Storia d’Italia attraverso i sentimenti / Le paure di Napoli

14 Ottobre 2020

Questa “Storia d’Italia attraverso i sentimenti” non è una Storia d’Italia, o non lo è nella sua forma più corrente: non segue la linea degli avvenimenti che hanno segnato il nostro paese, raccoglie invece i resti, le briciole rimaste sulla tavola: il vapore caldo dei sogni, l’alito acre dei fallimenti, i battiti ardenti delle speranze, gli sferzanti colpi delle pene, e tutti i suoni provocati dalla vita che passa, come un tremolio di vetri durante un temporale.

Sono Storia le paure che nelle nostre vite si sono andate accumulando, i gesti di coraggio di cui occasionalmente siamo stati capaci, e le irruzioni di felicità, per quanto labili, o gli schianti di rabbia. Sono Storia il baratro dell’ansia, il morso dell’attesa, i lampi dello stupore, le improvvise scosse d’energia e il loro immediato rovescio: la colla appiccicosa dell’inerzia. È Storia l’accozzaglia dei nostri istanti irrequieti, e ogni cosa vissuta o immaginata; sono Storia tutte le nostre storie, e tutti i sentimenti che le hanno attraversate.

Per molti anni mi sono portato appresso queste storie come un bagaglio ingombrante, che talvolta mi è parso una rete nella quale ero rimasto impigliato. Ora mi capita di pensare che l’intera mia vita, e il suo flusso discorde, il suo rumore confuso, confluiscano qui in questo affollato crocevia di altre vite.

 

Un giorno obliquo il 19 settembre del 1943. Di sghembi presentimenti. Mentre l’occupazione tedesca schiaccia ancora la città, il sangue di san Gennaro indugia nell’acido lattiginoso dell’indolenza. Si guarda in giro, e non gli piace quello che vede. Nel giorno che ne ricorda il martirio, pare chiuso in se stesso. Perplesso, e perentoriamente solido. Adagiato sul ventre dell’ampolla, tergiversa, ma a muso duro, a denti stretti. Inutile agitare il sacro contenitore: nessun segreto fremito scuote la crosta del sangue. Spessa e scura, sembra orgogliosa della sua caparbia immobilità.

Di fronte ai soldati del Reich, poco avvezzi ai travagli emotivi dei santi italiani, il sangue rappreso non si liquefa, non ci pensa proprio. Si rifiuta di collaborare. 

La massa sfrangiata delle preghiere che, in ordine sparso, salgono dalla piazza, un impasto di suppliche, ingiunzioni, strascinate litanie, lo incalzano, ma il bimbo capriccioso fa muro, s’impunta. Niente da fare: Gennaro ha i suoi umori, indecifrabili fumi celesti, esalazioni del suo santo e intangibile arbitrio. 

Tra i fedeli che affollano il sagrato del Duomo rumoreggiando, c’è più che delusione o disappunto, c’è scoramento. E, subdola, una paura viscida s’infila nei cuori, li insidia. 

I napoletani conoscono bene il sentimento della paura, e il suo odore oleoso, denso. Hanno assaporato il suo veleno nel lungo arco degli anni di guerra, sotto i 181 bombardamenti del 1943, che hanno lacerato la notte e il giorno della città. Nei labirinti del sottosuolo, dove ha cercato rifugio, il popolo di Napoli è vissuto di sussulti, si è nutrito di scosse.

La paura del 19 settembre 1943 ha un taglio diverso, come se si fosse spalancato uno squarcio nella porzione di cielo che avrebbe dovuto proteggere la città, e ora l’intera città non è che una casa scoperchiata dal precario equilibrio, come tante lungo la linea del suo litorale, le mura sbrecciate, in bilico sul vuoto. 

Come le sue case, il cielo di Napoli è andato in rovina. Sfinito, arreso. 

 

Dal gruppo delle “parenti” spazientite le nenie d’incoraggiamento lasciano il passo agli insulti: “Guappone scetate!”. Il pressante invito, dal tono sguaiato, ma confidenziale, spezza il pio mormorio, ed è l’ultima carta in mano ai devoti del santo. 

Gennaro non cede: la crosta del sangue resta imbronciata. Neppure lo ha sfiorato il nodo che, come un cappio d’ansia, stringe il canto della novena, lamento e invocazione della popolazione estenuata: 

“San Gennaro mio fai tu, che io non ne posso proprio più”.

Con una tetra liturgia di gesti avviliti, l’ampolla viene dunque riposta, e Napoli prova a vivere senza miracolo. Allo scoperto. In quotidiano azzardo. S’infradicia nel gorgoglio delle strade, imputridisce nel budello dei vicoli. 

 

 

Anche i santi, non solo gli uomini, possono disertare. Alla pari degli uomini, i santi non hanno l’animo saldo, e alla pari degli uomini si adattano a vivere ciondolando nel saliscendi dell’instabilità. Niente di certo neppure per loro. Barcollano come ubriachi nel tumulto dello stordimento, tra slanci e cadute, vette, precipizi, esaltazione e annientamento, sbattuti da blocchi di desideri in collisione, tensioni divergenti che cozzano l’una contro l’altra con un frastuono furibondo. 

Come gli uomini, i santi possono deludere. 

Il 19 settembre del 1943, a ricordo del suo martirio, “Guappone”, forte della sua secolare posizione, ha voltato le spalle al popolo devoto e alle sue attese, ha sfregiato le loro speranze, ha ignorato le preghiere e gli insulti. Rotolandosi in una negligenza dispettosa, fra lo sconcerto dei fedeli e l’altezzosa indifferenza dei soldati tedeschi, ha dato buca al miracolo. 

I napoletani hanno capito che dovevano fare da soli. E così hanno fatto.   

 

Riconquistata la libertà con un scatto d’eroismo, Napoli si applica ai piccoli traffici dell’abbiezione. L’infezione dell’anima è appena agli inizi. 

Il 18 marzo del 1944, a sei mesi dalla liberazione, il Vesuvio si prende lo sghiribizzo di replicare al frastuono degli ultimi avvenimenti. Da tempo non si faceva sentire, fatta eccezione per qualche botta d’inizio anno, stonato assolo che subito si è ritratto per poi smorzarsi, quasi timoroso, nell’aria invernale. 

Lo davano per morto, un gigante vinto, acquietato, ormai civilizzato, la passione imbrigliata, la potenza addomesticata, spento l’impeto distruttivo. Mai un eccesso, solo un lungo sonno, e senza sogni. Una cartolina dai colori sbiaditi.

Ora, il vulcano rompe con violenza la gabbia di questa immagine, esce dalla pietrosa abulia con la voce fonda di chi ha taciuto a lungo. Senza alcuna remora esplode in un collerico furore. Era lì da tempo, e, da tempo, andava macerando in una sacca di astio rugginoso.

Un avvertimento. Senza troppi riguardi per la Storia e i suoi esiti più recenti, il Vesuvio vuol far sapere ai vincitori, entrati in città agli inizi di ottobre del ‘43, dov’è collocato il vero centro degli eventi, dove si decide la sorte del formicaio impazzito: così, da lassù, appare la città distesa ai suoi piedi.

Quando comincia a strepitare, obbliga tutti ad alzare lo sguardo per  sorvegliare l’intrico dei suoi nervi attorcigliati. 

Il suo messaggio è questo: non fatevi illusioni, le cose accadono qui, in alto, al di sopra del cerchio  dell’agire umano. 

La veemenza ostentata non fa che mettere a nudo la labilità con cui è intessuto il destino dei viventi, la sua fragile fibra.

Nei giorni del marzo ‘44, Napoli affina un sentimento che già era suo: il sentimento della precarietà. Sente che il suolo su cui poggia è infido, cedevole, gracile e inconsistente, una lastra sottile sul punto di sfaldarsi. Appena sotto scalpita l’inferno della melma infuocata, che lentamente rimugina, e quasi assapora, il collasso di ogni forma umana. Una forza distruttiva si ammassa, e si gonfia come un bubbone che è lì da sempre. È una presenza famigliare, ma niente affatto amichevole, che forgia gli affetti e i sentimenti, e le voci, grezze scaglie sonore tendenti al grido e allo schiamazzo. Il popolo di Napoli non si può consentire di parlare sotto tono, sussurrare, bisbigliare, mormorare. Vive in allarme, in una costante allerta. Incalzato dall’ansia, non può che strillare, segnalando il sopravvenire del peggio.

 

Nulla può la straripante cornucopia di mezzi e cose, la turgida ricchezza americana, che si è insediata nel cuore antico della città  ubriacando il suo popolo. Per liberare le strade dei paesi in secolare intimità con il vulcano dal soffocante accumulo di cenere, i volenterosi soldati americani non hanno che rudimentali pale, un po' più snelle ed eleganti dei badili contadini, ma meno capienti. Niente altro, mentre il vulcano, come un consumato teatrante in una città che è incline al teatro, si dispone a fare le cose in grande, scrolla la terra, ne lacera la superficie, ne frantuma le zolle, brucia vigne ed orti, schianta case e le inghiotte, orchestrando i suoni rotti di una sinfonia della fine che sfoggia tutto il suo repertorio scenico, la rigorosa drammaturgia di ogni eruzione degna del suo nome: lava bollente, lapilli, cenere, e detriti roventi a cascata, l’antico e funesto spettacolo del fuoco. Si resta a bocca aperta, gli occhi sgranati, impietriti dalla paura e dallo stupore, di fronte a questa scorreria del caos primigenio. Il vulcano espelle l’anima, vomita l’origine, il fondo primordiale, lo strato remoto, scagliandoli in aria quasi gli fossero di peso, un ingombro nelle sue viscere congestionate, un gastrico scompiglio, una resa dei conti intestinale, psichiche flatulenze e sulfurei sbuffi d’insofferenza troppo a lungo trattenuta. Non gli basta: tra gli aerei ammassi di gas nero trasuda una limacciosa poltiglia di vite in disfacimento. Tutto fuori. A intasare l’aria, gonfia di terra marcia, di acqua morta. Il respiro stenta, la vita boccheggia. La città inala il caos: è palude, è pantano. Ristagna immota, pur nel suo clamore eccitato. Napoli è un corpo in decomposizione che galleggia sui liquami delle fognature fatte saltare dai tedeschi prima di abbandonare la città. Un insulto fra i tanti.

 

Poi, inattesa, sbotta la vita, scalpita, s’impenna, straripa. Avida, smodata, fa tacere la montagna fiammeggiante, che, dopo qualche giorno di vistose intemperanze, si ritira nel sepolcro del suo cratere. Si adatta ai tempi nuovi. A futura memoria, per un po',  un pennacchio di fumo bianco lambisce la cima, segno manifesto della sua resa.

La vita rimbomba nei cuori, confusamente. Trema nei corpi disfatti, freme nel crepaccio dei quartieri spagnoli. Ha un volto feroce, una postura implacabile: chiede, reclama, pretende. E aizza l’acume di ogni giorno. 

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