L’atomo melanconico: psicoanalisi della guerra
Avvistamenti di oggetti volanti non identificati, palloni aerostatici lanciati per hobby scambiati per palloni spia: come nelle scene di Il dottor Stranamore (1964) nelle cancellerie i telefoni squillano a vuoto e tutti ripetono “la pace è la nostra professione”. Intanto alacremente procede il perfezionamento della macchina dell’apocalisse: jet russi e droni americani, missili e bombardieri attraversano i cieli e risvegliano l’incubo atomico.
Vengono in mente Rita e Manfred, allontanati dalla costruzione del Muro di Berlino, le cui vicende sono raccontate da Christa Wolf in Il cielo diviso (1963): “Un tempo, le coppie d’amanti prima di separarsi cercavano una stella, su cui i loro sguardi la sera potessero incontrarsi. Che cosa dobbiamo cercare noi? “Il cielo almeno non possono dividerlo” disse Manfred beffardo. Il cielo? Tutta questa cupola di speranza e di anelito, di amore e di tristezza? “Sì, invece” disse lei piano. “Il cielo è sempre il primo ad essere diviso””.
La turbolenza della situazione internazionale richiama le atmosfere della guerra fredda degli anni Sessanta, la sensazione di paura e di impotenza che all’epoca aveva prodotto riflessioni teoriche e manifestazioni politiche, iniziative e raggruppamenti davanti a un pericolo per l’umanità intera. È del 1966 un testo denso, per nulla semplice, eppure molto discusso e molto letto come Psicoanalisi della guerra di Franco Fornari, ora finalmente ristampato (con una prefazione di Massimo Recalcati, Feltrinelli 2023). Franco Fornari, presidente della Società Italiana di Psicoanalisi, un pacifista impegnato e attivo, diventa membro del Comitato Mondiale di ricerca sulla pace e contribuisce alla nascita di un movimento di educazione alla pace che porta alla fondazione del Gruppo Anti-H e dell’Istituto Italiano di Polemologia (cfr. Guerre contro il futuro: Franco Fornari in dopppiozero).
Con questo saggio, afferma Recalcati, “lo psicoanalista esce dal suo ‘splendido isolamento’, abbandona l’uso strettamente clinico della sua concettualizzazione impegnandosi a comprendere uno dei fenomeni più perturbanti della nostra vita collettiva (…). È un movimento di apertura della psicoanalisi al sociale che implica l’idea che la vita psichica sia costitutivamente una vita plurale”.
Riletto oggi, nel contesto di una nuova incomunicabilità nelle relazioni tra i Grandi, appare di un’attualità inquietante, anche nella parte di riflessione politica e culturale. La proposta di un’istituzione Omega, con la necessità del ritorno della sovranità dello stato ai singoli individui, sposta l’accento sull’interiorità di ognuno: “Mentre ogni rivoluzione del passato ha sempre potuto beneficiare del fatto di potersi costituire in una modalità paranoicale all’interno del gruppo, nel senso di trovare un nemico da battere (…), la rivoluzione che ora si presenta come necessaria sembra dover essere essenzialmente una rivoluzione depressiva, che implica da parte di ogni uomo il sentirsi colpevole e responsabile della guerra, intesa come paranoia dei gruppi”.
Consapevole della dimensione utopica della sua prospettiva, che, dice, richiede una quantità enorme di ulteriori ricerche per poter assumere una forma realistica, Fornari individua ne Il principe di Homburg la figura capace di rappresentare il conflitto tra legge esterna e legge interiore. Il protagonista del dramma di Kleist deve scegliere tra la sottomissione al re e la trasgressione della legge marziale. Disubbidendo, porta il suo esercito alla vittoria, e capisce la differenza tra la legge militare e dello stato e la posizione etica dell’individualità. E con il suo esempio Fornari conclude anche le riflessioni di Psicoanalisi della guerra atomica (1964), un altro testo che sarebbe opportuno ristampare.
“Tra le istituzioni sociali, scrive Fornari, la guerra è forse la più antica e appare persino la più vigorosa (…). Eppure una cosa sembra certa: la sua funzione di risolvere angosce psicotiche la guerra può esercitarla attraverso il semplice ritrovamento di una certa funzione rituale originaria che nella nostra cultura non ritengo possa venire ripristinata. In ogni caso ciò che voglio affermare è che le funzioni antiangoscia del fenomeno guerra non sono affatto direttamente proporzionali alla sua intensità distruttiva”.
Al contrario: la distruttività assoluta della bomba atomica produce la crisi della guerra e la speranza di una nuova antropologia dove diventa possibile la responsabilizzazione nel rapporto con il nostro inconscio dove “la guerra è endemica. Ognuno porta al di dentro di sé uccisioni silenziose e nascoste”. E “il fatto che ogni uomo, mentre dorme, possa sentirsi minacciato da una distruzione imminente – situazione che l’incubo ha in comune con l’attacco di angoscia allo stato di veglia – può essere considerato come il nucleo emotivo di una paranoia originaria”. Per Fornari si arriva al paradosso di dover “trovare un nemico reale” per difenderci e metterci in sicurezza “di fronte a terribili entità fantasmatiche, senza carne né ossa, ma che hanno una pericolosità assoluta (…) e che potremmo chiamare ‘il Terrificante’”. L’aggressore esterno non ci lascia soli in balia dei nemici interni. Ma con la guerra atomica il “carattere assoluto del pericolo illusorio interno, contrapposto al carattere relativo del pericolo reale esterno, tende a diventare impossibile. (…) pare cioè che non possiamo più curare la nostra pazzia con la guerra”.
“La prospettiva pantoclastica della guerra atomica – scrive Recalcati – non consente più di estroflettere il Terrificante Interno perché lo diffonde ovunque. Questo significa, in altri termini, che nella condizione atomica della guerra non è più possibile distinguere tra oggetto d’amore perduto e oggetto d’odio perché nel caso di una attivazione del conflitto entrambi gli oggetti sarebbero fatalmente convolti nella loro reciproca distruzione”.
Ma proprio la coincidenza tra Terrificante Illusorio e Terrificante Reale autorizza, per Fornari, l’indagine psicoanalitica e la necessità di approfondire il rapporto tra mondo interno (sogni, fantasie, proiezioni) e mondo esterno. Con la consapevolezza di quanto possa essere difficile la connessione tra la dimensione collettiva, storica e sociologica, e quella dell’esperienza del soggetto. L’esempio della Germania umiliata dalle potenze vincitrici dopo la prima guerra mondiale che trova nel socialdemocratico, nello straniero e nell’ebreo il nemico sul quale indirizzare la violenza paranoica e riscattare l’onore nazionale, conferma il rapporto tra la guerra e la mancata elaborazione di un lutto (cfr. la narrazione, davvero originale, della giornalista franco-tedesca Géraldine Schwarz, I senza memoria. Storia di una famiglia, Einaudi 2019, che riesce a legare vissuti a contesti storici di un arco temporale che inizia con la prima guerra mondiale e arriva ai populismi di oggi).
Fornari mette a confronto la crisi dell’estraneo del bambino all’ottavo mese, che può essere considerata come l’emergenza originaria dell’altro come nemico, con la difficoltà di elaborare la perdita, per i popoli primitivi, di un membro della tribù. Se muore il figlio del re, la colpa è dell’altra tribù.
La difficoltà di accettare la morte, di simboleggiare il lutto, come accade per l’assenza progressiva della madre, può far proiettare sull’estraneo l’immagine paranoica di una presenza persecutoria. Quello che viene minacciato o distrutto è un nostro oggetto d’amore. Si va in guerra per amore, non per odio. “Sarebbe questa la ragione per cui la guerra si costituisce come un dovere, cioè come un valore fondamentale per gli uomini”.
Fornari riparte dalle Considerazioni attuali sulla vita e sulla morte, (1915) di Freud, ma il suo pensiero e il suo linguaggio sono segnati dalla temperie degli anni Sessanta e Settanta quando il personale è politico e la libertà del singolo si immaginava corresse parallela alla liberazione dei popoli. Fornari si accorge delle aporie dei movimenti politici e delle semplificazioni ideologiche della fase post-coloniale, tuttavia la sua sensibilità è vicina a chi, in quell’epoca, sperava di poter cambiare il mondo.
Nel quadro Idillio Atomico e Uranico melanconico (1945) Salvator Dalí, segnato dall’esplosione della bomba atomica, dipinge in nero, con pochi scorci di azzurro, il senso di catastrofe, di fine del mondo: un viso è segnato dalla sagoma di un aereo, in basso a sinistra il volto di un altro uomo sembra urlare: “Che cosa abbiamo creato?”.