Lisetta Carmi - Suonare Forte 

23 Novembre 2022

Lisetta Carmi è scomparsa quest’anno, all’età di 98 anni, lasciando un’eredità visiva immensa. Quella di Gallerie d’Italia, a Torino, è una delle prime mostre postume che le sono state dedicate, assumendosi l’onere di trasmettere una porzione sufficiente di questo lascito col fine di delineare un ritratto a posteriori, e di far comprendere anche a chi meno la conosce fin dove e per quanti dedali il suo sguardo ha vagato e camminato.

La mostra, curata da Giovanni Battista Martini, pare così assumere più il ruolo della rapida sequenza di flashback, in cui le visioni si alternano veloci e si rincorrono, sovrapponendo ricordi raccolti negli anni per poi svanire ed esaurirsi in pochi attimi. Troppo poche, infatti, le meno di cento immagini per approfondire a sufficienza ogni lavoro, ma bastanti per recuperare d’un tratto dalla memoria quanto già aveva avuto modo di depositarsi.

La fotografia, come già è stato sottolineato in altri articoli e libri dedicati alla Carmi, ha rappresentato per lei una porzione soltanto della sua vita, un quinto di esistenza, succedendo alla brillante carriera pianistica e precedendo, aprendo la via, il lungo cammino di conoscenza che ha trovato il culmine con l’incontro col maestro Babaji e la seguente fondazione del proprio ashram a Cisternino, in Puglia. 

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Lisetta Carmi, Staglieno.

Rimane un dato curioso il fatto che anche delle altre vite della Carmi se ne ha traccia soprattutto fotografica: di quando suona, di quando è in India, di quando è a Cisternino, la Carmi sta, ed è sempre stata, nella fotografia, in qualche modo ha sempre trovato il modo di toccarla anche solo indirettamente, per tutte le sue vite. Ed è infatti una gigantografia che la ritrae sulla soglia del suo ashram a Cisternino che apre e chiude la mostra, ed è lì che compare e si compie il senso anche del titolo già di per sé eloquente, quel “Suonare forte”.

Queste sono infatti le parole che compaiono manoscritte su un cartello sulla porta della sua ultima vita, nonché forse l’intero significato che fin dalla prima, in cui raggiunse il massimo successo grazie alla musica, ha caratterizzato l’operare della fotografa genovese. Il cammino si apre sulla sezione dedicata al tema femminile, più precisamente espresso attraverso le immagini che raccolse in uno dei suoi primi viaggi in Israele, di cui abbiamo già avuto modo di parlare qui su Doppiozero: sono i primi passi che la Carmi intraprende nel nuovo terreno dell’immagine, e proprio con questo mezzo prova ad appropriarsi, vedendolo e registrandolo, del popolo ebraico a cui nominalmente appartiene.

Camminando tra le immagini si ha la sensazione che la fotografia sia diventata per la Carmi uno strumento in tutto personale, affacciato all’esterno per raccontare i nodi nascosti nella sua natura più intima: i reportage che ha realizzato nel porto di Genova, così come quello sui travestiti (vedi l’articolo di Silvia Mazzucchelli), ormai divenuto pietra miliare della storia della fotografia, non toccano il dramma nelle viscere, come fece, per esempio, la statunitense Mary Ellen Mark, rendendo l’osservatore giudice inerme e passivo di fronte alle derive più estreme in cui l’uomo talvolta è costretto a trovarsi, e che proprio per questo non risparmia in modo alcuno l’occhio, sfregiandolo anzi con l’ago che è sul punto di entrare nel braccio, anziché col travestito pronto ad esibirsi chiuso in una stanza che è lo specchio esatto del dolore che accompagna anche il successo dello spettacolo.

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Lisetta Carmi, Ezra Pound.

La Carmi rimane in tutto delicata, umana, quasi eterea, e soprattutto, non pare voler sbattere in faccia al mondo l’irrecuperabile, quanto la sostanza umana che nonostante ogni circostanza riesce a rimanere intatta, rintracciando proprio lì il filo che la tiene stretta a chi fotografa, trovando, così, parti mai narrate di se stessa. 

L’inedita sezione dedicata alle immagini scattate durante un parto rappresenta forse il culmine della mostra, e apre varchi inesplorati: si tratta di un lavoro che le fu commissionato, e in cui i medici collaborarono posizionandosi in modo tale da non capitare mai davanti all’obiettivo della fotografa. In questo modo la Carmi riuscì a mantenere un’unica decisiva posizione, frontale alle gambe aperte della partoriente, e potendo scattare una vera scansione in dodici fotogrammi dei momenti precedenti e immediatamente successivi all’uscita del neonato dal ventre della donna.

“Un parto pulito e facilissimo” dichiara in una video intervista allestita in questa sezione la Carmi, rappresentato relegando l’eloquenza al solo fatto, lasciando che un’inquadratura statica e frontale fosse come il corpo stesso della donna immobile sul letto, e che in quell’immobilità condivisa, di chi guarda e di chi è guardato, l’unico movimento fosse compiuto dalla sola nascita, dall’apparizione organica che prende forma e fisionomia del tutto nuove sotto gli occhi che in quel momento stanno immobili a guardarle. 

A circolare compimento della scansione visiva del parto, nella stessa sezione si trovano alcuni esempi del lavoro che la Carmi svolse nel Cimitero Monumentale di Staglieno, un lavoro che dedicò al diretto contraltare della morte, ovvero all’erotismo. In questo caso non emerge solo l’evidente dialogo di diretta specularità con gli scatti del parto, ma anzi soprattutto il fatto che su entrambi i lavori cada una luce omogenea e pressoché identica, e che i grigi siano adatti a raccontare il marmo delle sculture funerarie come le gambe aperte di una donna che partorisce, senza rendere chiara la distinzione tra la carne e la pietra. 

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Lisetta Carmi, Metro Parigi.

Come si diceva, la statica sequenza del parto crea un nuovo sguardo nella mente dello spettatore che scopre o riscopre il lavoro della Carmi: poco oltre, infatti, è collocata un’altra, più famosa sequenza altrettanto statica e fulminea, ovvero quella dedicata ad Ezra Pound. Con questi scatti la Carmi si aggiudicò il premio dell’edizione italiana del Premio Niépce, con la motivazione di Umberto Eco secondo cui “Questa sequenza di Lisetta Carmi dice di Ezra Pound più di tutti gli articoli scritti su di lui, la sua complessità e natura straordinaria”.

Anche in questo caso, l’avvenimento e l’apparizione furono brevi e trasognate, come il parto; come il parto, la Carmi ebbe una sola scelta possibile da fare, una sola mossa giusta in cui posizionarsi per guardare. Così dalla porta di casa esce – nasce – l’uomo anziano, il poeta allucinato, il profeta che già a sua volta portò nella parola l’immagine col movimento imagista, e che ora si trova in essa definitivamente rispecchiato.

Si tratta di un metodo fotografico costretto dalle circostanze, in cui non è concesso spazio né tempo per decidere, e che crea un modo del tutto antitetico con la comune idea di reportage, a cui generalmente si associa movimento e ricerca dell’inquadratura: stare immobili e guardare sposta tutta l’attenzione su ciò che avviene, con la naturalezza che si avrebbe anche senza macchina fotografica. Ne nasce una sorta di reportage riduzionista, in cui la sintesi del significato del fatto fotografato deve essere riassunta in poche immagini scattate da un unico punto. 

Ben diverso dal metodo adottato per il lavoro sui travestiti, durato più di cinque anni, e che ha richiesto tutte le doti umane della Carmi per poter conoscere, entrare nelle case, approssimarsi rischiosamente alla dolorosa intimità di ciascuno, affrontando infine un argomento che tutt’oggi, proprio a Genova, continua a vivere e a pulsare: basta guardare “La bocca del lupo” del 2015 di Pietro Marcello per compiere in sostanza un viaggio simile a quello della Carmi, ed entrare in una casa che così ancora simile appare a quelle della Gitana, della Morena, della Novia, immortalate da Lisetta. 

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Lisetta Carmi, Porto.

Ed è raccogliendo con gli occhi la sintesi dei suoi lavori che appare d’un tratto l’idea che la Carmi abbia forse fotografato sempre la sua stessa negazione: il popolo con cui non ha vissuto, i figli che non ha partorito, il dubbio inespresso sulla sua stessa identità sessuale di cui ci fa partecipi in un altro estratto di video intervista.

Quando si fotografa si racconta qualcosa che in fondo non si conosce: il lavoro operaio, la vita dei travestiti, il caos della metropolitana parigina, la vita o la morte, se si fotografa è solitamente per compiere un atto di scoperta, e quindi di non conoscenza, ed è secondo questo fatto che la Carmi pare abbia sempre trovato la propria strada espressiva nell’altro, un “altro” che potesse incarnare ciò che non è stata, che non conosceva, per approdare a uno stadio di comprensione e accoglienza attraversando proprio questa lotta di termini.

Ed è da questa lotta che prende significato quel modo forte di suonare in definitiva un unico movimento in un unico modo, così come a volte è proprio un unico punto quello risultato decisivo per la Carmi per realizzare i suoi lavori. Che sia carne o pietra, uomo o donna, israeliano o palestinese, il termine ultimo in cui trova forma il corpus visivo della Carmi è quello concreto in cui la vita le si è manifestata davanti, generata ed evoluta, rendendo così in grado anche lei di generarsi ed evolversi, cinque o magari anche più volte, risolvendosi in un’unica immagine che continuerà a portare il suo nome. 

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Lisetta Carmi, Travestiti.

 

Lisetta Carmi. Suonare forte, a cura di Giovanni Battista Martini
Gallerie d’Italia, Piazza San Carlo 156, Torino
Dal 22 settembre 2022 al 22 gennaio 2023
Catalogo a cura di Giovanni Battista Martini, edizioni Gallerie d’Italia | Skira

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Nell'immagine di copertina la fotografia di Lisetta Carmi, Travestiti, Genova.

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