Lungo la Via Traiana
Anno 109 d.C., Calende di giugno
Il cavallo si impennò. Se Quinto Pompeo Falco[1] non fosse stato un cavallerizzo provetto, lo avrebbe di sicuro disarcionato.
«Buono, buono» gli mormorò accarezzandogli la folta criniera nera lucente.
Il magistrato era uscito in ricognizione lungo la strada, fortemente voluta dall’imperatore Traiano, che si stava costruendo per collegare Benevento a Brindisi con un tracciato perfettamente rettilineo in grado di dimezzare i tempi di percorrenza richiesti dalla Via Appia, più lunga e più tortuosa. Per ora ne erano state messe in cantiere due sole tratte, quella che da Benevento arrivava ai Monti della Daunia e quella che da lì si dipartiva per raggiungere Aecae[2]. Ma i lavori fervevano.
Quinto Pompeo era a Benevento da due sole settimane e già non vedeva l’ora di ritornarsene a Roma: la vita di provincia lo annoiava. Si era imbarcato a Miseno e il suo naviglio, solcato un breve tratto di mare, aveva imboccato il fiume Volturno alla sua foce, navigandolo poi controcorrente sino a poche miglia dal capoluogo sannita, dove, deviato per il suo affluente, il Calore, lo aveva finalmente raggiunto. Non era la prima volta che il vir praeclarus viaggiava lungo quella via fluviale. Gli era già occorso di percorrerla altre volte, quando si era recato in Dacia al seguito dell’imperatore e delle sue legioni – prima fra tutte la XXX Ulpia Victrix, la prediletta dall’Augusto – per coadiuvare la fabbricazione di un ponte militare sul Danubio[3], rivelatosi poi risolutivo per il buon esito di molte battaglie. Stavolta però l’incarico che gli era stato affidato era di maggiore responsabilità e di più alto prestigio: il Senato lo aveva infatti insignito del titolo di curator viae Traianae, con il compito di controllare che i lavori di realizzazione della strada e dei ponti che l’avrebbero corredata venissero eseguiti alla perfezione e, soprattutto, che procedessero spediti. L’imperatore aveva fretta, non avrebbe tollerato ritardi e men che meno imperfezioni. Per fare prima, aveva addirittura rinunciato ad avviare il lentissimo iter burocratico che gli avrebbe consentito di accedere ai finanziamenti pubblici, preferendo attingere le ingenti somme che l’opera avrebbe richiesto dai suoi forzieri personali.
Resosi conto che il suo cavallo era stanco e sudato, per farlo riposare Quinto Pompeo decise di concedersi una breve sosta. Scese di groppa e ne legò le briglie al ramo di un albero. Nel punto in cui si era fermato, si udiva un frastuono lontano, tipico di un’acqua impetuosa che scorre in un alveo roccioso. “Sarà il rombo del fiume Miscano” si disse, rassicurato dall’essere ormai prossimo alla meta del sopralluogo che doveva condurre quel giorno. “Mi hanno riferito che è piuttosto tumultuoso”.
Era proprio sulle rive di quel fiume, infatti, che aveva convegno con Sestilio Apicio, il magistratus aquarum che sovrintendeva ai lavori per l’edificazione del ponte che ne avrebbe scavalcato il letto. Quando il suo cavallo ebbe riacquistato un respiro regolare, Quinto Pompeo rimontò in groppa e si avviò in direzione del suono. Non dovette fare molta strada prima di raggiungere il cantiere. Due possenti plinti, ancora ingabbiati nelle impalcature lignee, immergevano le loro fondamenta nell’acqua del fiume per stagliarsi poi, alti, contro il cielo azzurro e terso di quella bella mattina di tarda primavera. Poco più oltre, genieri e carpentieri stavano mettendo in opera la centina destinata alla costruzione dell’unica, grande, arcata del ponte.
Rudere di un pilone del ponte romano che scavalcava il fiume Miscano con una sola arcata, denominato Ponte del Diavolo
Quinto Pompeo scese da cavallo e si deterse il sudore dalla fronte. Erano le Calende di giugno, il giorno in cui si offrivano le fave novelle agli dei e lui avrebbe pagato qualsiasi cifra per essere a Roma ad assaporare le proprie, che crescevano nel suo orto, accompagnate con del formaggio di pecora e innaffiate da un buon boccale di Falerno. In mancanza di ciò, si sfilò la borraccia da armacollo e bevve un lungo sorso d’acqua, poi se ne versò un poco nell’incavo delle mani, fece abbeverare il baio e finalmente si concentrò nell’esame del ponte. Ne restò deluso. I lavori erano decisamente indietro. Cercò il magistrato delle acque con lo sguardo, lo conosceva, avevano già lavorato insieme in Dacia, e quando lo ebbe individuato, lo raggiunse.
«Ave, Sestilio Apicio.»
«Ave, Quinto Pompeo Falco» gli rispose l’uomo levando in alto il braccio destro teso in segno di omaggio alla maggiore autorità del curator.
«Come mai i lavori vanno così a rilento?» gli domandò questi.
«Per Giove, il Miscano è un fiume davvero ribelle, neppure il Danubio mi ha dato così tanto filo da torcere» rispose Sestilio scuotendo il capo.
«Quanto tempo vi occorre per completare il ponte?» lo incalzò Quinto Pompeo.
«Se non incontriamo altri intoppi, potremmo averlo finito per le idi di luglio.»
«Optime» convenne il curator. «Dovete fare l’impossibile, il possibile non basta. Roma preme per una rapida conclusione di questa tratta. Per quella data è previsto il congiungimento con il cantiere aperto in Daunia. L’ho visionato ieri l’altro ed è a buon punto. Dobbiamo rispettare i tempi. Se necessario assumi nuovi manovali, te ne do licenza fin d’ora. Per qualunque richiesta, mi puoi sempre trovare nel mio tablino al Planum Curie. Ave atque vale!» Recuperò il baio, rimontò in groppa e ritornò sui suoi passi.
Quando raggiunse la località detta del Forum Novum[4], i morsi della fame avevano iniziato a farsi sentire. “È tempo di mettere qualcosa sotto i denti” pensò scendendo da cavallo. Lì nei pressi sorgeva l’attendamento riservato agli operai e ai carpentieri impegnati nel cantiere e il via vai era piuttosto frenetico. Affidò il suo baio a uno stalliere affinché lo accudisse e si avviò verso la tenda ampia e bassa, dotata di comignolo, che fungeva da mensa per la distribuzione dei pasti. Camminando, si ritrovò a passare davanti al cippo lapideo che era già stato innalzato a demarcare il Decimo Miglio della via Traiana a partire da Benevento. Un raggio di sole ne colpiva l’epigrafe, incisa sulla pietra nella bella capitale quadrata lapidaria:
X. M. IMP(ERATOR) CAESAR / DIVI NERVAE F(ILIUS) / NERVA TRAIANUS / AUG(USTUS) GERM(ANICUS) DACIC(US) / PONT(IFEX) MAX(IMUS), TR(IBUNICIA) POT(ESTATE) / XIII, IMP(ERATOR) VI, CO(N)S(UL) V / P(ATER) P(ATRIAE) / VIAM A BENEVENTO / BRUNDISIUM PECUN(IA) /SUA FECIT. [5]
Epigrafe della Via Traiana, conservata nel Lapidarium del Teatro romano di Benevento, Ph. MLG
Letta l’ultima frase, Quinto Pompeo non riuscì a trattenere un sorriso. L’imperatore doveva tenerci moltissimo a far sapere al mondo e ai posteri di avere pagato di tasca propria quell’opera monumentale e costosissima. Ammirato, si voltò indietro ad osservare il tratto di strada appena percorso e dovette convenire che era stata eseguita a regola d’arte. La carreggiata era ampia quanto bastava a consentire il passaggio contemporaneo di due carri. La fiancheggiavano due larghi canali di scolo, uno per lato, formati da file di pietre tagliate a prisma e delimitati, all’esterno, da due marciapiedi, larghi ciascuno due braccia o poco più. Le basole, perfettamente planari, ben accostate e disposte a schiena d’asino, rilucevano ai raggi del sole ormai allo zenit. L’aria era immobile e il caldo aveva iniziato a farsi sentire. Raggiunta la grande tenda, il curator entrò e si fece subito servire un boccale di Aleatico della Daunia, il vino che preferiva tra quelli prodotti in loco; a scrivere il rapporto giornaliero da inviare a Roma avrebbe provveduto poi, dopo essersi ben rifocillato.
Anno Domini, 1118, il dì 23 del mese di agosto
Oderisio[6], il più rinomato scultore del Sannio, era partito da Benevento alle prime luci dell’alba, diretto a Troia, l’antica Aecae, sita al XXXIII Miglio della Via Traiana. Il vescovo Guglielmo[7], presule di quella cittadina, lo aveva convocato per commissionargli le porte bronzee dell’erigenda cattedrale. Poiché la strada era infestata dai banditi, per sicurezza, l’artista aveva preferito aggregarsi a una carovana di mercanti diretti a Brindisi. Se, da un lato, poteva beneficiare della protezione delle loro scorte armate, dall’altro era costretto ad adeguare il passo del suo cavallo a quello lento dei loro carri e anche a tollerare le loro frequenti soste, dettate dalle più imprevedibili necessità dei numerosi ed eterogenei membri che la componevano. Se fosse arrivato in ritardo sul giorno della convocazione non se lo sarebbe mai perdonato. Detestava farsi aspettare. Tuttavia non poté opporsi quando il capo-carovana diede di nuovo l’alt.
La Firma di Oderisio da Benevento sulla porta ovest del Duomo di Troia, Ph. MLG
Al limitare del pianoro, assolato e desolato, su cui si erano fermati, il fiume Miscano scorreva talmente veemente da tuonare quando si scontrava contro i possenti piloni del ponte che ne contenevano l’impeto a stento, per poi sollevarsi in creste altissime che andavano a ricadere in mille bioccoli bianchi di spuma sulla carreggiata della strada che lo attraversava. Tutt’intorno non vi era traccia di vegetazione, se non per i radi cespugli di ginestra, flagellati da un vento insistente e la vista poteva spaziare indisturbata fino ai lontani Monti della Daunia. Non vi era nemmeno segno di anima viva per molte miglia all’intorno. Il luogo era troppo impervio per essere abitato e pareva dominato dal soprannaturale. Se si escludeva il sinistro mugghiare del fiume, lo pervadeva il silenzio più assoluto che lo faceva apparire ancora più spettrale. A Oderisio venne subito in mente la fosca leggenda che circolava sull’origine del ponte. Si narrava che a costruirlo fosse stato il Diavolo in persona, per questo era stato denominato Ponte del Diavolo e, sebbene fosse l’unico ponte della zona, nessuno che non fosse straniero ardiva percorrerlo. La gente del posto che doveva recarsi sull’altra sponda preferiva guadare il fiume, sfidandone l’impetuosità, piuttosto che attraversarlo. Si raccontava di come il Diavolo lo avesse eretto in una sola notte, una notte di plenilunio, con l’ululato dei lupi a fare da sottofondo alla posa in opera di ciascuna pietra, emersa dal letto del fiume già bell’e tagliata e levigata. Si diceva anche che il grande fornice che lo contraddistingueva altro non fosse se non la misura dell’immensa semicirconferenza del cranio del suo costruttore, da questi utilizzato come dima per la centina dell’arco.
Oderisio da Benevento, la porta Major del Duomo di Troia, 1119, Ph. MLG
“Sono tutte superstizioni” pensò Oderisio, infastidito. “Solo gli ignoranti vedono lo zampino del demonio in qualunque cosa non comprendano d’acchito. Non sanno che questo ponte lo ha fatto costruire l’imperatore Traiano, insieme alla strada che stiamo percorrendo. Se leggessero l’epigrafe murata alla base di uno dei pilastri ne avrebbero la conferma. Il fatto è che molti di loro non sanno leggere, così sono facile preda della superstizione.” Si girò verso il ponte, cercò la stele con lo sguardo e quando l’ebbe individuata, le si avvicinò. Sebbene compromesso dalle intemperie, il testo era ancora leggibile e appariva del tutto simile a quello impresso sui cippi della via Traiana; l’unica differenza era che qui non compariva l’indicazione del miliario ma c’era la parola “ponti”[8]: “Quest’iscrizione è un autentico marchio di fabbrica” pensò Oderisio prima di ricongiungersi agli altri.
Poiché il luogo in cui si erano fermati era brullo e desolato, e non offriva protezioni dai raggi del sole, molti mercanti si stavano riparando la testa con copricapi improvvisati; altri, invece, se la rinfrescavano rovesciandovi sopra l’acqua delle borracce ma tutti indistintamente tenevano gli occhi fissi sul paesaggio circostante, come se temessero di vedervisi materializzare da un momento all’altro una qualche presenza arcana. Oderisio avrebbe voluto spiegare loro che le uniche armi per vincere la paura generata dalla superstizione erano l’esercizio della ragione e la conoscenza ma giudicò che non fosse il momento adatto: quegli uomini erano troppo terrorizzati per prestare orecchio a qualunque sermoncino. D’un tratto, gli venne l’idea di sfruttare a proprio vantaggio la loro capacità visionaria, così gli si avvicinò e li interrogò chiedendo a ciascuno di essi di raccontargli quale forma avesse assunto la sua paura.
Qualcuno gli narrò di grifoni alati, qualcun altro di draghi caudati che sputavano fuoco dalle fauci, chi gli descrisse mostri terrifici che emergevano dai flutti, chi invece gli parlò di aquile a due teste con zoccoli di cavallo, ci fu persino uno che, avendo viaggiato in Africa, gli raccontò di una sfinge con il corpo di leone. Mentre li ascoltava, Oderisio prendeva velocemente appunti sul suo taccuino trasformando in disegni le loro parole. Ne risultò un bestiario fantastico dal quale avrebbe tratto ispirazione per la figurazione delle porte bronzee che gli erano state commissionate.
Quando i mercanti interrogati ebbero modo di vedere la traduzione in immagini delle loro paure, come per incanto le superarono, così come accade alla paura del buio che svanisce al solo accendersi di una luce.
P.S. “Factor portarum fuit Oderisius beneventanus”, recita la scritta incisa dall’artista medesimo sulla porta ovest della Cattedrale di Troia, che reca la data 1127. Sulla Porta Maggiore, detta anche della Prosperità e datata 1119, compaiono invece figurazioni mostruose, due draghi caudati, teste di grifi e di leoni che, insieme ai cippi miliari della Via Traiana, hanno ispirato questi due brevi racconti.
[1] Quinto Pompeo Falco è menzionato come curator viae Traianae in CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum), X, 6321 e III, 12117; CIL, VI, 3844.
[2] La moderna Troia.
[3] Progettato da Apollodoro di Damasco, quello di Drobeta era un ponte fortificato costruito sul basso corso del Danubio fra il 103 e il 105 d.C. Per più di mille anni fu il ponte più lungo ad arcate mai costruito al mondo, sia in termini di lunghezza totale che di larghezza delle campate.
[4] Attuale Buonalbergo.
[5] DECIMO MIGLIO. L’IMPERATORE CESARE NERVA TRAIANO AUGUSTO GERMANICO DACICO, FIGLIO DEL DIVO NERVA, PONTEFICE MASSIMO, MENTRE RIVESTIVA I POTERI TRIBUNIZI PER LA TREDICESIMA VOLTA, ACCLAMATO IMPERATORE PER LA SESTA VOLTA, CONSOLE PER LA QUINTA VOLTA, PADRE DELLA PATRIA, FECE COSTRUIRE LA STRADA DA BENEVENTO A BRINDISI A PROPRIE SPESE.
[6] Oderisio da Benevento fu il più grande scultore medievale d’area sannita. Sebbene la sua biografia ci sia ignota, di sua mano ci sono pervenute integre le due porte bronzee del Duomo di Troia. Di un’altra porta bronzea, da lui eseguita per la basilica beneventana di San Bartolomeo e andata distrutta nel terremoto del 1688, sopravvivono solo alcuni brani del portale marmoreo (Museo del Sannio). Nulla resta invece della porta che realizzò nel 1112 per la chiesa di San Giovanni Battista delle Monache in Capua, della quale si ha però notizia dai documenti.
[7] Fu il principale patrocinante della costruzione della cattedrale di Troia, il cui nome è ricordato sulle sua porta Major.
[8] Imp(erator) Caesar / Divi Nervae f(ilius) / Nerva Traianus / Aug(ustus) Germ(anicus) Dacic(us), / pont(ifex) max(imus), tr(ibunicia) pot(estate) / XIII, imp(erator) VI, co(n)s(ul) V, p(ater) p(atriae), / viam et pontes / a Benevento Brundisium / pecunia sua fecit.