Majakovskij. Una vita in gioco 

6 Gennaio 2023

Ci sono certe vite che devono bruciare in un tempo veloce perché non possono tollerare un tempo diverso dalla propria avventura eroica e breve. I trentasette, tumultuosi anni della vita di Majakovskij lo testimoniano. La potente e appassionata biografia, firmata da Bengt Jangfeldt, Majakovskij. Una vita in gioco (Neri Pozza, I Colibrì 2022), lo evidenzia, scaraventandoci nel cuore di questo parossismo frenetico. «Il futurismo ebbe un impatto enorme in Russia, dove il suo sviluppo più interessante si manifestò in ambito letterario. Uno dei partecipanti a questo movimento fu Vladimir Majakovskij, che all’epoca dell’incontro con Lili e Osip Brik aveva solo ventidue anni ma, nonostante la giovane età, era una delle figure principali del futurismo. Secondo la sagace definizione di Pasternak, egli “fin dall’infanzia fu la creatura viziata di un futuro che gli si arrese piuttosto presto e apparentemente senza grande sforzo”. Quando, due anni più tardi, quel futuro si presentò, si chiamava rivoluzione russa» (MVG, p. 12). Vladimir la visse come si vive il rapporto furioso con un’amante, rapporto che fin dall’inizio non è destinato a durare perché al preludio impetuoso segue inevitabilmente un finale smorto.

Quel finale Majakovskij non lo accettò mai e, piuttosto che adeguarsi, preferì giocare l’ultima carta, quella dell’azzardo assoluto, e con un suicidio clamoroso, all’apice della sua fama, decretò la sconfitta del binomio “vita-rivoluzione” che per lui aveva smesso da tempo di esistere. Scrive Boris Pasternak, all’indomani della sua morte: «Giaceva su un fianco, la testa verso la parete, tetro, il lenzuolo fino al mento, la bocca semiaperta, come uno che dorme… Aveva l’espressione con cui si comincia a vivere, non si finisce» (DP, p.1).

Fin dalle prime pagine della biografia di Jangfeldt emerge la figura di un uomo gigantesco, fragile, smisurato, potente, tetro, brusco, inquieto, ipocondriaco, incapace di contenere l’eccesso di vita che lo domina, vittima di compulsioni ossessive, giocatore d’azzardo, boxeur, attore: un uomo a piena voce, re del suo destino, il primo di quei “giganteschi pagliacci del mondo solare”, così come Chlebnikov definisce i cubofuturisti. Attraverso le parole di Jangfeldt vediamo Majakovskij – adolescente, innamorato, potente, provocatorio – dominare il suo tempo con impetuosa, irrefrenabile giovinezza: «Non c’è mai nel mio animo un solo capello canuto, / e nemmeno senile tenerezza! / Intronando l’universo con la possanza della mia voce, / cammino – bello, / ventiduenne (MP, p.79). In pochi anni, poema dopo poema, lettura dopo lettura, lo osserviamo trasformarsi da eroe felice e acclamato della rivoluzione a creatura aliena e nuda, estranea alla nuova società in cui è costretto a rispecchiarsi: «Compagna vita, / orsù / percorriamo più in fretta / nel piano quinquennale / i giorni che ci restano. / A me // nemmeno un rublo / i versi hanno messo da parte, / gli ebanisti non mi hanno ammobiliato la casa. / E tranne una camicia lavata di fresco, / dirò in coscienza / che non mi occorre nulla» (MP, p. 367).

Angelo Maria Ripellino lo descrive così, nelle sue prime apparizioni pubbliche: «Majakovskij indossò per molti anni una blusa di fustagno giallo-arancione dalle larghe strisce nere, simile insieme a una giubba da fantino e al camiciotto degli operai parigini nel periodo del naturalismo. Il suo colore ricordava le gialle azalee che splendevano al sole sui monti di Bagdadi e le tende, le stoffe, gli abiti georgiani» (MT. p.21). In A piena voce scrive: «Il mio verso giungerà / superando i crinali dei secoli / e superando le teste / di poeti e governi». L’opera più celebre del poeta, La nuvola in calzoni, ci ricorda l’identità sfuggente e beffarda di una nuvola che il poeta calza con i suoi stivali dalle sette leghe, vivendosi personaggio fiabesco e immortale. Fu proprio per mantenere la sua immortalità che Majakovskij perse la vita e sigillò la propria scomparsa nel mistero della morte volontaria. (D’altronde in molti intuivano, anche dalle dichiarazioni del poeta, che il geniale e rivoluzionario Volodja sarebbe stato un “predestinato al suicidio”).

Se vogliamo seguire scrupolosamente il suo destino possiamo farlo ora, leggendo questo libro come la parabola di un film esemplare, marcato dall’ascesa e dalla morte dell’eroe. «Per Majakovskij il futurismo non era una scuola di poesia ma un modo di rapportarsi alla vita e all’arte. I futuristi si erano sempre opposti al conservatorismo e alla rigidità. La lotta per il nuovo contro il vecchio era parte integrante della vita e dell’opera di Majakovskij. In uno degli ultimi numeri dell’iskusstvo kommuny Nikolai Punin scrisse che era la rivoluzione a essere cara ai cuori dei futuristi, “la rivoluzione in sé” sottolineò “e non l’attuale società”» (MVG, p. 175). Vladimir è l’interprete massimo di questa spinta al nuovo: oratore dei suoi poemi, artista acclamato dalle folle, percorre turbinosamente il teatro della scena rivoluzionaria. Scrisse anche pièce teatrali, come La cimice e Il bagno, beffarde, grottesche, inconciliate. Il giovane ostinato che irride le convenzioni comuni (“lo schiaffo al gusto del pubblico”), il potente attore-poeta che non si piega ai compromessi della meschina “esistenza”, del deprecabile byt, e percorre la Russia da sfrontato eroe di un nuovo linguaggio, è l’uomo-poeta Vladimir, così come, nei lampi della sua prosa ellittica, lo intravide il coetaneo Viktor Sklovskij: «Non vedeva la luna come una splendente via adagiata sul mare, vedeva l’aringa lunare e pensava che sarebbe stato bello accompagnarla con un pezzo di pane. I versi già vivevano in lui, non scritti.

Vedeva la lettera O e la S francese che saltellavano sui tetti e annusavano le ore: vedeva le insegne, leggeva quei libri su ferro e ammirava le teiere di porcellana e i panini, che balenavano nelle vetrine chiuse delle trattorie» (MF. p. 29). Per Majakovskij il poeta è una creatura che vive solo in attesa del suo “stato poetico”: «Una rima che stai per afferrare, ma non hai ancora afferrato, per la coda ti avvelena l’esistenza: parli senza sapere quello che dici, mangi senza sapere quello che mangi e non dormi perché la rima sembra volteggiarti dinanzi agli occhi» (PR, p. 117). Come scrive Lili Brik: «È risaputo che Majakovskij lavorava senza interruzioni. Persino in presenza di estranei, per la strada, al ristorante, quando giocava a carte o al biliardo, continuava a lavorare. Eppure amava molto il silenzio. Solo che poté goderne di rado.

A Levasovo, per esempio, e in seguito a Puskino, dove per ore e ore vagava nel bosco. In quei luoghi lavorava meglio, si stancava meno che in mezzo ai “rumori e rumoroni” della città» (CM, p. 51), L’amore costante per Lili Brik, gli innamoramenti furiosi per Veronika Polonskaja e Tatjana Jakovleva, furono per lui cause, certamente, di scompensi e di rabbie personali ma non determinarono la sua fine, non furono la “causa” emotiva dell’effetto “suicidio”: un uomo come Majakovskij non sarebbe morto per l’una o per l’altra donna ma per l’amore deluso di una rivolta assoluta che gli era disperatamente sfuggita di mano, di un’utopia fallita, evaporata in prassi politica.

Il suo suicidio, al contrario di quello decadente-romantico di Esenin, fu fin dall’inizio un enigma che nessuno avrebbe potuto esaurire con una risposta risolutiva. «Quello che andò più a fondo della questione fu Roman Jacobson, talmente scosso dal suicidio di Majakovskij da chiudersi nella sua stanza a Praga per mettere ordine nei pensieri sull’amico morto. Il risultato fu il lungo saggio Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, scritto tra maggio e giugno 1930. La generazione in questione era la sua e quella di Majakovskij, la generazione di quelli che in quel momento, nel 1930, avevano fra i trenta e i quarantacinque anni, e che “sono entrati negli anni della rivoluzione già fatti, non più come argilla informe, ma ancora non cristallizzati, ancora capaci di sentire e trasformarsi, ancora capaci di capire la realtà circostante non nella sua statica, ma nel divenire”. Era una generazione che, come quella dei romantici del XIX secolo, si era bruciata – o era stata bruciata – anzitempo» (MVG, p. 583).

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Vladimir era un rivoluzionario complesso e inquieto, innamorato della magia di una vita trionfante e dal potere incommensurabile delle parole. Non sorprende, quindi, il suo incredibile amore per l’arte di Čechov, così testimoniato: «... ma io parlo di un altro Čechov. L’Anton Pavlovič Čechov di cui parlo è uno scrittore! […] Čechov, per primo ha compreso che lo scrittore si limita a plasmare con maestria il vaso, ma poco gli interessa se dentro versino vino o risciacquatura. Non ci sono idee, soggetti. Ogni fatto anonimo può essere avviluppato nella rete meravigliosa delle parole. Dopo Čechov lo scrittore ha il diritto di affermare: non ci sono temi. Non l’idea genera la parola, ma la parola l’idea. […] Tutte le opere di Čechov sono la soluzione di problemi puramente verbali. Le sue affermazioni non sono verità desunte dalla vita, ma conclusioni imposte dalla logica della parola. La vita traspare di necessità solo dai vetri colorati delle parole […] È strano, ma lo scrittore, in apparenza più legato alla vita, è stato di fatto uno di quelli che più si sono battuti per emancipare la parola, per rimuoverla dal punto morto del descrittivismo. […] Queste nuove forme di espressione del pensiero, questa giusta posizione verso i problemi reali dell’arte danno il diritto di parlare di Čechov come di un maestro della parola…» (PR, pp. 63-73).

Ma, più che dalla parola necessaria, generatrice di idee, scoccata come freccia nelle nebbie del tempo rivoluzionario, Majakovskji era attratto dalla propria fine volontaria. «La tendenza al suicidio è l’oscura tensione che si sottende alla vita di Majakovskij e il leitmotiv dei suoi scritti, dal primo all’ultimo verso. La tragedia Vladimir Majakovskji, la poesia La svendita (“tra molti, molti anni, / in breve, quando più non sarò, / morto di fame o di un colpo di pistola, /il me di oggi fulvo, / i professori studieranno fino all’ultimo iota, / il mio dove, il quando, il come” (Il flauto di vertebre).

Sempre più spesso penso / se non sarebbe meglio mettere / il punto di un proiettile alla mia fine” (MVG, pp. 384-385). Non sorprende l’analogia fra proiettile come fine della vita terrena e come punto conclusivo di una frase scritta, alla fine di un discorso in cui sentiva di avere già detto tutto, pubblicamente e intimamente, con la sua maschera di poeta. «La “maschera” di Majakovskij: alterigia, sprezzo, distacco, modi imperiosi. Il tono della voce, le pose da monumento, lo sguardo dall’alto in basso: né poteva essere altrimenti, quando era in piedi. E in quel corpo da gigante, “grosso e inutile, partorito da chissà quali Golia in una fredda notte di delirio”, l’anima di un adolescente. Un ragazzo difficile, affamato di carezze e di lodi, vulnerabile come una mimosa pudica» (DP, p. 90).

Jangfeldt accenna, nelle pagine conclusive del suo libro, alla canonizzazione del poeta e al suo rapporto con Puskin. «Majakovskij ama Puskin “da vivo, non da mummia”, in quanto poeta che, come lui, ha vissuto una vita tempestosa prima che gli mettessero addosso il “lucido delle crestomazie”» (MVG, p. 312). Il tempo dei monumenti, delle “mummie” puskiniane, è davvero estraneo alla vitalità che trascina la sua poesia dall’inizio alla fine («Odio /ogni tipo di carne morta! / Adoro / ogni tipo di vita!», ibidem, p. 312)

Leggere Majakovskij, ripercorrerne la storia grazie anche a questa biografia, è sottrarsi alle distorsioni e alle contraddizioni della storia russa: è scoprire un poeta inflessibile, fragoroso, battagliero che, lontano dalle intimità di Achmatova, dagli enigmi di Pasternak, dalla tragicità di Mandel’stam, ci restituisce la musica del suo tempo con l’allegra infelicità di una giovinezza disgustata dalla condizione adulta. Non è solo un caso che la sua voce, nata come iperbolico bisogno di trasformare il mondo, si ritrovi a diventare sberleffo di una “classe morta”, la classe politica che aveva ingoiato le utopie della rivoluzione e della poesia in un nuovo apparato repressivo. «Le parole vengono a noia». Oppure si ottundono come coltelli.

Oppure diventano sacre» (TE, p. 117), scrive Sklovskij. Se è vera per Velemir Chlebnikov, il mitico poeta adorato dai poeti russi, la terza via, per Majakovskij è vera la seconda. Le sue parole, che prima tagliavano, ferivano, graffiavano, con il passare del tempo, per lui troppo vivo, diventano ottuse e inservibili, come accade per ogni vera avanguardia. E Vladimir decide di lasciare la scena senza girarsi indietro, con queste esatte parole: «A tutti. Non incolpate nessuno della mia morte e, per piacere, non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava. Mamma, sorelle e compagni, perdonatemi – non è questo il modo (non lo consiglio ad altri) ma non ho vie d’uscita. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se per loro organizzerai una vita tollerabile – grazie. Le poesie già iniziate datele ai Brik, ci penseranno loro. Come si dice – l’incidente è chiuso, / la barca dell’amore si è sfasciata / contro l’esistenza quotidiana. / Io e la vita siamo pari / e a nulla serve l’elenco / dei reciproci dolori, / disastri / offese. / Buona permanenza al mondo. / Vladimir Majakovski / 12/4/1930» (DP, 103-104).

A noi che lo studiamo e lo leggiamo ancora, resta il compito, quasi un secolo dopo, di ritrovare le sue parole, in prosa e in versi, vive e taglienti come erano e come saranno. La sua stessa voce ci soccorre, oltre il tempo e le generazioni: «Smettetela, dunque, con la venerazione per i centenari, con il culto per le edizioni postume. Articoli per i vivi! Pane per i vivi! Carta per i vivi!» (DP, p. 88).

Nota bibliografica

Lili Brik. Con Majakovskij. Intervista di Carlo Benedetti, Bordeaux, Roma 2017 (CM).
Bengt Jangfeldt, Majakovskij. Una vita in gioco (Neri Pozza I Colibrì, 2022) (MVG)
Vladimir Majakovskij, Poesie, Garzanti, Milano 1958 (MP).
Vladimir Majakovskij, Poesia. Poemi. Teatro, Feltrinelli, Milano 1967 (PPT).
Vladimir Majakovskij, Poesia e rivoluzione, Editori riuniti, Roma 1968 (PR).
Vladimir Majakovskij, Lettere d’amore a Lilja Brik (Mondadori, Milano 1972) (LB).
Vladimir Majakovskij, Poesie, New Compton, Milano 1973 (MVP). 
Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, PBE Einaudi, Torino 1966 (MT).
Viktor Sklovskij, Majakovskij. Futurismo, formalismo e strutturalismo, Il Saggiatore, Milano 1967 (MF).
Viktor Sklovskij, Testimone di un’epoca, Editori riuniti, Roma 1979 (TE).
Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi, Milano 2015 (DP).

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