L’università e il lavoro in tenda
Sono giorni di campeggi e lotta di fronte alle sedi di alcune università italiane. Tutto è cominciato con un’iniziativa di Ilaria Ramera, studentessa di ingegneria ambientale al Politecnico di Milano. Il 2 maggio Ilaria ha montato una tenda a piazza Leonardo Da Vinci e ha deciso di accamparsi lì, a pochi passi dalla sede del suo corso di laurea. All’ingresso della sua temporanea dimora ha posto un cartello: “Basta affitti insostenibili”. Il gesto – pianificato, simbolico, dimostrativo, per sua stessa ammissione – non è rimasto isolato. Nel giro di pochi giorni, la protesta è diventata virale e ha contagiato altre città italiane. Partendo da Roma, Cagliari e Padova, le manifestazioni si sono spostate anche a Perugia, Bologna, Napoli, Pavia, Torino. Dalle loro estemporanee tendopoli, le studentesse e gli studenti hanno deciso di lanciare alcuni messaggi chiari: chi è costretto a prender casa non può affrontare spese esorbitanti; l’università deve essere un diritto e non un privilegio.
Il grido di allarme sembra più che legittimo, alla luce dei dati disponibili. In Italia solo il 3% della popolazione studentesca vive all’interno di studentati pubblici, a confronto di una media europea del 18%. Gli alloggi disponibili sono circa 50.000 (un quarto di quelli tedeschi, solo per avere qualche termine di paragone), e sono pochissimi se solo si pensa che il numero complessivo dei fuorisede si aggira intorno alle 800.000 unità. Non è più agevole la condizione dei pendolari, che trascorrono dalle 2 alle 4 ore al giorno sui mezzi di trasporto per prendere parte alle lezioni, scegliendo talvolta di rinunciare ai seminari tardo-pomeridiani e alle attività extracurricolari per poter tornare a casa con le ultime corse di autobus o treni. Approfittando di questa situazione e dei cambiamenti imposti dall’epidemia di Covid-19, gli atenei telematici hanno visto crescere il loro giro di affari, con un’impennata di iscritti che ha raggiunto il 150%. Il rischio concreto è che le università tradizionali diventino circoli esclusivi per gli eredi delle élites, costringendo le persone meno facoltose a trovare rifugio in percorsi di formazione alternativi, compatibili con le loro possibilità economiche.
La crisi è ben visibile in tutti i centri urbani che ospitano grandi istituzioni accademiche, ed è inscindibile dall’esplosione del mercato immobiliare che ha fatto decollare i prezzi. Non è un caso che l’Unione degli Inquilini e i movimenti per il diritto all’abitare abbiano offerto il loro appoggio alla protesta delle tende. Più che significativo il caso di Napoli, dove gli appartamenti del centro storico sono ormai riservati ai soli turisti, lasciando in gravi difficoltà chi ha bisogno di una residenza stanziale. Mercoledì 10 maggio si è tenuta un’assemblea che ha radunato i militanti di diverse organizzazioni (fra le quali “Rete Set”, “Rete dei Beni Comuni”, “Mi Riconosci”, “Legambiente Parco Letterario Vesuvio”, “Asia USB”) con l’obiettivo comune di capire come affrontare l’emergenza in una città che ormai si è trasformata in un parco a tema a uso e consumo dei visitatori. Gli atenei locali soffrono di una cronica mancanza di alloggi, mense, aule, spazi condivisi. Cercano di rimediare, ormai da decenni, con soluzioni provvisorie: stipulano convenzioni con alberghi, ristoranti e vecchie sale cinematografiche, facendo in modo che il corpo studentesco possa trovare in quei luoghi la possibilità di dormire, mangiare o far lezione.
Proprio il ricorso agli operatori privati merita una riflessione approfondita, essendo diventato una consuetudine in varie realtà della penisola. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla proliferazione di strutture mastodontiche denominate “Student Hotels”, ovvero residenze di lusso gestite da multinazionali che sfruttano finanziamenti, incentivi e licenze pubbliche, per poi mettere le loro camere sul mercato a prezzi altissimi. Una delle più recenti è stata inaugurata lo scorso autunno nella periferia nord di Bologna, in un’area (via Serlio) inizialmente dedicata all’edilizia convenzionata. Si sviluppa su 16 piani, e offre sul suo sito ufficiale “uno spazio sicuro per crescere, sbocciare e scoprire se stessi”, al modico prezzo di 899 euro al mese. Stando alle posizioni espresse da molte testate nazionali, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza contiene le soluzioni per porre rimedio a questa situazione. Tuttavia basta una lettura meno superficiale del documento per rendersi conto di quanto sia controverso il progetto da realizzare. I 660 milioni di euro stanziati per la creazione di 47.500 posti letto saranno gestiti – in larga parte – da operatori privati, chiamati a rispettare regole molto generiche sulla percentuale di spazi da riservare agli studenti privi di mezzi. Le stesse forze di opposizione sfidano oggi il governo ad applicare il PNRR in maniera acritica, senza mettere in discussione l’ideologia che lo ha ispirato, finalizzata ad affidare a consorzi imprenditoriali un controllo pressoché completo delle nuove residenze.
Un’inchiesta recente di Radio Popolare ha richiamato l’attenzione sul gruppo Coima, che a Milano gestisce progetti per 9 miliardi di euro. Le società legate a questo fondo di investimento stanno ora concentrando i loro sforzi sull’ex Scalo ferroviario di Porta Romana, dove sono già iniziati i lavori per il Villaggio olimpico del 2026, pronto a trasformarsi in uno studentato da 1.700 posti dopo la fine della rassegna a cinque cerchi. Coima ha proposto agli atenei milanesi di sottoscrivere quote partecipative da 100.000 euro in cambio della priorità nell’assegnazione dei posti. L’accordo prevede garanzie che hanno il sapore di una beffa per i meno abbienti: i nuovi alloggi saranno messi a disposizione dell’utenza a prezzi di mercato, fatta eccezione per una quota ristretta – il 10% – che sarà data in affitto a tariffe calmierate. In buona sostanza, Coima si propone di finalizzare un’operazione simile a quella di Campus X, che ha ottenuto 18 milioni di euro di fondi pubblici per la realizzazione in città di 580 posti letto, chiedendo poi ai “clienti” 455 euro mensili per un posto in doppia e 767 euro per una singola. L’obiettivo complessivo appare quindi chiaro: conquistare una posizione preminente in questo giro di affari con la benedizione e l’aiuto delle istituzioni.
In questa triste vicenda si palesano tutti i limiti di una politica che per decenni non ha coltivato alcuna idea di futuro. Abbiamo alimentato un circolo vizioso senza fine, con conseguenze evidenti che vanno ben oltre il contesto dell’istruzione e toccano anche il famigerato “mondo del lavoro”, popolato da centinaia di migliaia di persone fuorisede, che hanno un impiego e uno stipendio, e ciò nonostante sono spinte ai margini, messe con le spalle al muro. La ragione è semplice: non riescono a pagarsi una casa dignitosa. Con l’obbligo imposto agli “occupabili” di accettare offerte su tutto il territorio nazionale – lo hanno fatto notare di recente i lettori del “Manifesto”, nelle loro lettere al giornale – la crisi abitativa dei grandi centri urbani potrebbe assumere contorni ancora più allarmanti. Siamo ormai assuefatti alle retoriche sulla scarsa voglia di lavorare dei giovani, sul presunto carattere diseducativo dei sussidi, sulle disperate ricerche di personale da parte di piccoli e grandi imprenditori. Ma ci siamo mai chiesti cosa significhi lavorare senza potersi permettere di avere un tetto sulla testa? Ci siamo mai chiesti cosa significhi guadagnare 1300 euro al mese e dover spendere 800/900 euro di affitto per un monolocale? Ci siamo mai chiesti cosa significhi per una persona adulta guadagnare 1300 euro al mese e, in alternativa, spendere 500/600 euro per una stanza in un appartamento condiviso con altri?
Quasi indifferenti a queste vorticose trasformazioni, proseguono le attività didattiche nei corsi di laurea. Gli atenei tradizionali hanno deciso di ripristinare le lezioni in presenza (con qualche rara eccezione) dopo la fine dell’epidemia di Covid-19. La scelta è stata dettata dall’esigenza di tornare alla “normalità”, ma non si è dovuto attendere molto per comprendere che proprio la normalità era il problema. Le città universitarie – soprattutto quelle più grandi e ambite – continuano infatti a essere gabbie di privilegio, e sono state addirittura interessate da un aumento dei costi. Il corpo studentesco è sempre più consapevole del fatto che la partecipazione attiva alla vita accademica (in tutti i suoi aspetti, ben oltre le lezioni ordinarie) è riservata solo a poche persone benestanti. Moltissimi si sottopongono a un estenuante pendolarismo. Altri sono costretti a usare l’ateneo come un esamificio: svolgono lavori usuranti e malpagati per sopravvivere, non hanno la possibilità di frequentare corsi, non incontrano mai di persona un docente prima dell’esame, approfittano della generosità dei colleghi più fortunati per raccogliere appunti e suggerimenti, leggono solo i libri di testo prima di sottoporsi ai giudizi dei titolari delle cattedre.
Abbiamo esperienze più che sufficienti per poter dire che la didattica universitaria italiana rimane essenzialmente trasmissiva e ratificatoria (fatta eccezione per pochi esperimenti di tipo seminariale, concentrati in corsi di laurea non affollati). Si limita a erogare delle conoscenze, quasi come se fossero beni di consumo, per poi avviare una fase di giudizio, basata sulla scelta fra i “bravi” e gli “incapaci”, fra i preparati e gli impreparati. Si potrebbe pensare che il tutto derivi da una giusta competizione, che alla fine prevalga il “merito”, o che sia naturale la distanza fra vincenti e perdenti. Ma si commetterebbe un errore macroscopico, per una ragione semplice: i risultati accademici sono, in massima parte, la convalida di una selezione che si è già consumata altrove, in altri contesti sociali. Fra i figli di genitori con licenza media, solo il 12% riesce ad arrivare alla laurea. Le studentesse e gli studenti che riescono a conseguire risultati di rilievo, in larghissima parte, hanno già frequentato durante l’adolescenza i migliori licei dei grandi centri urbani. Hanno già avuto modo di trascorrere periodi di studio all’estero, seguendo corsi di lingua, leggendo libri costosi, ascoltando concerti, visitando musei e sale cinematografiche, godendo di molteplici stimoli culturali. I docenti sono solo chiamati a trasformare le prestazioni in numeri, voti, quantificando i processi di apprendimento degli “utenti” senza conoscere i loro punti di partenza, il loro retroterra culturale, i loro bisogni, le paure, le aspettative, le aspirazioni.
La mancanza di alloggi, affiancata alla carenza (a sua volta gravissima) di borse di studio, ha un effetto tanto concreto quanto spaventoso: produce un ulteriore allargamento delle ingiustizie, esacerbando le chiusure e il classismo dell’intero sistema. Una via d’uscita da questa spirale perversa può essere intrapresa solo con un radicale cambiamento di paradigma. È necessario creare le condizioni materiali che permettano di far diventare la didattica “in presenza” una pratica virtuosa e democratica, accessibile a persone di diversa estrazione, capace di creare opportunità e di rompere le barriere sociali. È necessario avere studentesse e studenti che vivano dentro l’università e contribuiscano a cambiarla, assumendo un ruolo centrale nel processo educativo, condividendo le loro idee e la loro creatività. È necessario riconoscere che la vera “eccellenza” risiede soprattutto nella capacità di far incontrare diverse sfere individuali, di promuovere la ricerca come attività fondata sul dialogo, e di costruire comunità investiganti.