L'orecchio di Kiev
L'orecchio di Kiev di Andrei Kurkov (traduzione di Claudia Zonghetti, Marsilio 2023) non parla dell'Ucraina di ora e se qualcuno fosse attirato dal titolo pensando a un romanzo sull'oggi resterebbe deluso: l'unico aggancio con l'attualità è nel destino tragico di questo paese, che dal 1917, l'anno della rivoluzione russa, non conosce pace. Il vangoghiano orecchio mozzato del titolo appartiene al giovane Samson, che se lo vede tranciare dalla sciabolata di un cosacco, la stessa che ucciderà suo padre, buttatosi su di lui per fargli scudo col suo corpo. L'orecchio reciso del ragazzo diventa da quel momento ossessivamente origliante perché, senza padiglione auricolare, quel buco gli procurerà una ipersensibilità uditiva, che lo salverà da alcune situazioni pericolose: Samson sente infatti i bisbigli attraverso i muri e i passi in strada di qualcuno che arriva, pur avendo bisogno di porre incongruamente, a un certo punto, una scatola di latta sulla maniglia della porta di casa per essere avvertito, nel caso qualcuno volesse forzarla, dal rumore che avrebbe provocato cadendo. È il 1919 e la città, invasa dall'Armata Rossa, è in preda al caos. L'orecchio di Kiev racconta uno spaccato di questo mondo pre-sovietico, tra nazionalisti, russi bianchi, soldati allo sbando, criminali e balordi. Due soldati, Anton e Fedor, si installano nella casa dell'orfano Samson requisendo, oltre all'alloggio, anche un prezioso scrittoio appartenuto al padre dove, in un cassetto, Samson aveva riposto la scatola di latta contenente l'orecchio mozzato: lo aveva recuperato dopo la sciabolata, nella speranza di farselo riattaccare.
Andrei Kurkov si diverte a fare il verso ai grandi autori di origine ucraina, che però sono considerati russi, hanno vissuto in Russia e scritto in quella lingua: tra gli altri, Gogol, Babel, Bulgakov. È un romanzo manierista quello che compone Kurkov: "Siamo tutti usciti dal Cappotto di Gogol", scrisse Dostoevskij; anche Kurkov, probabilmente in debito pure con I racconti di Odessa di Isaak Babel, dove la città sul Mar Nero sembra la Kiev che descrive lui, con le sue storie di ladri e delinquenti, mischiate ai ricordi dell'autore. Prima di incontrare il sarto del Cappotto, ci imbattemmo da ragazzi nel padre dello sfortunato Nemecsek, curvo sulla sua macchina da cucire, nei Ragazzi della via Paal (1907) dell'ungherese Ferenc Molnàr: il sarto è una figura ricorrente nella letteratura dei Paesi dell'Est, è spesso un uomo semplice ma dal carattere aperto, perfino con una certa cultura, sicuramente dotato di conoscenza manuale e artigianale, che si oppone all'inconcludenza dell'impiegato e del burocrate, le altre figure allegoriche sempre presenti in questi romanzi. Il sarto è il depositario della sensibilità e del gusto.
Scrive Kurkov: "I sarti erano un gradino sopra i calzolai. Coi sarti si poteva bere il tè e parlare di politica, come era già successo due volte con quello del suo defunto padre. Non erano molti in città, pensò Samson strada facendo, e di sicuro si conoscevano tutti come e più dei calzolai, che a Kiev erano sicuramente più dei sarti, data la necessità spiccia dei loro servigi per tutti gli abitanti e non solo per chi aveva gusto e denaro". Dal sarto stavano andando Samson e suo padre, prima del fatale incontro con il cosacco e la sua sciabola, e il cappotto del padre di Samson ha un ruolo anche qui, come metafora dell'abito che rappresenta ciò che siamo, in quanto artefici della nostra piccola e ordinata realtà. L'orecchio di Kiev, come molti racconti russi ai quali si ispira, parla della tragedia di un uomo che diventa materia di riflessione sul disordine, l'anarchia, la violenza di un sistema che opprime Samson e i tanti individui onesti ma deboli come lui, ostinatamente attaccati al senso morale: se arrivano a sparare o a uccidere, lo fanno al buio, senza vedere e senza volere, per fatalità. Incoerente in questa storia si rivela l'apparato burocratico, tra protocolli, mandati, pratiche, timbri e sigilli, che resiste nei suoi assurdi rituali nonostante Kiev stia sprofondando nella confusione della guerra civile.
Qui Samson fa il suo apprendistato, tra le miserie e le manie che legittimano le meschine angherie del potere. Tra la gente comune, i piccoli popolani che fanno da contorno, spicca la vedova del custode del palazzo "che bussa educatamente alla porta", latrice di una lettera sotto forma di messaggio scritto a carboncino sul muro della facciata della casa in cui Samson abita e Nadezda, di cui forse lui si innamora. "L'orecchio reciso non aveva perso il suo straordinario dono: sentiva tutto distintamente e tutto trasmetteva all'orecchio interno": la metafora è una tentazione troppo forte per Kurkov ("Diverse le orecchie, diversi i silenzi") alle prese con un pastiche che rifà un intreccio ottocentesco, con indubbia abilità mimetica ma lontano dai vertici di Gogol e che finisce per depistare il lettore. Anton e Fedor faranno la fine degli shakespeariani Rosencrantz e Guildenstern, una frase dall'Amleto ce li ricorda: "Gli orecchi che dovevano ascoltarci / Non hanno più udito per sentire che i comandi / Sono stati eseguiti / e Rosencrantz e Guildenstern sono morti / Chi ci ringrazierà adesso?” (Atto V, scena 2). "Fine", scrive Kurkov nell'ultima pagina "...ma magari continuerà...".
Il libro esce in una collana Marsilio dedicata ai gialli, Kurkov lavora per la tv e ha firmato diverse sceneggiature: la letteratura di genere vuole il seguito, allude forse a questo la frase sibillina in ultima pagina, una serie Netflix non si nega a nessuno. La lettura di questo libro riporta alla mente la questione culturale attuale tra Russia e Ucraina, con la Russia intenzionata ad annettersi gli scrittori ucraini, con perfetta scelta imperialistica, in linea con l'invasione attuale di un paese al quale non si vuole riconoscere alcuna identità, non essendo altro – secondo Putin – che una regione qualsiasi della "grande Russia".
Gli scrittori classici nati in Ucraina (anche Cechov, di Taganrog, a metà tra l'Ucraina e la Russia, Grossman, la poetessa Anna Achmatova) scrivevano in russo ma non sembra una buona ragione per privarli d'ufficio delle loro origini. Il risvolto di copertina di L'orecchio di Kiev ci informa che, al contrario, Kurkov è russo, della regione di San Pietroburgo (che si chiamava Leningrado quando è nato, nel 1960) ma è sempre vissuto a Kiev. Anche lui scrive in russo ed è pubblicato in sessantacinque paesi.