L'eterno ritorno di X-Files

6 Marzo 2016

Nello stemma codicum, l'albero genealogico dei codici, l'archetipo viene talvolta indicato con una x, e spesso è inaccessibile e sconosciuto, come vuole l'altra accezione della ventiquattresima lettera dell'alfabeto latino moderno, ossia quella di incognita, in arabo “shay”, “cosa”, termine dalla pronunzia simile a “ics”. 

 

La x come prefisso è una costante del filone fantascientifico, ma è indubbio che, tra le serie televisive, una in particolare può essere considerata come il modello prototipico dei generi sci-fi e crime, mi riferisco alla ventiduenne X-Files, tornata in auge dopo quattordici anni, se non si conta il film del 2008.

Gli X-Files, i dossier FBI sui casi ai confini della realtà, sono ufficialmente riaperti, anche se apparentemente per poco, sei episodi, ma, a detta del loro ideatore Chris Carter, potrebbero continuare a prosperare in futuro grazie ai continui spunti offerti dalla cronaca contemporanea. 

 

 

La decima (mini) serie incomincia con una sequenza riassuntiva dei nove anni di attività, compressi grazie all'espediente fotografico, per poi proseguire con un veloce riavvolgimento all'indietro della fabula per giungere all'incidente di Roswell, datato 8 luglio 1947 che, insieme all'avvistamento di oggetti non identificati del pilota Kenneth A. Arnold, avvenuto pochi giorni prima, è indicato come l'origine dell'ufologia moderna.

Gli spettatori modello, quelli che guardavano X-Files con la famiglia negli anni Novanta, avranno esclamato in coro «Roswell? Di nuovo? Non si può tornare così indietro!». Roswell, ancor più di Bellefleur, Oregon, è insieme spazio topico ed eterotopico, alfa e omega di X-Files, catalizzatore delle traversie dei protagonisti che trovano rifugio nell'ultima puntata della nona stagione in un motel della cittadina del New Mexico. Il peso di Roswell viene svelato nell'incipit della 10x1 con una spiegazione pseudo-logica fornita in un battito di ciglia: si tratta del primo contatto con la tecnologia aliena, prontamente ghermita dal governo americano per studiarla ed evolverla. I poveri alieni, adesso dipinti come vittime, preoccupati dagli ordigni atomici, erano giunti sulla terra per salvarla dall'autodistruzione, ma purtroppo il comitato di benvenuto li accolse con una manciata di pallottole nello stomaco.

 

Non si è mai vista tanta verità nei 202 episodi precedenti, soprattutto nelle prime battute di una nuova stagione. 

X-Files vuol dire Fox Mulder e Dana Scully, i due agenti FBI che per amore della verità hanno patito le pene dell'inferno, dal comodo soggiorno in bara per tre mesi del primo, al tumore provocato dalla rimozione di un impianto nano-chip per la seconda che, brutalmente, sembra aver passato la maggior parte delle nove stagioni nei letti di quasi tutti gli ospedali d'America. Martiri moderni, dunque, perciò più credibili e reali, agli occhi di un pubblico alla ricerca di pathos ed empatia viscerale. A ben vedere, la storia del tumore inoculato, poi guarito con l'impianto di un nuovo nano-chip, era sin troppo all'avanguardia per gli anni Novanta: penso alla rapida diffusione di patologie neoplastiche dovute a fattori esterni, ambientali e non, all'amianto e alla terra dei fuochi. Nell'altro caso, invece, se Cristo è risorto in tre giorni Mulder lo ha fatto in tre mesi, quel tanto che basta per rendere i fatti abbastanza credibili, soprattutto quando documentati con accurati esami clinici di cui non si lesinano termini tecnici, come nel miglior medical drama, il cui archetipo, E.R., andò in onda ben un anno dopo X-Files, che spicca anche per un'accuratezza semeiotica all'altezza del più recente Dr. House. 

Per la serie a volte ritornano, tutti insieme, il protagonista di Dr. House, Hugh Laurie, è da poco ricomparso col suo predecessore Doug Ross aka George Clooney in una gag virale ideata da Jimmy Kimmel, che si finge da paziente dei due medici seriali.

 

 

L'escamotage narrativo che giustifica la ripresa della mitologia di X-Files ha corpo, nome e cognome, Tad O'Malley, conduttore di Truth Squad, letteralmente “la squadra della verità”, un WikiLeaker televisivo, deus ex machina dell'incontro tra i due ex agenti dell'FBI, contattati in qualità di massimi esperti viventi di cospirazioni governative umano-aliene, anche se in pensione. Mulder vive da paranoico recluso, depresso e ossessionato, mentre Scully esercita la professione di medico in un ospedale, assistendo un chirurgo specializzato nella ricostruzione di orecchie di bambini Navajo, nati senza a causa di una patologia genetica. O'Malley li riporta alla dura realtà, quella di una cospirazione mai terminata, nonostante sia stata superata la minaccia del 22 dicembre 2012, giorno in cui, secondo “La verità” in due parti dell'ultima stagione, gli umani avrebbero dovuto estinguersi a causa di un'invasione aliena. Ricapitolando, nel 2012 si è sopravvissuti a ben due apocalisse, quella dei Maya e di X-Files, ma l'epilogo non era altro che il prologo della fine, l'ingresso nel vivo della cospirazione, che non ha mai smesso di mietere vittime, la cui portavoce, Sveta, scoperta da O'Malley, ha poteri telepatici e un background di rapimenti simile a quello di Scully, la quale, ispirata dagli esami condotti sulla prova regina in carne e ossa, decide di controllarsi emocromo, colesterolo e mapparsi al volo il genoma, scoprendo, per puro caso, di avere DNA alieno. Il dialogo tra Mulder e O'Mulley si arricchisce con inserti esplicativi che trascendono dal presente della narrazione, facendo riferimento alle nuove forme del complotto, mascherato dietro cibi insani, atti di terrorismo inscenati, una lista delle minacce contemporanee in forma di video-testimonianze del mondo reale. La creolizzazione tra scene finzionali e non diventa citazione quando viene riproposta la clip dello scambio di battute tra Barack Obama e Jimmy Kimmel su Area 51 e UFO, già avvenuto con Bill Clinton, utilizzando Mulder come spett-attore e tramite di realtà e finzione.

 

L'utilizzo di eventi realmente accaduti e della loro documentazione produce effetti di realtà autenticando il mondo possibile di X-Files, che trova la sua ragion d'essere in descrizioni talmente vivide da risultare quasi sensibili, vidimate dagli usi della tecnologia dei due protagonisti che usano app e motori di ricerca finzionali, come il finto YouTube Mind Quad e Finder Spyder, che di Google ha solo i colori blu e rosso. In effetti, guardando gli episodi del passato su Fox Files, canale temporaneo tematico lanciato su Sky per celebrare il ritorno della serie, ci saremo tutti chiesti come sarebbero state le indagini con l'ausilio degli smartphone, grazie a cui le prove sarebbero state un problema risolvibile con l'accesso alla galleria multimediale. Mulder e Scully sono completamente immersi nell'era di Google, anche se la seconda ammette di preferire i metodi della vecchia scuola, mentre il primo pasticcia con gli scatti continui della fotocamera. Ci aspettavamo pure l'ingresso in campo dei social network, per vedere Mulder condividere link su Facebook da cospirazionista ignorante, tipo “attenzione all'eau de Deash nelle cassette delle lettere”, o ancora assistere alla condivisione dei selfie di Scully nel bel mezzo di un'autopsia. 

 

 

X-Files può, dunque, essere classificata come saga perché i personaggi che popolano l'universo finzionale invecchiano, forse anche troppo nel caso dell'uomo che fuma, stimolando il sistema di aspettative del pubblico con citazioni e topoi ritrovati. Per essere in grado di apprezzare a pieno tutte le sfaccettature della storia, lo spettatore modello deve essere dotato di una conoscenza enciclopedica intertestuale, cioè della comprensione del mondo e dei suoi testi.

Come ci ha fatto notare Umberto Eco nel saggio “L'innovazione nel seriale” del 1985, il ritorno in auge di una storia nota è frutto della mediazione tra schematismo e innovazione, con una cospicua aggiunta di ironia (vd. Orlando furioso e il terzo Superman). Nonostante si abbia sempre l'impressione che il riportare alla luce i fasti di un tempo sia un danno all'aura di sacralità che avvolge la serie, lo spettatore modello critico appaga il suo piacere del testo grazie alla sua variante insignificante, al poter essere in grado di riconoscere un tratto caratterizzante del passato, o al sistema di citazioni intertestuali. 

 

Ed è questo ciò che accade nel terzo episodio della decima (mini) serie, Mulder and Scully Meet the Were-Monster, dove il pathos a cui siamo abituati lascia il posto alla parodia e alla comicità, come già era accaduto nelle stagioni 2, 4, 5, con i rispettivi episodi Humbug, Small Potatoes, Bad Blood, il preferito dell'attrice Gillian Anderson. A parte l'esercizio di stile degli attori, che si dimostrano all'altezza di qualsiasi genere, questo episodio è puro diletto per lo spettatore modello dotato di una competenza enciclopedica sulla serie, ma anche di una conoscenza del mondo non indifferente. Mulder, ormai bollato come psicotico, veste di nuovo lo slip rosso, reso cult dalla puntata Duane Barry, ed è alle prese con una crisi del non voler più credere, tartassato da anni di attacchi alla validità delle sue tesi. Colui che lo fa tornare sui binari della verità è una lucertola mannara, mascherata come Kolchak della omonima serie degli anni Settanta, fonte d'ispirazione per Chris Carter, che, a suon di citazioni shakespeariane e sberleffi, gli fa comprendere il punto di vista dell'alieno, l'altro, il diverso, mostrandogli come chi conduce una vita “normale” può essere davvero mostruoso.

Il nemico in X-Files non è sempre così amabile, anzi è spesso efferato e invisibile, ma la sua caratterizzazione, almeno a mio parere, ricalca la storia americana nella sua consecutio temporum: lo scienziato nazista invischiato nella cospirazione governativa, i fantasmi russi della guerra fredda con cui fare a gara di scoperte scientifiche, gli iracheni di Saddam e i militanti dell'Isis, a cui viene dedicato il penultimo episodio della nuova serie. In Babylon, dal titolo eloquente, Mulder e Scully aiutano i loro giovani doppelgänger, gli agenti Miller ed Einstein, consanguinea del più noto e reale Albert, a entrare in contatto con un kamikaze miracolosamente sopravvissuto all'esplosione del cosmogonico ristorante Ziggurat, sito in uno degli stati più bigotti e conservatori d'America, il Texas. 

 

 

La metafora incorporata in Babele serve a mettere in rete tutti i rilievi semantici che si sono avvicendati nella mitologia di X-Files: la creolizzazione con la cultura aliena, intesa non solo come quella degli abitanti di un'altra galassia, ma anche dell'altro sito in patria, come i Navajo, che spesso hanno rappresentato la chiave di volta per trovare la soluzione agli enigmi alla base della mitologia di X-Files. Mulder e Scully si sono misurati con diverse culture altre, con cui hanno dovuto fare i conti nel corso dei loro casi, come ad esempio i mormoni, gli haitiani, i cinesi, o addirittura confrontandosi costantemente con ciò che non è simile a nessun esemplare conosciuto in natura. Babele entra di nuovo in gioco con il problema della traducibilità, affrontato nell'episodio in questione da Mulder che, durante un'esperienza extra-sensoriale, riceve una rivelazione in arabo dal terrorista, e da Scully, all'inizio della settima stagione di X-Files, quando è alle prese con la traduzione delle inscrizioni su oggetto non identificato trovato in Africa, che racchiude le fondamenta del genoma umano. Era il 1999 e il progetto genoma umano sarebbe stato portato a compimento ben quattro anni dopo. In questo modo la relazione tra traducibilità e intraducibilità assume il compito di dare senso all'invisibile e all'ineffabile in quanto rinvia a una parusia aliena permanente che si esplicita in ogni manifestazione del genere umano, la cui sopravvivenza si fonda sull'aporeticità della verità ricercata dai due agenti. 

Carter non ci ha ancora svelato la tanto agognata verità, affamandoci di indizi e risposte, ammaliandoci con premonizioni geniali, per spingerci a completare gli spazi bianchi lasciati dai casi irrisolti, ma, allo stesso tempo, per lasciarci godere della novità e di uno schema narrativo costante, del ritrovare un personaggio noto, del ritorno dell'identico superficialmente mascherato. 

E l'identico ritorna ancora nell'incipit dell'ultima puntata della stagione, My struggles II, evidentemente la seconda parte della prima intitolata My struggles, “le mie lotte”, dove troviamo di nuovo l'espediente narrativo fotografico, questa volta con la voce narrante di Scully, colei che grazie al suo DNA alieno sembra essere un passo avanti a Mulder nella corsa alla verità. Anzi, il suo voler credere è più forte e ammantato di speranza.

 

 

Mulder è lo gnostico descritto da Umberto Eco ne I limiti dell'interpretazione perché “si trova a disagio in un mondo che avverte estraneo ed elabora un disprezzo aristocratico nei confronti della massa, a cui rimprovera di non riconoscere la negatività del mondo, e attende un evento finale che del mondo determini il rovesciamento, l’eversione, la catastrofe rigeneratrice”. Proprio quando la catastrofe avviene, Mulder si rifiuta di essere salvato, di sedere al tavolo degli eletti, anche se morente, continuando a odiare quel mondo e scegliendo di non far parte della cospirazione, da cui deriva il male. Il suo corpo trasfigurato dalla malattia diventa, per dirla sempre con Eco, “la celebrazione estetica del male”, del complotto. Mulder rifiuta la salvezza corporea per garantirsi quella spirituale, anche se la sua collega Scully, resa eletta proprio dalla cospirazione, potrebbe garantirgliela con il suo stesso sangue. Il mondo malato che Mulder rigetta, finisce davvero per ammalarsi, nel senso che l'apocalisse sta per essere causata da un'epidemia di massa dovuta all'attivazione degli agenti patogeni inoculati dai vaccini che, invece di rafforzare il sistema immunitario, l'hanno distrutto lentamente. L'unica speranza è l'immortale Scully, ormai ne abbiamo la certezza, soprattutto quando illuminata dal fascio di luce di un UFO apparso proprio sulla sua testa. Primissimo piano dell'iride... et voilà, au revoir X-Files sino a data da destinarsi. Ecco che nello spettatore modello si affollano svariati pensieri intraducibili, sia per decenza che per compressione, riassaporando l'amaro in bocca della frustrazione, provato dopo tutti i nove finali di stagione precedenti, quando il Web e i social non avevano ancora il potere di svelare cosa aspettarsi in futuro. Questa volta, nonostante il Web e i social, la storia si ripete allo stesso modo, l'unica cosa che rimane sono dei vaghi accenni di David Duchovny e Gillian Anderson a un prosieguo della storia, da recuperare nelle interviste e nei commenti disseminati qua e là. X-Files ci ha di nuovo gettato nel suo mondo possibile e dopo poco ci ha rigettato, lasciandoci di nuovo orfani della verità, e con il doppio degli interrogativi da risolvere. Sei puntate hanno avuto giusto il tempo di rimischiare le carte e di lasciarci con la paura che Miller ed Einstein, invece di restare semplici amplificatori della trasformazione subita da Mulder e Scully, possano prendere il posto dei nostri beniamini, come già è accaduto nelle due stagioni precedenti con John Doggett e Monica Reyes.

 

X-Files ha uno schema ricorrente basato sul ritmo della narrazione e sulle attese del pubblico, il cui innalzamento di tensione è posizionato sempre nei season finale. Come mi ha fatto notare Isabella Pezzini durante un tragitto in auto su viale Regina Margherita a Roma, le serie televisive hanno riscritto, o meglio risemantizzato, il valore canonico della fine di una storia. Il finale non ricopre più il ruolo topos di disvelamento, bensì assurge ad atto generativo orientato al costante rinnovo delle occasioni narrative. I serial televisivi cannibalizzano le infinite possibilità dei loro testi, intrecciando cicli di eterni ritorni e stravolgimenti sulle invarianti della struttura del racconto.

La parola fine subisce un cospicuo slittamento di senso, virando verso un percorso apocatastatico e palingenetico che nel caso di X-Files si risolve con l'assunto “The truth is on hiatus”, “La verità è in pausa”.

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