Mangiare (male) a scuola

2 Ottobre 2012

Tra le immancabili conseguenze dell’inizio di ogni anno scolastico c’è la profonda trasformazione delle abitudini e dell’organizzazione giornaliera di milioni di famiglie.

Per nove mesi la scuola ridiventa un luogo di istruzione e di cultura ma anche un’istituzione alla quale viene delegata la sicurezza e la cura dei propri figli, almeno per un certo numero di ore e di giorni.

 

Specie per i bambini e i ragazzi che frequentano la scuola dell’obbligo, l’apertura dell’anno scolastico coincide con il rinnovarsi della ristorazione scolastica: croce e delizia di generazioni di scolari, fonte di attenzione, discussione, spesso ansia da parte dei genitori.

Per uno o più giorni a settimana il pasto consumato a scuola – quasi sempre ad opera di aziende di catering vincitrici di appalto indetto dai Comuni – diventa parte di quella delega che le famiglie assegnano alla scuola. E come ogni anno il pasto a scuola diventa elemento di ansia perché percepito con la consapevolezza di una qualche estraneità rispetto al cibo condiviso in famiglia, un “altro cibo” cui porre particolare attenzione, da sorvegliare, da controllare…

A causa dell’ansia, le famiglie – ma ancor di più la scuola e gli enti locali – dimostrano del resto una forte sensibilità e attenzione verso ogni forma di educazione alimentare che coinvolga i giovani, attenzione che si traduce nei più diversi progetti e iniziative educative.

Educazione alimentare ed ai consumi come elemento essenziale di crescita personale, parte integrante dei programmi scolastici, elemento critico per il mantenimento della salute.

 

Eppure, pochi anni dopo quella stessa educazione alimentare sembra entrare in contraddizione con se stessa. Quante sono in Italia le Scuole medie di II grado che forniscono ai propri studenti un servizio di piccola ristorazione con distributori automatici? Moltissime, anche perché quel servizio spesso costituisce un’entrata economica certa per le sempre più vuote casse di ogni Istituto. Bevande gassate e snack dolci e salati costituiscono l’offerta abituale. L’educazione alimentare, entrata dalla porta principale delle elementari e delle medie, esce dalle grandi finestre delle superiori.

E inoltre, soprattutto rispetto ai ragazzi più giovani, l’educazione alimentare ricevuta a scuola quanto incide sul destino personale rispetto alle abitudini e all’educazione – quella diretta fatta di esempi e abitudini – che quotidianamente ricevono nelle loro famiglie?

Probabilmente poco o molto poco, tanto più se si considera che l’educazione alimentare come “materia scolastica” dovrebbe essere costante e dovrebbe coinvolgere contemporaneamente docenti, alunni e famiglie, intorno ad obiettivi comuni attraverso percorsi diversi seppur convergenti.

Partita difficile, dunque,  quella dell’educazione alimentare – nel nostro paese di oltre ventennale tradizione – ma con quali reali effetti?

 

Si sa che l’obesità infantile in Italia è in continuo aumento. Sempre più la curva dell’obesità giovanile tende ad avvicinarsi a paesi come gli Usa o il Regno Unito, considerati fino a pochi anni fa macroscopici esempi negativi. L’obesità infantile non intesa come fattore estetico, né tanto meno vista come affezione da molti ancora sottovalutata, piuttosto come indicatore di altro... Un bambino obeso ha infatti una maggiore probabilità di diventare un adulto obeso, con una più elevata predisposizione al rischio in età avanzata di patologie quali diabete, ipertensione, arteriosclerosi.

In realtà bisogna intendersi su cosa sia l’educazione alimentare e quali gli effetti che bisogna attendersi.

 

Molti anni di meritoria educazione alimentare ci insegnano che questa è materia che non può essere intesa solo come disciplina, come studio e che resta ampio in ognuno di noi – in particolare per i più giovani – il divario tra conoscere le cose e viverle, tra il comprendere la relazione scelte alimentari/stato di salute ed il tradurre queste conoscenze in comportamenti abituali e in stili di vita.

 

La diffusione pervasiva del cibo industriale – con un costo relativo irrisorio: poche decine di centesimi di euro consentono l’acquisto di qualsiasi snack –, l’elevato benessere medio, l’eccesso dei consumi, la diffusa sedentarietà del modello organizzativo delle società occidentali portano certamente elementi concreti per comprendere il divario tra conoscenze corrette e “correttamente vivere” ma può esserci ancora qualcos’altro...

Basterebbe considerare diversamente, ad esempio, uno degli assunti teorici alla base dell’educazione alimentare; che ci sia stata cioè l’esigenza di un tale approccio quando a livello nazionale sono emersi evidenti i danni di una scorretta alimentazione, approssimativamente negli anni ‘70.

Gli anni ‘70 certamente… dopo oltre due decenni di espansione economica, di industrializzazione e progressivo inurbamento, di boom demografico e dei consumi, di nascita di un nuovo “soggetto” e categoria sociale – i giovani – di televisione e pubblicità sempre più invasiva, che hanno trasformato profondamente la società italiana.

 

Ma soprattutto, il diventare nel giro di una generazione “consumatori” ci ha privato di un rapporto con la natura che era diffuso e condiviso; la società contadina ha sempre avuto bisogno di maggiore quantità di cibo e di migliore qualità ma mai di educazione alimentare. L’essere più o meno tutti “anche” produttori consentiva un rapporto continuo e diretto con la natura, i suoi cicli; sapevamo cosa era il cibo perché lo producevamo e ne conoscevamo quotidianamente i percorsi vitali. L’uccisione del maiale e la sua “trasformazione” in salumi era esperienza cruenta ma comune come poteva esserlo il raccolto del grano o la produzione del vino e quasi come la coltivazione dell’orto o la mungitura di una mucca. Conoscere gli alimenti e tutte le fasi della loro produzione ci faceva anche conoscere la natura, per certi versi ci confermava sul nostro “posto nel mondo”.

Per contro conoscere il cibo solo dopo che è diventato scatoletta o tetrapak o cellophane, involucro colorato nelle vetrine di un supermarket, è stata una cesura netta e forse il cambiamento più profondo e “diseducativo” che le nuove generazioni hanno dovuto affrontare, e questo ancor prima di ogni nuovo beneficio economico e sociale, di ogni eccesso nei consumi…

 

Mi sembra che i nostri tre bisogni fondamentali cibo, sicurezza e amore, siano tanto strettamente intrecciati tra loro che non possiamo pensare all’uno senza pensare agli altri”.

ÈunafrasediM.F.K. Fisher, autrice di testi di alimentazione e culinaria, divulgatrice americana instancabile e attiva per oltre cinquant’anni. La Fisher visse tra Europa e Stati Uniti e la sua produzione letteraria ha attraversato gran parte del XX secolo (la Fisher era del 1907, il suo primo libro Serve it forth è del 1937) e i suoi profondi mutamenti. Nella frase citata si coglie una verità essenziale e tutt’altro che superficiale.

L’istinto della sicurezza e della sopravvivenza è infatti fortemente legato all’alimentazione, una sicurezza che in una specie che vive un tempo lunghissimo alle dipendenze dei genitori viene fornita soprattutto attraverso cure parentali, attenzioni che tendono quotidianamente a coincidere con il cibo, la sua preparazione e la sua condivisione. La preparazione e la condivisione sono state da sempre un viaggio nella natura e nei legami di cui si compone ogni famiglia e ogni comunità, prima che solo cibo e consumi.

 

Ma improvvisamente con il boom economico, intere generazioni vivono questo intreccio in maniera nuova e deformata. Il cibo diventato certo in quantità pressoché illimitate e continuamente disponibili, nel giro di una generazione diventa presenza banale e scontata, priva di ogni tradizione, di quasi ogni preparazione se non quella affrettata della cucina o dell’angolo cottura... lontanissima poi e dimenticata ogni sacralità.

Pochi lustri di eccessi e i primi danni del benessere porteranno inevitabilmente al bisogno conclamato di un’educazione alimentare prima mai stata necessaria, almeno a livello di popolazione. Ma l’educazione alimentare negli anni ‘70 sarà sostanzialmente meccanicista e positivista, a suo modo figlia degli anni del boom e di una medicina che deve dare risposte dirette, specialiste: la caloria diventa il verbo, il dietologo la professione emergente, la dieta il feticcio da inseguire ad ogni costo ..., una situazione che complessivamente perdurerà e si confermerà negli anni ‘80 e parte del decennio successivo.

Anni di instancabile e benemerita educazione alimentare certamente, ma in cui abbiamo continuato a soffrire delle stesse patologie da benessere, anni in cui l’obesità infantile non ha arrestato la sua diffusione ma anzi è continuata ad aumentare.

 

Il sospetto è che non ci sia educazione a una corretta alimentazione se non ci riappropriamo del nostro stare al mondo: educare ai consumi dunque – non solo alla corretta alimentazione – è il primo passo per risultati sostenibili e duraturi con noi stessi e i nostri figli. Educare ai consumi significa far avvicinare le giovani generazioni anche alla storia e alla geografia dei luoghi, alla storia di ogni singolo prodotto – le tradizioni –, significa l’ecologia e il rapporto con l’ambiente, il rispetto degli altri e di diverse culture, tutte dimensioni esistenziali che un tempo ci attraversavano quotidianamente ed erano parte del nostro rapporto con gli altri e la natura, parte di un’esistenza vista con occhi non solo da consumatori.

Partita impegnativa certamente, che esige sforzi e strategie, cambiamenti nelle abitudini e nello stile di vita. Ma l’unica che sembra garantire risultati duraturi.

 

Èquesto del resto l’approccio che recentemente sembra finalmente prevalere. Il cibo letto e interpretato non più solo razionalmente e in “nome delle calorie” come dimensione nutrizionale, ma come esperienza integrata dell’esistenza e nell’esistenza, come viaggio nella natura e nel mondo.

Del resto, in un ambiente alimentare pur artefatto come il nostro, i ragazzi manifestano in fondo lo stesso bisogno e gli stessi istinti che ci guidavano – certamente non i soli – nell’esplorazione del cibo e della natura.

 

Gli snack sono tutti dolci o salati o secchi o croccanti o un insieme combinatorio di queste caratteristiche; difficilmente sono molli – se non dolcissimi – mentre aborrono il sapore acido e l’amaro. Una monotonia delle scelte industriali certo non casuale e che non ha ragioni solo voluttuarie, per così dire “gastronomiche”, ma che, involontariamente per l’industria stessa, portano altrove...

I sensi e il gusto hanno rappresentato per la nostra specie fino alle soglie della modernità lo strumento principale con cui leggere la natura, il cibo in particolare.

Ma sfugge probabilmente ancora a molti il nesso tra gusto e scelte alimentari dei più giovani, i quali continuano a preferire alimenti dolci, secchi, croccanti, salati etc. incuranti di ogni avvertimento razionale, di ogni educazione alimentare.

Sfugge cioè, ancora, che non si tratta solo di insofferenza verso le forme di educazione istituzionali – la famiglia, la scuola – e nemmeno di resistenza – i capricci dei più piccoli –, ma che una relativa indifferenza ai cibi salutari – molte verdure crude e quasi tutte le cotte ad esempio – sta paradossalmente anche nell’istinto.

 

Secondo ricerche antropologiche il molle ad esempio sarebbe sensazione riconosciuta ed istintivamente associata ad alimenti non più freschi e a rischio di alterazione microbica (come un colore troppo scuro); analoghe ricerche mettono in relazione come il gusto acido sia associato al cibo fermentato – anch’esso sintomo di alterazione microbica –, così come è noto che molte delle categorie di veleni esistenti in natura hanno sapore amaro...

Il gusto è del resto l’ultima sentinella sensoriale prima dell’introduzione nel corpo di quei pezzi di natura che chiamiamo alimenti; il gusto rappresenterebbe anche un potente strumento di conoscenza della natura che si è evoluto in milioni di anni.

 

La preferenza per i “sapori-sensazioni” di dolce, croccante, salato e al contrario la repulsione per il molle, l’acido e l’amaro rappresenterebbero risposte evolutive della specie e non solo capricci infantili o cattive abitudini adolescenziali. Bambini e adolescenti di ogni epoca hanno avuto simili preferenze, ma tutto avveniva attraverso un’educazione alimentare viva e quotidiana anche se silenziosa; un’educazione fatta di partecipazione e condivisione – prima nella famiglia e poi nella comunità – del cibo in ogni sua fase, dalla produzione fino al consumo. I gusti acido e amaro, le molte verdure, le zuppe, i bolliti erano così presenze largamente accettate anche tra i più giovani perché precocemente e continuamente provate e soprattutto condivise.

Il molle, l’acido, l’amaro... diventavano lentamente riconoscimenti e gusti collettivi in cui si trovavano cibi “buoni da mangiare”: la cultura alimentare delle persone, attraverso i luoghi e le loro genti si affermava prima di ogni educazione.

 

È necessario educare ai consumi, dunque, ed educare al gusto; ma è una battaglia difficile se in città, recisi quasi completamente i legami con le comunità di origine, anche questa forma di educazione viene assolta in famiglie concentrate a risolvere problemi quotidiani, organizzazioni in cui far coesistere aspetti economici, scuola, lavoro, cure parentali, spostamenti...

Rimarrebbe la comunità in cui ogni ragazzo si riconosce... età in cui si cerca l’identità soprattutto attraverso l’appartenenza al gruppo, alle compagnie: comunità di identici in cui prevalgono gli stessi gusti e le stesse scelte alimentari.

Nessuna meraviglia allora se guardando i nostri figli, ci accorgeremo che i gusti e l’educazione a quei gusti resteranno per molti anni gli stessi.

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