Cannes. Parte 3 / L'anno nero di Cannes

29 Maggio 2017

Che l’edizione di quest’anno del Festival di Cannes non sarebbe stata come quella, francamente eccezionale, dell’anno scorso c’era da aspettarselo: non capita tutti gli anni di avere autori come Cristian Mungiu, Olivier Assayas, Jim Jarmusch, Nicolas Winding Refn, Asghar Farhadi, Xavier Dolan, Paul Verhoeven (e poi Kleber Mendonça Filho, i Dardenne, Pedro Almodóvar etc.) con i film pronti in questi mesi dell’anno, e riuscire magari a fare pure delle scoperte, com’è stato con Toni Erdmann di Maren Ade l’anno scorso, come l’anno prima fu con Son of Saul di László Nemes. Non capita tutti gli anni di avere film che da soli definiscono un festival, come fu per La Vie d'Adèle nel 2013, Holy Motors nel 2012 o Tree of Life nel 2011. Il cinema a volte ha semplicemente delle annate meno fortunate, e questa poteva benissimo essere una di queste. Già dopo la conferenza stampa dello scorso 13 Aprile in cui erano stati annunciati per la prima volta i film della selezione di quest’anno si era capito come ancora una volta i grandi autori americani avrebbero snobbato i festival europei (quest’estate usciranno Kathryn Bigelow, Steven Soderbergh, forse pure Paul Thomas Anderson e nessuno di questi è passato per Cannes e verosimilmente non andranno nemmeno a Venezia) ma che anche grandi registi europei che hanno l’abitudine di essere a Cannes in concorso, come Abdellatif Kechiche o Nuri Bilge Ceylan che sono in post-produzione con i loro prossimi film, non ci sarebbero stati.

 

 

Eppure – ci si diceva – Cannes è too big to fail: la quantità di film è tale così come la centralità della manifestazione all’interno del calendario dei festival cinematografici, che un significativo numero di film importanti è inevitabile che passi di qui. Che questo invece sarebbe stato un vero e proprio annus horribilis – perché l’edizione di quest’anno questo è stata – nessuno se lo aspettava davvero. Lo si era iniziato a intuire dopo i primi giorni, quando iniziavano a passare i primi film di un irriconoscibile concorso: un’opera – comunque la si possa pensare – minore di Todd Haynes come Wonderstruck; un pessimo film dell’ungherese Mandruczó che in annate migliori non sarebbe finito nemmeno in Un Certain Regard – la “seconda” sezione ufficiale del festival –; un cinico e informe film dello svedese Ruben Östlund, che sembrava non fosse nemmeno stato finito di montare e che incomprensibilmente, in un anno tanto strano, è riuscito persino a portarsi a casa la Palma d’Oro. Ma forse niente ha definito simbolicamente l’atmosfera del festival di quest’anno come Le Redoutable di Michel Hazanavicius, la cui presenza in concorso dice molto del nuovo corso del Festival a guida Thierry Fremaux-Pierre Lescure (si veda a questo riguardo la prima puntata dello speciale). Il regista francese che fu già premio Oscar con The Artist ha provato a fare con la Nouvelle Vague la stessa operazione che fece con il suo omaggio al cinema muto nel 2011: raccontare Jean-Luc Godard utilizzando gli stilemi formali del godardismo, dagli inserti testuali nell’immagine agli sguardi in camera; dall’uso dell’aforisma e della frase a effetto alla divisione in capitoli del film. L’operazione, a un tempo ideologica ed estetica, è particolarmente interessante proprio perché insidiosa. Dietro a un apparente omaggio a Godard vi è in realtà l’obiettivo di compiere in forma cinematografica quello che la destra francese sta tentando di fare da cinquant’anni a questa parte: farla finita con l’utopia politica sessantottina. E ovviamente il modo migliore per farlo non è attaccare frontalmente il Sessantotto, ma ridurlo a fenomeno di costume, depotenziarne gli assunti politici e tradurli in semplici enunciati sulla forma in modo che di Godard emerga solo la provocazione modernista, del tutto compatibile con l’atmosfera post-ideologica, ironica e distanziante che caratterizza da sempre la medietà cinematografica di Hazanavicious.

 

 

Ma Le Redoutable ha anche un altro obiettivo, che rappresenta da sempre la quintessenza di ogni controrivoluzione conservatrice: svelare la cattiva coscienza e l’ipocrisia di chi è stato protagonista di un atto di rottura rivoluzionaria. Godard viene allora rappresentato come un misogino narcisista, preoccupato solo dei suoi riconoscimenti, profondamente snob e incapace di confrontarsi con degli operai nonostante si riempisse sempre la bocca di loro. Il problema non sta tanto nello stabilire se Godard fosse effettivamente o meno così (quello che ci è noto della sua biografia è tutt’altro che idilliaco) ma di non scendere nemmeno su questo terreno. Quello che di innovativo c’è stato del suo cinema sta tutto nelle sue innovazioni stilistiche e formali, non certo nelle motivazioni personali che l’hanno mosso. Bisognerebbe giudicare i film a partire dalle immagini insomma, non dalle idiosincrasie caratteriali degli artisti che li hanno creati. Le Redoutable in questo senso fa un’operazione consapevolmente mistificatrice: si riappropria degli stilemi formali godiardiani ridotti a formalismi postmoderni senza spessore e li accompagna a un’aneddotica caricaturale quasi diffamatoria (ma sempre col sorriso sulle labbra) come a voler separare i primi dal secondo. Il risultato è un film pronto a decantare il genio innovatore del Godard che ha fatto À bout de souffle, Le Mépris e Pierrot le fou a cui viene opposto quello cattivamente ideologico e vagamente paranoico e misantropo de La Chinoise e Vent d’est. La differenza tra i due è solo una, ed è ciò che c’è di più insopportabile per uno come Hazanavicious: cioè il marxismo.

 

 

Mettere in concorso un film del genere ha avuto un po’ il sapore di una resa dei conti del festival con una stagione militante del cinema francese ormai sempre più dissonante nei confronti della Cannes targata Canal+ degli ultimi anni e che al limite può trovare uno spazio limitato solo alla Quinzaine, la sezione “alternativa” al programma ufficiale nata proprio nel 1968. Pare insomma che l’“estremismo centrista” che piace al neo-presidente della Repubblica abbia contagiato anche il più importante festival cinematografico francese, ormai sempre più esplicitamente corporate-oriented. Persino il verdetto della giuria di ieri sera dice qualcosa di questo cambiamento di identità del Festival. È infatti quantomeno paradossale che vengano distribuiti premi in abbondanza a un cinema americano la cui presenza festivaliera in termini di quantità e qualità è ormai ai minimi storici: non solo un pur grandissimo Joaquin Phoenix premiato come migliore attore per il modesto You Were Never Really Here di Lynne Ramsay e il premio alla regia a Sofia Coppola per The Beguiled, ma è stato persino inventato un premio del Settantesimo anniversario per riuscire a dare un riconoscimento a Nicole Kidman per il film di Lanthimos.

 

L’impressione quest’anno è stata proprio quella di vedere un lento ma inesorabile crollo (come si vede all’inizio di Happy End di Michael Haneke, anch’egli incomprensibilmente ignorato dal verdetto di ieri sera) della più importante istituzione festivaliera europea. Se ne sono accorti un po’ tutti i giornalisti presenti sulla Croisette che, innervositi anche da una politica degli accrediti sempre più discriminatoria e iniqua (che costringe diversi giornalisti a interminabili ore di coda senza nemmeno riuscire a entrare alle proiezioni) e aggravata da dei controlli sulla sicurezza che parevano più bizantini che autenticamente efficaci, hanno apertamente criticato il festival.

 

 

Eppure anche in un anno così sfortunato si è riusciti comunque durante questi 12 giorni a vedere alcuni grandi film di cui è bene fare brevemente cenno sperando in una loro distribuzione italiana. Il primo è l’incredibile adattamento di un testo di Charles Péguy da parte di Burno Dumont passato alla Quinzaine e in assoluto una delle cose più interessante viste in questi giorni a Cannes. Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc mette insieme due testi teatrali, Jeanne d’Arc scritto da Péguy nel 1897 quando ancora era socialista, e un mystère (un genere teatrale nato nel medioevo basato su soggetti intrisi di reale e sovrannaturale tratti sopratutto dalla Bibbia), intitolato Le Mystère de la charité de Jeanne d'Arc, scritto invece più tardi (1910), quando il poeta francese si era già convertito al cristianesimo. La mossa stupefacente di Dumont è però quella di fare dei versi di Charles Péguy un vero e proprio musical, oltretutto affidandosi a una partitura tanto insolita quanto può essere quella folk-elettronica (ma con più di un incursione death metal) del musicista Igorrr. Quello che ne esce fuori è un oggetto filmico davvero poco identificabile, che racconta di Giovanna d’Arco non tanto la storia del suo martirio ma la sua infanzia e la sua giovinezza (il film di Dumont finisce là dove iniziano quelli di Dreyer e Bresson).

 

 

Ambientato non in Lorena, come la storia prevederebbe, ma nelle zone vicino a Calais e Boulogne-sur-mer e girato unicamente con attori non professionisti, Dumont prende “alla lettera” i testi di Péguy, senza alcuna distanza ironica, riuscendo come già aveva fatto in P’tit Quinquin e Ma Loute a usare il registro grottesco come dispositivo di disidentificazione rispetto al reale. I suoi film riescono così a sospendere ogni forma di verosimiglianza non tanto per andare verso il fantastico quanto per rendere più astratte e minimali le proprie storie. Il risultato è che Giovanna d’Arco, interpretata prima da bambina di 8 anni e poi da un’adolescente di 13, è protagonista di un romanzo di formazione all’esperienza mistica, intesa come un’esperienza di rottura dalla propria appartenenza a questo mondo. La mistica non è una figura irenica e pacificante, non è portatrice della buona novella di pace, anzi è colei che separa il mondo da se stesso, rompendo le false unità e ogni sentimento di adattamento e di quietismo. Dumont è ormai da tempo che ha abbandonato il cinismo e il pessimismo dei suoi primi film e sebbene questo film strappi più di qualche risata va preso in modo assolutamente serio. Girato completamente in presa diretta (come ha detto Dumont in un’intervista “a quanto ne so soltanto Jean-Marie Straub e Danièle Huillet avevano fatto qualcosa di simile con Moses und Aron di Schönberg”), Jeanette è un film trascinante ed efficace, inattuale e pop, ma che soprattutto riesce a non somigliare a nient’altro che a se stesso.

 

Il secondo film invece è 24 Frames, opera postuma di Abbas Kiarostami alla quale il regista iraniano aveva lavorato negli ultimi anni della sua vita e che è stata presentata per la prima volta fuori concorso a Cannes. Il punto di partenza di questo lavoro è uno spunto teorico di straordinario interesse: qual è il flusso di reale di cui un quadro è sezione? Che cosa succede quando ritagliamo un fotogramma dal flusso infinito del divenire del reale? È una domanda capitale per provare ad articolare un pensiero del cinema, perché comprendere il rapporto tra l’immagine e il divenire vuol dire affrontare il problema dei presupposti filosofici di fondo dell’immagine in movimento. E il modo con cui questi si relazionano a una filosofia generale o a un’idea di reale.

 

 

Kiarostami in questo film parte da 24 immagini fisse – di cui la prima è i Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel e l’ultima è l’immagine di una donna addormentata su un tavolo mentre un computer mostra la scena di un bacio di un vecchio film di Hollywood – che vengono poi letteralmente animate attraverso l’uso del chroma key e della computer graphic per provare a immaginare quale sarebbe stato il flusso di reale che queste 24 immagini fisse hanno interrotto. Di mezzo ci sono molte immagini di paesaggi naturali, tante sotto la neve, spesso con cervi, capre, uccelli, anatre. Eppure non è la contemplazione della natura che interessa necessariamente Kiarostami perché vediamo anche un gruppo di persone che guardano la Torre Eiffel, un angolo di strada di una città dove passano delle macchine, una finestra di una casa.

È nota la passione che Kiarostami ha sempre avuto sia per la pittura sia per l’immagine fotografica fissa, cioè non cinematografica e non in movimento. E tuttavia questo lavoro ci interroga soprattutto riguardo alla scelta formale di fondo: perché Kiarostami ha deciso di animare delle immagini fisse provando a immaginarsi il flusso di reale che stava prima e dopo di esse, e non ha invece usato una macchina da presa? Perché il flusso di divenire di cui un’immagine è sezione deve essere “ricostruito” artificialmente tramite un computer e non può essere invece semplicemente ripreso da uno dei mille dispositivi digitali con i quali è possibile produrre delle immagini video?

 

 

Forse perché il reale che i dispositivi cinematografici riprendono non può essere fino in fondo preso. Forse perché il reale del divenire è di un’altra natura e riguarda più la creazione della contemplazione. È qui che Kiarostami sembra proporci con questo film una vera e propria idea di divenire. Deleuze pensa che l’immagine cinematografica sia un intervento che può riattivare la potenza di un divenire che sta al di là del passivo e dell’attivo in un mondo dove normalmente vige solo la norma della rappresentazione empirica; Godard nelle Histoire(s) du cinéma pensa invece che l’immagine cinematografica che normalmente viene usata per illustrare una narrazione custodisca in sé la possibilità di essere ri-significata, proprio perché il suo divenire è una potenzialità infinita (e quindi è possibile ricostruire una storia del cinema delle virtualità inespresse).

 

Kiarostami in questo film sembra invece prediligere un’altra strada: il divenire che sta al di là e al di qua dell’immagine non deve essere colto in modo passivo o contemplativo, ma deve essere “costruito”. Il divenire insomma non lo si registra con la macchina da presa semmai lo si formalizza, ed esempio utilizzando la computer graphic. Il regista più che essere deleuziano e rifarsi alla potenzialità passiva della macchina da presa deve diventare un pittore, e usare una tavolozza che comprende anche l’utilizzo della tecnologia e dell’animazione. Kiarostami ci consegna così un testamento platonico sul cinema, che tuttavia non ci deve sorprendere. Tutto è stato il regista iraniano tranne che un contemplativo: com’è noto la celebre strada a zig-zag che ricorre in Dov'è la casa del mio amico?, in E la vita continua, e in Sotto gli ulivi non esisteva in natura, ma era stata letteralmente scavata nella montagna dalla troupe dei suoi film. Il cinema non taglia una porzione nel flusso della vita e del divenire, semmai ci aiuta a formalizzarla e a dipingerla meglio.

 

(terza e ultima puntata. Le prime due puntate si trovano qui e qui.)

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