Strategie fatali / Le tre fasi del terrorismo

10 Ottobre 2016

Il terrorismo non può fare a meno dei media. Questi, infatti, gli offrono un fondamentale spazio di visibilità sociale. Osservando il rapporto che si è storicamente sviluppato in Occidente tra terrorismo e media, si possono distinguere tre diverse fasi. E ciascuna di esse è strettamente legata alle caratteristiche di uno specifico medium. 

 

La prima fase è quella del gesto singolo. Dell’atto ideato e portato a termine da un individuo che in molti casi era anche anarchico e dunque, in quanto tale, non legato a una vera organizzazione. In un’epoca in cui esistevano solamente i quotidiani, la notizia dell’evento arrivava a una parte limitata della popolazione: quella alfabetizzata. Arrivava però all’élite che contava e dunque riusciva comunque a essere efficace. Al punto che un attentato di un singolo ha potuto trascinare l’intera Europa verso la prima Guerra mondiale. 

 

La seconda fase è quella in cui l’attentato era percepito come frutto di un complotto, cioè di una strategia concepita e realizzata da un’efficiente organizzazione, politica, religiosa o comunque mossa da un’unica ideologia. Ne sono un esempio le azioni portate a termine alle Olimpiadi di Monaco del 1972 e quelle delle Brigate Rosse, in Italia, negli anni Settanta, ma anche l’11 settembre 2001 a New York e le prime clamorose azioni dell’ISIS in Occidente (da Charlie Hebdo al Bataclan/Stade de France). Erano azioni che tentavano di sfruttare la forza comunicativa del modello di comunicazione di flusso che caratterizza i media di massa, soprattutto la televisione. Cercavano perciò di diluirsi nel tempo, presentandosi spesso come “grappoli di eventi”, anche grazie all’organizzazione che avevano alle spalle. È esemplare da questo punto di vista il rapimento di Aldo Moro, protrattosi a lungo.

 

 

Di fronte a tali atti, il mediologo Marshall McLuhan ha preso atto già negli anni Settanta che non poteva esserci una difesa possibile, dichiarando che l’unica forma di difesa era “staccare la spina”. Ma con la televisione ciò si poteva ancora fare. Con il web, oggi, non si può. Perché non possiamo non essere connessi. Tutto il nostro mondo crollerebbe. Che fare allora? Poco, ma la situazione si sta modificando, perché sembra che stiamo per entrare in una terza fase del rapporto tra terrorismo e media. Una fase, certo, in cui la televisione per adesso è ancora il medium più potente e dunque tende a creare un terrorismo del secondo tipo. Ma il web sta progressivamente sovrapponendo a esso un altro modello. Perché la Rete è uno strumento di socializzazione, però ciascuno al suo interno opera isolatamente. Il punto di vista è cioè quello dell’individuo singolo. Così gli atti a cui assistiamo oggi sono spesso anche il risultato dell’azione di un soggetto non particolarmente legato a un’organizzazione. Come il massacro del neonazista Anders Breivik in Norvegia nel 2011, la sparatoria del fast food McDonald’s a Monaco nell’estate del 2016, ma anche molti atti violenti accaduti negli Stati Uniti sul modello della strage del liceo di Columbine. 

 

Le società occidentali hanno sempre avuto degli individui singoli con difficoltà d’inserimento che la psicologia e la sociologia hanno ampiamente studiato. Ma tali società mettevano loro a disposizione degli strumenti con i quali si potevano compiere degli atti i cui danni incontravano dei limiti. Ora invece tali limiti sembrano essersi disgregati e l’obiettivo è di dare vita a eventi particolarmente spettacolari e, per essere tali, altamente disastrosi. Gli individui vogliono cioè, come in passato, vendicarsi per un torto subito su qualcuno in particolare o sul mondo intero. Ma lo fanno adottando un modello di “ipervetrinizzazione”. Come tutti, infatti, si mettono solitamente “in vetrina” esprimendo nei social media una specifica identità. Ma non si accontentano di ciò e vanno alla ricerca di un elevato impatto mediatico. D’altronde, una delle principali leggi di funzionamento del modello dello spettacolo è quella del continuo rilancio, del bisogno di superare continuamente i limiti precedenti, se si vuole evitare l’indebolimento della propria forza comunicativa. Non è un caso che queste persone spesso affidino ai social il racconto preventivo del loro criminoso progetto. 

 

La terza fase è dunque individuale, ma gli eventi accaduti mostrano oggi che è possibile ottenere in tale fase la stessa visibilità dell’era precedente: quella dei media di massa e delle organizzazioni. Però siamo sempre di fronte a singoli che, in quanto tali, non fanno pienamente parte di gruppi tenuti insieme da qualcosa. Potrebbero dunque non trovare delle motivazioni sufficienti a compiere i loro gesti se non fossero in grado di ottenere per le loro azioni un elevato livello di visibilità mediatica. E se le loro identità venissero fatte scomparire dai media, come hanno cominciato a fare alcuni quotidiani. Perché la comunicazione digitale non può essere interrotta, ma può essere facilmente manipolata. E dunque i volti possono essere ad esempio “pixellati”. Il che indubbiamente riduce la possibilità di “ipervetrinizzarsi”.

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