Mangiare da cristiani

17 Ottobre 2015

Nel 1929 gli storici March Bloch e Lucien Febvre fondarono una rivista, Les Annales d'Histoire Economique et Sociale, che cambiò radicalmente lo studio della storia e ne ampliò gli orizzonti rivoluzionandone la metodologia. Essa diede il via a una nuova storiografia, nota come scuola delle Annales, che ha avuto, e ha tuttora, il proprio laboratorio nell'École des Hautes Études in Science Sociales di Parigi. La storia, che fino allora era intesa come una ricostruzione degli eventi del passato, soprattutto politici e militari (histoire evenementielle), fu concepita piuttosto come proposta di problemi e interpretazione del passato (histoire conceptuel), e le sue fonti si estesero fino a comprendere anche tutte le componenti della vita materiale della gente comune. Nacquero così discipline nuove e fertili, come la storia economica e sociale, l'antropologia, la storia delle mentalità, la storia culturale, la demografia, e così via. Dagli studi di Fernand Braudel sull'economia del Mediterraneo nell'età moderna, di Emmanuel Le Roy Ladurie sul clima e la società contadina, di Alberto Tenenti sul senso della vita e della morte, di Georgers Duby e Jacques Le Goff sulle mentalità, e di molti altri, non c'è stato più niente che gli studiosi abbiano ritenuto senza interesse o irrilevante nella ricostruzione dell'insieme complesso di eventi, attitudini e pensieri che formano la storia. L'idea centrale attorno della scuola delle Annales – che oggi ci sembra ovvia ma all'epoca era quasi sovversiva – era che alla storia concorressero, con uguale peso, elementi materiali e immateriali, condizioni di vita e concezioni del mondo, sistemi di produzione e sistemi di valore. March Bloch fu fucilato dai tedeschi nel 1944, ma durante la prigionia, privo di libri e senza i suoi appunti, scrisse di getto un piccolo libro, bellissimo, in cui sintetizza così la nuova visione: «Il buono storico somiglia all'orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda» (Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi 1950).

 

A questa tradizione di studi appartengono le ricerche di Massimo Montanari, medievista e docente di storia e cultura dell'alimentazione, di cui Rizzoli ha pubblicato recentemente il saggio Mangiare da cristiani. Diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura (Rizzoli 2015). Il cibo, necessario e fortemente simbolico allo stesso tempo, afferma Montanari, tra tutte le cose che fanno parte della vita quotidiana è quella che rivela la quantità maggiore e più varia di informazioni sulle condizioni economiche e sociali, i valori, le credenze e le mentalità dei gruppi umani. Attraverso le diete alimentari degli istituti di assistenza, per esempio, si sono ricavate informazioni preziose per ricostruire la storia dei poveri nell'età preindustriale – estremamente povera anche di fonti – e capire quali rapporti intercorressero tra i bisognosi, le classi abbienti e le istituzioni pubbliche.

 

 

In Mangiare da cristiani, l'autore descrive il rapporto dei cristiani con l'alimentazione partendo dalle indicazioni evangeliche fino all'età moderna. Benché non esista un modello alimentare cristiano «perché la tradizione cristiana non prevede vincoli pregiudiziali in questo campo» (p. 9), Montanari rimarca la particolare centralità simbolica del cibo sin dalle origini del cristianesimo. In esso, infatti, l'apice della sacralità è rappresentato da una cena in cui i fedeli si raccolgono attorno alla stessa tavola per consumare pane e vino in memoria di Gesù; anzi, il pane e il vino sono considerati il suo corpo e il suo sangue (simbolici o reali, secondo le diverse confessioni), perciò il fedele è invitato a nutrirsi della sua stessa realtà divina. E siccome, almeno in certa misura, è vero, come ha detto Feuerbach, che «l'uomo è ciò che mangia», nutrendosi del corpo e sangue divini l'uomo assimila la natura di Dio (almeno simbolicamente).

 

Nelle parole di Gesù e in quelle che gli furono attribuite dalla primissima comunità cristiana, c'è un legame innegabile tra cibo, gioia e libertà: la gioia e la pienezza del Regno dei cieli si esprimono nell'immagine di un banchetto, la presenza di Gesù tra i discepoli è paragonata a una festa di nozze, anticipo dell'eterna festa escatologica in cui egli berrà di nuovo, insieme a loro, il frutto della vite. Gesù cenava volentieri a casa di chi lo invitava, giusti o peccatori che fossero; anzi, preferiva andare dai peccatori e dai pubblicani che, insieme alle prostitute, secondo le sue parole, avrebbero preceduto nel Regno di Dio molti di quelli che si ritenevano giusti. Per questo fu anche accusato di essere un mangione e un beone. Ma accanto al tempo della festa, c'era anche quello del digiuno. E Gesù a volte digiunava, seguendo la tradizione biblica di Mosè e dei profeti fino allo stesso Giovanni Battista, il suo precursore, che col digiuno si preparavano alle loro missioni; lo fece per quaranta giorni, nel deserto, prima di iniziare l'attività pubblica. Mangiava, digiunava e insegnava che nulla di quanto entra nella bocca dell'uomo lo contamina; il male, infatti, diceva, nasce dal cuore cattivo ed esce sotto forma di azioni e parole inique. Queste contaminano l'uomo.

 

Il rifiuto di qualsiasi prescrizione riguardante la purità dei cibi, fondamentale nell'insegnamento gesuano, non fu compreso facilmente dai discepoli, ma quando Sinagoga e Chiesa si separarono definitivamente, all'indomani della distruzione del tempio di Gerusalemme, divenne un elemento importante di differenziazione tra cristiani ed ebrei, e favorì l'apertura della nuova religione al mondo pagano. Nella pratica dei cristiani, tuttavia, restò ben presto assai poco della libertà originaria. La semplicità del dettato evangelico si è persa in una normativa capillare e complicata di cui Massimo Montanari segue le tracce attraverso le regole ascetiche dei Padri del deserto e le rigide norme dei fondatori di comunità religiose. Dalla gioia e dalla libertà del banchetto nuziale annunciato da Gesù, si passa a lunghe quaresime, digiuni estremi e, in definitiva, al rifiuto ossessivo e al disprezzo di ogni piacere carnale. Mentre la Chiesa istituzionale raccomandava e ordinava moderazione ed equilibrio nell'uso dei piaceri e delle penitenze, osserva Montanari, una sua parte considerevole deprecava le gioie materiali – un'avversione di matrice greca e non ebraica, strettamente connessa a una misoginia del tutto estranea all'insegnamento di Gesù – alimentando la radicalità di quelle correnti, soprattutto monastiche, che intendevano la carne nel duplice senso di cibo e sessualità e limitavano l'uso di entrambe disciplinandolo nel dettaglio.

 

Ricco d'informazioni e collegamenti interessanti, il racconto è, a tratti, anche divertente, come quando si dice di un medico seicentesco che vietava di mangiare nello stesso pasto carne e pesce, perché essendo il pesce notoriamente escrementoso corrompe la carne nello stomaco durante la digestione. Ma ciò che emerge e colpisce di più, in questa scorrevole esposizione di pensieri e atteggiamenti che percorrono secoli di storia, è il contrasto, purtroppo ancora stridente, tra la libertà di Gesù e l'ottusità degli uomini (e donne) di ogni tempo, del tutto incapaci di accoglierla e di viverla. Aveva ragione Erich Fromm quando sosteneva, nel suo famoso saggio Fuga dalla libertà scritto nel 1941 e ancora attualissimo, che niente spaventa gli uomini come la libertà. Infatti, la fuggiamo anche imbrigliandola con infiniti precetti e convenzioni, ben oltre le naturali necessità dettate dalla convivenza. Come a dire che la libertà viene da Dio, la costrizione viene dagli uomini.

 

 

 

Il libro: Massimo Montanari, Mangiare da cristiani. Diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura, Rizzoli, Milano 2015, pp. 270, € 22,00

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