L'occhio dilatato di David Bowie

12 Gennaio 2016

Abbiamo già letto tutto. Ascoltato tutto. Le radio sono sature della musica di Bowie. Tutti cercano il saluto più brillante a una delle più grandi icone culturali del nostro tempo. È già stato scritto tanto.

Le cose più interessanti le ho lette sulle pagine Facebook della mia rete di amici. Molti facevano gli snob e criticavano quelli che lo ricordavano mostrando il proprio dolore su Internet, altri più ingenuamente postavano le loro canzoni preferite, a ripetizione. Altri più intellettuali analizzavano la sua importanza per l’arte contemporanea o per la liberazione sessuale, altri ancora discutevano delle sue differenti fasi musicali, dal blues, al folk, al glam, al soul, all’elettronica, alla new wave, alla musica sperimentale. Quelli che ho apprezzato di più sono stati coloro che hanno semplicemente condiviso un videoclip, senza commenti. Altri hanno ricordato la coda fatta per vederlo uscire dalla chiesa di Saint James a Firenze dopo essersi sposato con Iman, o l’esordio italiano a Monsummano terme nel 1969, a un improbabile Festival Internazionale del Disco. Noiosi, antipatici, malinconici o snob, tutti hanno perso del tempo personale per ricordare l’uomo straordinario che è stato. È questo che è interessante: che milioni di persone abbiano ricostruito la sua immagine, il suo ricordo, quello che ha fatto, attraverso i frammenti delle proprie conoscenze e dei propri ricordi legati alla sua musica. Ognuno a modo suo, antipatico o romantico che fosse.

Mi vergogno quindi ad aggiungere l’ennesimo articolo alla lista dei ricordi, esegesi, commenti, approfondimenti sulla figura e sull’arte di Bowie. Proverò allora a stringere il fuoco su una cosa piccolissima del suo corpo – la sua pupilla dilatata – e da lì provare a zoomare sulla figura intera di Bowie e proporre una lettura, laterale e parzialissima, dell’importanza di questo artista per noi che rimaniamo qui su questo pianeta a sopravvivere e per quelli che verranno.

 

George Underwood e David Robert Jones erano due compagni di classe dell’istituto tecnico di Bromley. Suonavano assieme nella band George and the Dragons e avevano 14 anni. Era il 1961. Una mattina si mettono a litigare per una ragazza (così riportano le biografie) e George dà un pugno nell’occhio sinistro di David, provocando la paralisi della pupilla e rischiando di fargli perdere la vista. Dopo 4 mesi di ospedale David esce con una pupilla dilatata per sempre e dei problemi nel percepire la profondità di campo. George e David rimangono amici, ma la band si rompe. David poi chiamerà George a lavorare come illustratore delle copertine di suoi due dischi (Hunky Dory e The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars). Quell’episodio rappresenta la prima manipolazione del corpo di David (Robert Jones) Bowie e la sua prima trasformazione in qualcun altro.

 

Quella dilatazione permanente della pupilla è il primo passo verso la mutazione perenne del suo corpo di performer. Quante volte quegli occhi sono stati truccati, colorati, evidenziati, fino a sparire dietro le bende di una mummia, nel suo ultimo videoclip uscito quattro giorni prima che morisse?

 

Nel 1976 quello sguardo asimmetrico interpretò perfettamente l’alieno disceso sulla Terra – T. J. Newton – nel film L’Uomo che cadde sulla Terra, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore americano Walter Tevis pubblicato nel 1963. Pare che la malinconia e la solitudine del protagonista del romanzo di Tevis fossero ispirate alla solitudine provata dallo scrittore di fronte al trasferimento forzato in un paese di campagna all’età di 11 anni. L’alieno di Tevis rappresentava una forma di alterità molto umana, e per questo universale, comprensibile a molti. T. J. Newton era alieno non perché venuto dallo spazio, ma perché diverso da tutti gli altri, proprio come David Bowie.

Nessun altro avrebbe potuto dare un volto migliore a quell’alieno, se non David Bowie. Non tanto per i suoi continui rapporti e riferimenti allo spazio nelle sue opere, ma soprattutto perché Bowie incarnava letteralmente l’essere alieno, diverso, Altro da noi, sia attraverso la superficie materiale del proprio corpo sia attraverso la superficie simbolica delle sue performance.

Anche se sembrava un alieno disceso sulla Terra, Bowie era, proprio come T. J. Newton, più umano degli umani. Era un essere umano nato su questo pianeta e ne è stato uno dei suoi rappresentanti più brillanti.

Le mutazioni incarnate da Bowie hanno nel tempo sintetizzato in artefatti pop tutte le forme di alterità e diversità presenti ai margini della società occidentale.

 

David Bowie non era soltanto un musicista, un attore, un pittore, un performer, un compositore, una rockstar. David Bowie è stato un mezzo di comunicazione di massa. Il suo corpo è stato l’hardware di questo mezzo di comunicazione, mentre la sua musica e le sue parole ne sono state il software. Lui stesso, in un’intervista ripescata da Daniele Martino su Doppiozero, affermava che “Io non sono una rockstar, io non sono nel rock’n’roll. Per me il rock’n’roll non è che un media, un canale di espressione”.

Ha usato il corpo e la musica come un media di comunicazione. Bowie ha riprodotto la sua arte nell’epoca della riproducibilità di massa, riproducendo se stesso e le sue molte personalità sotto forma di disco, live radiofonico, spettacolo dal vivo, film, intervista televisiva, performance teatrale, videoclip.

Bowie è stato un media di massa, nel senso che Walter Benjamin dà ai media di massa. Benjamin non parla di media, ma di apparatur, di apparati, cioè di tecnologie “che organizzano la percezione umana”, di medium attraverso i quali passa, filtra, si riflette la nostra esperienza del mondo.

 

Bowie ci ha fornito un medium, un prisma attraverso il quale dare forma alla nostra percezione della realtà, istigandoci a vederlo dal punto di vista di Ziggy Stardust o da quello del Duca Bianco (nato come estensione del personaggio alieno di Walter Tevis), ovvero, come diceva nell’intervista citata prima, “aprire la gente a nuove prospettive”.

Questo medium di massa ha trasmesso per cinquant’anni le sue visioni del mondo, il suo immaginario e le sue identità sessuali, artistiche, politiche. La sua alterità permanente, incarnata da quella pupilla dilatata, è stato uno dei contenuti più importanti delle sue “trasmissioni”. Bowie è stato un mezzo di comunicazione che ha reso di massa, popolare, l’alterità e ha dato a tutti noi che lo ascoltavamo la speranza che la nostra diversità, il nostro sentirci – per un giorno o per una vita – alieni, soli, diversi dal mondo circostante – fosse un paesino di periferia di Brixton o dell’Umbria – potesse trovare un giorno un compagno, un amico, un altro simile a noi. Ziggy Stardust è stato uno dei miei amici immaginari: mi faceva sentire meno solo e meno alieno. Bowie ha dimostrato che tutte quelle alterità da lui incarnate non erano le diversità di un alieno disceso sulla Terra, ma quelle di un umano come tanti che incarnava tutte le diversità degli umani. Ha dimostrato che quelle diversità ci appartenevano, erano nostre, erano ciò che ci rendevano umani, non provenivano da Marte.

 

Il corpo di Bowie è stato uno specchio dentro il quale c’erano riflesse le facce di tutti gli alieni del mondo.

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