primordine per la rassegna vicentina che prosegue con Il Canto di Edipo regia di Alessandro Serra, poi il 5 ottobre sdisOrè, ovvero l’Orestea riscritta da Giovanni Testori, con Evelina Rosselli e regia del Gruppo Uror; l’11 ottobre è la volta del Pluto. God of gold, di Marco Martinelli, un lavoro su Aristofane con 60 adolescenti dell’area metropolitana di Napoli e di Vicenza. Da segnalare Elettra, regia di Serena Sinigaglia, il 15 e 16 ottobre, e un concerto-recital di Giovanni Lindo Ferretti il 18. Tra gli altri, ci sarà il 6 ottobre alla Basilica di Vicenza una performance sonora di Francesco Giomi, poi il Purgatorio dei poeti, laboratorio con 50 cittadini nel segno della versificazione e di Dante, poi ancora incontri e dibattiti sulla critica teatrale “Illusioni perdute?” a cura di Massimo Marino il 28 e 29 settembre. Il 77imo Ciclo dei Classici oltre al Comune di Vicenza, è realizzato con la collaborazione dell’Accademia Olimpica e della Biblioteca civica Bertoliana, di Regione del Veneto, con coordinamento artistico del Centro di Produzione Teatrale La Piccionaia e della Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza.

Le fotografie sono di Daniel Bertacche. 

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