Convivenze armate
“Unreal city/Under the brown fog of a winter noon”: nei versi celeberrimi di T.S. Eliot la Londra devastata del 1922 eredita tutte le città dolenti della modernità novecentesca di terre devastate. Ancora più “irreale”, la città postmoderna di The City, dramma di Martin Crimp, drammaturgo inglese unanimemente considerato l’erede di Pinter e di Beckett, scritto nel 2008 e ora per la prima volta messo in scena in Italia, con la regia di Jacopo Gassmann e una produzione di LaC Lugano, Teatro Stabile del Veneto, Teatro dell’Elfo, ERT/Teatro Nazionale, TPE-Teatro Piemonte Europa. Tradotto da Alessandra Serra, il titolo resta nell’originale inglese The City anche per l’evocazione della cittadella economica inglese, vista la rilevanza che ha qui la vicenda economica globale del 2007, e perché rispecchia una condizione comune dell’occidente esausto.
I suoi personaggi vivono in una grande città, dentro la loro capsula spaziale, una casa con giardino in cui si consuma una guerra di coppia strisciante tra Chris, un quadro intermedio in una grande azienda alle prese con una ristrutturazione e sull’orlo di perdere il lavoro (un efficace Christian La Rosa, che lo connota anche nella postura, come un tipico “uomo flessibile” della società contemporanea, descritto dall’omonimo libro di Richard Sennett sulla crisi della classe media colpita dalla disoccupazione, citato esplicitamente dall’autore nelle note) e sua moglie Clair, una bravissima Lucrezia Guidone, appartenente alla bolla intellettuale, disinvolta, quasi rampante traduttrice, che scoprirà però il suo lato oscuro e la sua frustrazione per aver rinunciato a scrivere romanzi. Clair lascia che “gli autori portino la loro vita nella mia” dice (anche qui il rimando esplicito di Crimp è a Il pomeriggio di uno scrittore di Peter Handke, in cui è protagonista un traduttore). I due hanno due bambini (vedremo solo la maggiore, alla fine, interpretata dalla giovanissima Lea Lucioli). In superficie è una dinamica da interno borghese.
Chris è pavido, incerto, impaurito. Clair apre un’ulteriore crepa nella coppia, raccontando di aver conosciuto per caso alla stazione Mohamed, scrittore noto, torturato nel suo paese. L’uomo doveva partire, lasciando la figlia alla cognata. Entrato in un negozio per comprarle un diario, le aveva perse di vista. Mohamed continua a raccontare la sua vita e alla fine le lascia il diario, un indizio chiave della pièce. L’abilità di Crimp è di portare dentro le apparenti small talk della normalità una serie di dettagli (ad esempio la figlia di Mohamed vestita con jeans rosa o la consegna del diario) che poi diventano lampi metonimici ricorrenti, una costellazione di indizi minacciosi, simboli irrelati o ammiccanti, che creano inquietudine in un’atmosfera sospesa che sembra sempre sul punto di esplodere. È come se The City fosse il romanzo incompiuto delle nostre vite incompiute, in cui Crimp eredita da Beckett una quota nonsense, dialoghi spezzati, apparentemente slegati. Niente si scioglie in tragedia, ma proprio per questo fa del dramma un dispositivo tagliente, abrasivo. Ne è ancora più evidente il terzo personaggio, Jenny, vicina di casa infermiera, interpretata da Olga Rossi, che dà la giusta energia graffiante, al limite del burnout. Jenny si presenta a casa della coppia per lamentarsi delle urla dei bambini e poi si lancia nel racconto della sua vita stressata, del marito medico in guerra, descrivendo la città, di cui non fa il nome per ragioni “di sicurezza”, facendone così allegoria di ogni “città polverizzata” sotto i nostri occhi, oggi come anche ieri. È in questa città che “i nostri ragazzi” devono entrare per uccidere “quelli ancora aggrappati alla vita”. Ma non meno attaccati a una vita precaria stiamo noi, fragilissimi dentro le nostre guerre psicologiche, sia private che lavorative. Ogni personaggio è conficcato nella propria solitudine: la spia, nei dialoghi, le continue spezzature del ritmo date da “mmm?” o “eh?”, interiezioni interrogative che chiedono di ripetere quel che è appena stato detto. The City appare così una compatta e riuscita orchestrazione registica, tenuta assieme da Gassmann a cui va il merito di aver pescato questo testo inedito, davvero ben scritto. Oltre al modo in cui ha diretto gli attori, il pregio è nei dettagli di tutta la messa in scena. Lo spettacolo ha una modulazione dell’angoscia quasi musicale, in una dissonanza avvertita ma non esplosa. Il contrario dell’espressionismo: tutto sta nella disseminazione di inciampi e squarci dentro una dimensione geometrica. Prima di tutto tra parola e pausa, nei giochi dei silenzi e fratture della modulazione dei toni di recitazione. Una compattezza che è anche negli altri elementi dell’impianto scenico, che nel testo gioca un ruolo importante visto che l’autore spiazza con didascalie paradossali, tipo quella che segue la battuta di Jenny “sono qui, nel vostro giardino… sul vostro prato* (*N.d.A. non c’è nessun prato)”.
Per questo lo spazio della scena ideato da Gregorio Zurla interpreta con intelligenza la sospensione, creando un grande spazio vuoto e neutro, cornici rettangolari, una dentro l’altra, in prospettiva, connotazione sia di casa chic che di “scatole cinesi” tipica struttura societaria, con una dominante di bianco e nero che poi vira verso sfumature di luci (di Gianni Staropoli) in cui i corpi stanno immersi, come se lo spazio emanasse una luminosità, quasi artificiale, con effetti di variazione (domina spesso un verde ospedaliero). Nello spazio pochi elementi, un tavolo, due sedie o due poltrone. I personaggi hanno movimenti (curati da Sarah Silvangi) che esaltano questo vuoto, lavorano sulla distanza e paradossalmente si ha sempre l’impressione che inciampino, così come inciampano nei loro tic verbali, nelle frasi a metà, nei cambi di discorso. Una grande stanza di laboratorio, in cui i quattro personaggi stanno sotto gli occhi dello spettatore come creature rimpicciolite, agitate, scomposte, elettrizzate da nevrosi. Qua e là viene alla mente la pittura di David Hockney. Una sospensione fluida e scheggiata insieme, a cui contribuisce anche il bellissimo disegno sonoro elaborato da Zeno Gabaglio che attinge anche a composizioni elettroniche di Alva Noto e Ryuichi Sakamoto, anch’esse in equilibrio sospeso tra armonia e strappi noise. Tutto contribuisce al senso generale del testo di Crimp, che ci porta infatti dentro la geometria di uno sgretolamento sia individuale che generale, che attraversa questi primi decenni del XXI secolo. Una pace occidentale che mostra il suo volto sempre più crudele, dentro un’apparente perfezione dei meccanismi della vita quotidiana dentro centri urbani smart, circondata da nugoli di guerre reali. Chi vive nelle nostre città sta a suo modo come le vittime della città polverizzata dove opera il marito di Jenny, dove anche le vittime uccidono senza pietà così disperatamente “attaccati alla vita” (una battuta che ricorre più volte in The City). Le guerre, la macchina mondiale delle aziende, il declino etico, sono elementi della poetica di Crimp, esaltati in questo testo scritto sulla scia di una crisi globale che ancora dura. La partita tra i tre personaggi si gioca, con colpi ad effetto non del tutto rivelati, scena dopo scena, creando un progressivo laceramento. Chris perde il lavoro, si dovrà adattare in una salumeria, Clair partita speranzosa per un convegno a Lisbona con Mohamed ne scopre il volto crudele di chi gode della tragedia, anche privata, perché se ne servirà per scrivere. Come per la tragedia, l’incompiutezza è anche dello svelamento, tra realismo e dimensione onirica, specie per i risvolti più neri, come nella scena in cui compare la figlia e non si capisce se sia effettivamente lei o la proiezione di desideri anche terribili di un padre e marito frustrato. Gli indizi emergono quasi casualmente dalle conversazioni, come quando la figlia chiede al padre di punire il fratello perché è cattivo, o quando l’autore, con dettagli lasciati cadere qua e là, lascia intendere ombre di abusi o di morbosità sessuale verso Jenny. Crimp usa una ragnatela di sospetti che restano sospesi, catturando la nostra attenzione, invischiandoci in essa.
Gassmann asseconda questa disseminazione tenendo tutti gli elementi in equilibrio e alta la tensione drammatica per un’ora e mezza. Alla fine si ammutolisce, ma il groppo emotivo non si scioglie. Niente tragedia, resta tutto il disagio, una risonanza, un ronzio della mente in cui si forma la consapevolezza che quel microcosmo familiare sia come ciascuno di noi la particella di un’epoca di stravolgimento. La tensione nel loro rapporto privato è una conseguenza di un ordine sociale in cui il potere di un sistema globale che ci sfugge ha poi risvolti devastanti sui singoli. Con una violenza senza sangue della disumanità, algida in narcisismi non comunicanti, in algoritmi economici e board di mega aziende lontani migliaia di chilometri, devastante anche nei corpi. Noi nella nostra trincea, a differenza di Ungaretti che nella veglia del 1916, insieme a cadaveri dilaniati si sentiva “attaccato alla vita” e nella guerra “scriveva lettere d’amore”, restiamo attaccati alla vita al massimo come corpi in una stanza verdolina della rianimazione. La ferocia è ovunque, tv, social, libri, specchio insanguinato in cui si riflettono figure ben vestite, “Perché la speranza ci rende così tristi” si chiedeva Mohamed durante il primo incontro con Clair, parlando della guerra, che nessuno riesce a fermare. Lo stesso accade a questi personaggi, condannati in qualche modo a convivenze armate, ad essere singolarità confinanti ma nemiche, ad essere come dei personaggi di una storia che non riusciamo a scrivere, senza un destino o finale, interrotto come lo Schubert finale, vita sospesa e in dissolvenza in quella che proprio Peter Handke riassunse con un titolo folgorante di un suo romanzo: l’infelicità senza desideri.
Prossimamente lo spettacolo sarà all’Arena del Sole di Bologna (fino al 17 marzo), al Teatro Astra di Torino (dal 19 al 21 marzo), al Morlacchi di Perugia (23 e 24 marzo), all’Elfo Puccini di Milano (dal 2 al 7 aprile).
Le fotografie sono di Luca Del Pia.