Lisetta Carmi, fotografa del resto dell'umanità
Non ho avuto la fortuna di conoscere Lisetta Carmi. Ho cercato più volte di incontrarla e non ci sono mai riuscita. Avevo persino deciso di andare senza preavviso a casa sua a Cisternino, ma Gianni Martini, suo amico e gallerista, mi disse che era caduta e che faticava a rilasciare interviste.
La mettevano in agitazione gli incontri con persone che non conosceva. Per fortuna, su Robinson di un anno fa, è comparsa un’intervista di Antonio Gnoli che ci ha permesso di sentire ancora la sua voce. Come Giulia Niccolai, Letizia Battaglia e Carla Cerati, Lisetta Carmi è stata una fotografa che non ha temuto di affrontare la vita e di cambiarla radicalmente non appena ne sentiva la necessità. Giovanna Calvenzi coglie questo aspetto importante quando sceglie per il suo saggio il titolo Le cinque vite di Lisetta Carmi (2013), tuttora testo di riferimento per chi voglia orientarsi nella vicenda umana e artistica della fotografa.
Come Niccolai, Battaglia e Cerati, Carmi, nata nel 1924, cresce durante il regime fascista. Essendo ebrea, deve subito fare i conti con i divieti e le assurde discriminazioni che lasceranno un profondo segno nelle sue scelte di reporter. Tant’è vero che la sua attività di fotografa coincide con il bisogno di schierarsi in occasione del provocatorio congresso nazionale del M.S.I. a Genova, impunemente lasciato celebrare dal governo Tambroni in una città insignita della medaglia d’oro per la Resistenza.
E quando le viene rivolta la domanda: “Ma come, vai in piazza con i portuali, se ti rompono una mano non puoi più suonare”, risponde: “Se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità, allora io smetto subito di suonare il pianoforte”.
Il bisogno di riscatto e di emancipazione di un’umanità negletta è enormemente superiore alla passione per la musica e per la sua carriera di concertista. Le sue prese di posizione sono espressione di una radicalità che emerge anche nelle tematiche della sua fotografia.
Poche donne, e ancor meno uomini, hanno avuto il coraggio e la sensibilità di riprendere il parto con la stessa naturalezza e umanità con cui si potrebbe riprendere un porto. Quest’ultimo, infatti, sarà uno dei lavori che l’accrediterà come reporter della fatica e del sudore, di un mondo assolutamente precluso alle donne e ai non addetti ai lavori come quello dei portuali di Genova.
Genova, la sua città, è anche al centro di una sua particolare ricerca espressiva e concettuale che prende il nome di Erotismo e autoritarismo a Staglieno, del 1966. In questo lavoro l’obiettivo è di svelare, dietro il ritratto che la borghesia fa di se stessa, le pulsioni erotiche che si annidano nei dettagli marmorei e, soprattutto denunciare il carattere autoritario di quella rappresentazione.
Analoga operazione è messa in atto con il lavoro forse più conosciuto, quello sui travestiti. Il suo sguardo scruta, senza ipocrisia e perbenismo, la profonda umanità che proviene dai corpi e dalle espressioni di un pezzo di società negletto, represso, marginalizzato, che non conosce ancora le parate dell’orgoglio omosessuale e che non ha coniato ancora la sigla LGBTQ+.
Anzi, si coglie apertamente una solidarietà che le permette di entrare nelle case dei travestiti, mostrare il loro lato intimo e quotidiano, la loro assoluta normalità umana. Così come il senso che si percepisce nelle foto scattate in esterno, è quello di una buona integrazione e interazione nel tessuto sociale. Nei diversi volumi fotografici attualmente disponibili si vedono travestiti sorridenti in compagnia di bambini, mentre comprano giornali, escono dall’uscio di casa e incontrano casalinghe, in compagnia di pescatori.
Se nel cimitero di Staglieno l’eros e l’autoritarismo sono ammantati di bellezza marmorea e di forme equilibrate, per i vicoli dell’antico ghetto, questo binomio si nutre di carne e si veste con le mises più caricaturali. All’equilibrio del marmo si sostituisce, per necessità o vocazione, chi si ritrova fuori misura.
Lisetta Carmi è alla ricerca di una misura, e la trova nell’umanità che osserva con una umana partecipazione. Lo si può constatare nelle foto scattate in Puglia, in Sicilia, in Sardegna, durante l’alluvione di Firenze, nella stessa Genova. All’estero sono da ricordare i servizi sull’Irlanda attraversata da fremiti rivoluzionari, così come in Messico e in Venezuela, passando per Israele dove ha cercato, vanamente, di ritrovare la purezza degli ideali della sua religione.
È probabile che il suo avvicinamento al buddhismo sia anche il frutto di una maturazione progressiva conseguente alla disillusione nei confronti delle religioni prescrittive. Vale la pena di rilevare che il percorso di Carmi, così come quello di Niccolai, di Battaglia e di Cerati, è contraddistinto da svolte e inversioni di percorso e di direzione. Battaglia comincia a fotografare dopo essere stata casalinga e moglie, finendo per realizzare il Centro Internazionale di fotografia a Palermo. Niccolai inizia come fotografa, continua come poetessa e conclude ritirandosi in meditazione secondo i dettami del buddhismo. Carla Cerati rompe con il suo ruolo di casalinga e madre, intraprende la professione di fotografa e parallelamente fa la scrittrice. Lisetta Carmi, infine, dopo una brillante carriera di pianista, si dedica alla fotografia e infine fonda un ashram a Cisternino in Puglia.
Hanno in comune, evidentemente, una ferrea volontà di autodeterminazione che presuppone un esercizio di critica del proprio vissuto, incuranti di abbandonare le comode posizioni già acquisite e di affrontare un futuro ignoto.
La perdita di Lisetta Carmi è il tassello finale che relega ormai alla storia un quartetto di grandi professioniste della fotografia che sono state ancor prima donne coraggiose e testarde.
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