Vegliare il tempo / Lune artificiali e gli insegnamenti della notte
Da bambini si ha terrore del buio; tra tutte le paure forse la più comune, certo la più istintiva e primordiale. Oggi è una paura più difficile da provare, tanto meno da vivere, confusa dentro una modernità che ci appare spesso sfavillante.
C’è peraltro qualcosa di innaturale nella moderna abitudine alla luce artificiale: occorre un evento imprevedibile come un’interruzione della rete elettrica per comprendere appieno questa assuefazione. Di colpo ci ritroviamo catapultati in una condizione dimenticata, da milioni di anni dalla nostra specie, da qualche anno o da qualche decina nella nostra vita personale.
Del resto, aver bucato l’oscurità è stata una delle rivoluzioni, forse la più importante, nella nostra evoluzione culturale, l’addomesticamento del fuoco nel mito di Prometeo è lì a ricordarlo in un racconto trasfigurato ma che un giorno fu storia, anzi preistoria, circa un milione e duecentomila anni fa, sembra.
Ce lo ricorda in alcune pagine Bruce Chatwin quando nel 1984, presso la grotta di Swartkrans in Sud Africa e affiancando per alcuni giorni gli scavi del paleontologo Bob Brain, è testimone della scoperta del primo focolare e con esso della “nascita” della possibilità di difesa dai grandi predatori notturni.
È in quei frangenti di una dimenticata preistoria che forse nasce il senso di un’azione e poi di un verbo che sarebbe stato il vegliare, o almeno quello della sua accezione più primitiva vale a dire vigilare, restare svegli ponendo attenzione all’ambiente, alla difesa.
Il fuoco (la luce) dunque e la possibilità per alcuni di vigilare la notte in difesa di tutti: questo ci sarebbe in quella prime veglie, in quell’azione e in quel senso così vicino alla sopravvivenza.
Oggi, aver reso la notte uguale al giorno è un segno comune della nostra modernità, ne è forse l’essenza più superficiale e immediata. Un processo relativamente recente che data XX secolo e che ha accelerato impetuosamente dagli anni Cinquanta-Sessanta in poi, sulle ali del boom economico. Prima, lungo la stagione della società contadina e delle sue relative sicurezze, il significato del vegliare lentamente cambia e passa dal vigilare all’accudire se stessi e gli altri, trattenendo insieme le prime ore della notte. Lentamente, questo cambiamento è anche un passaggio di civiltà, dall’eredità dei cacciatori raccoglitori alla relativa tranquillità della vita contadina. Non è più necessario vigilare le offese dell’ambiente quanto piuttosto accudire i propri cari mentre la notte ha inizio, quando la veglia chiude una giornata e contemporaneamente fa da viatico per quella successiva. Se vigilare era ancora sopravvivenza, vegliare è abbracciare gli altri quando le tenebre prendono il posto della luce, è cucire l’oggi con il domani.
Di quel verbo, dal suono dolce e dal significato così sfumato, si è quasi perso il senso...
Oggi, l’Italia insieme alla Corea del Sud sembra abbia il non invidiabile primato di essere in testa tra le nazioni con il maggior inquinamento luminoso.
Ma è ancora niente a confronto con quello che potrebbe accadere in un futuro molto prossimo alla città cinese di Chengdu (14 milioni di abitanti). Secondo l’autorevole Quotidiano del Popolo, giornale della Repubblica Popolare Cinese, sarebbe imminente il lancio (2020) di un satellite composto da specchi riflettenti in grado di rischiarare la città, capitale della provincia cinese del Sichuan.
Alla realizzazione completa del progetto, la "luna artificiale" sarebbe capace di illuminare una area compresa tra i 10 e gli 70 chilometri di diametro, con un margine di errore di poche decine di metri e una luminosità da sei a otto volte superiore a quella del modello naturale. L’idea non sarebbe nuova in assoluto; già negli anni 90 i russi perseguirono un progetto simile, iniziato e poi abortito, denominato Znamya.
Prima che una più o meno prossima “luna artificiale” diventi realtà, è certo che già oggi viviamo un elevato inquinamento luminoso; un inquinamento che appare sottovalutato quanto è elevato. Quest’ultimo è riconosciuto tale quando la Via Lattea e la volta stellare diventano invisibili, coperte da una diffusa luce bianca. In quei frangenti la notte si fa giorno, i bastoncelli (per la visione in luce notturna) resi quasi inutili, l’epifisi è alterata nella secrezione di serotonina e melatonina e nel suo ruolo regolatore causando inevitabili alterazioni dei ritmi circadiani naturali. Sì, perché l’evoluzione come gli adattamenti di una specie hanno tempi lunghissimi e le consuetudini di quest’ultima, verrebbe da dire le “tradizioni”, sono scritte nelle cellule prima che nella cultura. E così è per l’alternarsi tra notte e giorno e i conseguenti adattamenti: il tempo del sonno, il tempo dell’azione. Che sia la luce o un altro fattore, un’improvvisa “mutazione” dell’ambiente portata dalla civiltà non è mai neutrale, nel bene e nel male...
Così tra le conseguenze probabili dell’elevato inquinamento luminoso, ci sarebbero insonnia e depressione, disagi psicologici e persino danni biologici (obesità, diabete, finanche una possibile azione cancerogena, in particolare nei lavoratori notturni, secondo l’OMS). Così nelle moderne città trasformate in “fari abbaglianti”, nelle case e nelle abitudini continuamente illuminate dagli schermi “leddizzati”, l’inquinamento luminoso è diventato elemento inavvertito dell’ambiente, mentre il vegliare è diventato azione inutile, cianfrusaglia dimenticata, come dimenticato il significato del verbo che la descrive e inascoltato il suo suono.
Soprattutto, sono diverse le generazioni che non hanno conosciuto e non conosceranno del vegliare i suoi profondi insegnamenti, perché l’educazione alla notte, al suo timore, alla naturale sacralità del suo ritmo, alla lunga, è anche un’educazione alla vita.
Andare a veglia è stata, almeno nei paesi, usanza abituale da tempi immemori. Senza alcun invito a cena – oggi quasi una necessità per condividere parole e storie – ci si cercava per trascorrere insieme le prime ore della notte, in genere accanto a una stufa o un focolare.
Soprattutto d’inverno, soprattutto nelle lunghe notti prima del solstizio invernale, quando la luce diurna era un’attesa infinita, l’andare a veglia era qualcosa che rinsaldava i legami, che manteneva e sosteneva amicizie, parentele, affetti; andare a veglia era il viatico comune per il domani.
Si vegliava narrando e ascoltando; si vegliava condividendo il respiro come gli affetti mentre le storie diventavano l’invisibile collante tra le persone. Perché raccontare storie era intrattenere e confondere il tempo, era sussurrare, anche a chi solo ascoltava, “le mie parole sono le tue”…
Quelle parole condivise all’inizio della notte ora credo fossero un invisibile tessuto connettivo che univa le persone e le comunità aldilà delle affinità personali, aldilà delle somiglianze dei geni.
Di quelle antiche veglie la mia generazione ha intravisto il tramonto, come quando in montagna assistevo a quelle chiacchiere per me infinite e nell’andare a veglia, – e in quell’impalpabile legame che si creava – avvertivo confusamente qualcosa che avrei ritrovato solo da adulto in una frase di Wiesel o in un’osservazione di Levi Strauss circa una tradizione ebraica, quella per cui Dio avrebbe creato l’uomo solo perché potesse raccontare storie.
Erano quelle veglie e quelle storie, che, come favole per adulti, riuscivano in qualche modo a rischiarare la notte.
La luce della stufa arrivava dal basso disegnando ombre incerte sui muri. Le parole si confondevano al crepitare della fiamma e quel suono lento teneva a bada ansie e paure. Gli uomini stavano seduti intorno al fuoco, lo sguardo perso tra gli scarponi e noi guardavamo con occhi che solo adesso riesco a immaginare. In quella veglia c’era quello che eravamo e che saremmo stati. Accudivamo il tempo cercando di farcelo amico; intanto il tempo, lentamente, fuggiva da ogni fessura.