Flashover e La città dei vivi / Giorgio Falco, Nicola Lagioia: i neristi

23 Dicembre 2020

Alcune opere letterarie si dedicano a esplorare possibilità future, immaginando quello che potrebbe avvenire: e a volte risultano profetiche. Altre guardano invece verso il passato, impegnandosi a preservare la memoria, a fissarla, a darle forma. A volte si tratta di ricordi personali, e allora ci si inoltra nel variegato dominio dell’autobiografismo; a volte di storie familiari, più o meno inclini a declinarsi in saga; a volte di vicende legate a eventi storici, che non di rado trovano proprio grazie alla letteratura l’espressione che risulta più forte e durevole nella memoria collettiva. Poi c’è il caso di opere d’invenzione che traggono ispirazione da fatti di cronaca. Fra queste, grandi romanzi, pietre miliari della cultura moderna, di cui solo i lettori più appassionati o esperti conoscono l’antefatto cronistico. Dopo tutto, non è così importante sapere da dove Dostoevskij o Defoe abbiano desunto l’idea o lo spunto della trama di Delitto e castigo e di Robinson Crusoe; o meglio, lo è, ma a un livello di riflessione che riguarda soprattutto (se non soltanto) gli specialisti. Nella narrativa italiana degli ultimi tempi mi pare che stia succedendo una cosa diversa. I narratori raccontano fatti di cronaca rimanendo aderenti alla cronaca, cioè senza trasfigurare i faits divers in un autonomo intreccio romanzesco: orientamento avvalorato dalla puntigliosa conservazione dei nomi reali, inclusi quelli di personaggi pubblici.  

 

Prima di procedere vorrei richiamare un dato, del resto abbastanza evidente, sullo stato attuale della narrativa in Italia. Fra i libri che vengono pubblicati, una percentuale elevata è – continua ad essere – di gialli. La fortuna del romanzo poliziesco è stupefacente. Da genere minore, «paraletteratura», come tempo fa dicevano alcuni, è diventato l’asse portante della narrativa contemporanea. Un eloquente indizio è dato dal catalogo della casa editrice Sellerio, che certamente non è nata con il proposito di andare incontro alla domanda di intrattenimento di un pubblico di massa (e che tuttora, sia detto a scanso di equivoci, continua a battere anche altre strade). All’ombra dello straordinario successo di Andrea Camilleri sono fioriti altri giallisti di vaglia, come Antonio Manzini, Alessandro Robecchi, Gian Mauro Costa; e che dietro questo fenomeno ci sia una strategia editoriale precisa è confermato dalla riproposta di un antesignano come Giorgio Scerbanenco – nonché, nell’affine dominio della spy-story, di un «classico» come Graham Greene, per le cure, competenti come sempre, di Domenico Scarpa. 

 

Così stando le cose, ovvero essendo il giallo assurto a forma prediletta della produzione letteraria rivolta a un pubblico medio, gli scrittori con maggiori ambizioni di ricerca ricorrono sempre più volentieri a un colore diverso: il nero. Lo schema giallistico dell’indagine che approda alla soluzione dell’enigma e all’individuazione del colpevole, e quindi al ripristino dell’ordine – di un ordine, per quanto precario e difettoso esso possa essere – lascia il campo ad assai meno rassicuranti esplorazioni di crimini la cui dinamica esteriore non ha nulla di misterioso, e i cui responsabili sono noti fin dall’inizio. Acclarati i nudi fatti, l’attenzione si concentra su altro. Sui moventi, essenzialmente: che risultano ora futili e insulsi, ora opachi e insondabili, e perciò inquietanti, sconcertanti, scandalosi. Non siamo lontani, come si vede, da un tema ben presente alla letteratura francese del Novecento: basti pensare al Camus dello Straniero, o ai Sotterranei dei Vaticano di André Gide – il delitto senza movente di Meursault, l’«atto gratuito» di Lafcadio. In questi casi, l’arbitrarietà del gesto assurge a interrogativo metafisico e esistenziale. E tale è in effetti è la posta in gioco: cioè la capacità di conferire densità problematica a gesti orrendi o mostruosi, ma esposti al rischio della banalità per la pochezza dei loro esecutori e l’insignificanza  della posta in gioco.    

 

I «neristi» oggetto di queste note sono due narratori dalla fama consolidata, Giorgio Falco e Nicola Lagioia. A entrambi, non a caso, è riconosciuto uno spazio di riguardo nel recente volume L’estremo contemporaneo, Letteratura italiana 2000-2020, curato da Emanuele Zinato (Treccani, pp. 216, € 17), e nato da un’iniziativa di Paolo Grossi di cui già si è parlato su queste pagine (il saggio sulla narrativa si deve a Morena Marsilio): una pregevole sintesi panoramica di cui gli studi su una materia per definizione sfuggente come il presente della letteratura non potranno non tener conto. Parliamo dunque di Flashover. Incendio a Venezia di Giorgio Falco (Einaudi, pp. 192, € 19), e di La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi, pp. 466, € 22); non senza ricordare un terzo titolo della casa dello Struzzo che rientra in questo filone, Emanuele nella battaglia del regista Daniele Vicari (pp. 366, € 20), qui al suo esordio come romanziere, di cui parleremo in una prossima occasione. «Nerista» è un termine corrente nel gergo giornalistico, designa chi si occupa di cronaca nera, crime news. La scelta del crimine, per la verità, è molto diversa. Falco racconta una storia che risale alla fine del secolo passato: l’incendio doloso che il 29 gennaio 1996 distrusse il Teatro La Fenice (il volume è corredato da fotografie di Sabrina Ragucci, una sequenza di figure mascherate abbastanza monocorde, che a mio avviso poco aggiunge al testo). Lagioia ricostruisce un fatto più recente, l’efferata uccisione del 23enne Luca Varani, avvenuta a Roma il 4 marzo 2016. Alla diversa fattispecie di reato corrisponde anche una differente impostazione narrativa. Il libro di Falco è succinto, incisivo, ha una chiarezza spietata che tende all’apologo. Quello di Lagioia è molto più eterogeneo e composito, più tormentato, autobiograficamente compromesso: il nervoso variare delle angolature fa pensare a una sorta di romanzo cubista.    

 

Ma andiamo con ordine. Il protagonista di Flashover è Enrico Carella, titolare della Viet, una ditta di impianti elettrici impegnata nei lavori di restauro del teatro. È lui che, con la complicità del cugino e dipendente Massimiliano Marchetti, appicca il fuoco alla Fenice. Il suo fine non è di ridurre l’intero edificio in cenere, ma solo di provocare un danno sufficiente a ottenere una proroga nella consegna dei lavori, ed evitare così di pagare la penale prevista per il mancato rispetto delle scadenze. Senonché le cose vanno altrimenti. Dopo l’innesco – l’ignizione, nel linguaggio tecnico – la propagazione è rapida e incontrollabile, e in breve s’arriva all’incendio pienamente sviluppato, che si ha quando tutto il materiale combustibile brucia e la temperatura è uniforme ovunque: il flashover, appunto. La narrazione segue nei dettagli le manovre del giovane sciagurato imprenditore, il «cugino padrone», come spesso è chiamato: che a sua volta dipende dalla ditta del padre in qualità di subappaltatore, che è sempre senza soldi («tanti schei, ma le man sbuse»), che si fa prestare somme ingenti dalle donne che seduce, e che quando le cose cominciano a andar male è ossessionato solo dal pensiero di dover rivendere la Bmw per far fronte ai debiti. Quando i suoi fragili alibi crollano, sotto il peso di troppe evidenze contrarie, Carella riesce a espatriare, trascorre qualche tempo in Messico, dove prova a rifarsi una vita; ma alla fine verrà arrestato e estradato. 

 

Della sua sorte, peraltro, non è che alla fine importi più di tanto. Il piccolo industriale degenere («Fare sacrifici, lavorare, risparmiare, come i padri hanno sempre ripetuto: per cosa, per chi?»), il delinquente che per non pagare una penale di quindici milioni di lire ha provocato un danno di decine di miliardi e la distruzione di un monumento storico, il «personaggio-non personaggio» di questa storia vale soprattutto come emblema di una degradazione umana e civile in cui Falco legge i segni di un’immane apocalisse: «È giunto il tempo per l’incendio generalizzato e definitivo, il flashover di una civiltà già defunta, che muore ogni volta fingendo di rinascere solo per continuare a morire meglio, per continuare il miglior morire insistente e noncurante; l’Italia mantenuta in vita dall’artificio, da una serie di interessi economici, finanziari, criminali; ma adesso è arrivata a fine della tragica nazione che ride di se stessa e tramuta la commedia in tragedia e la tragedia in commedia, la fine della nazione luna park, rovina d’epoca e macerie d’ornamento; l’estinzione della città giocattolo, che incarcera i secoli sulle isole della laguna, la città giocattolo prigioniera della propria salvezza e del proprio disfarsi continuo, mentre le maree salgono e scemano seguendo influssi lunari, grafici, investimenti pubblici e privati; peccato che la tv non trasmetta l’incendio in diretta».

 

Serrato, stringente, scandito da paragrafi brevi, il racconto di Falco ricorre spesso al modulo del flash-forward, soprattutto anticipando le future dichiarazioni dei testimoni. Le pagine più efficaci sono quelle più aderenti al concretezza dei fenomeni, eventualmente valorizzata da termini e particolari tecnici: si veda come è messa a profitto, nella strepitosa descrizione della notte dell’incendio, la nozione che un chilo di qualunque materiale produce quattordicimila litri di fumo. Altrettanto nitida la descrizione dell’ambiente di Sacca Fisola, l’isolotto artificiale edificato negli anni Sessanta, collegato da un ponte alla Giudecca ma lontanissimo da Venezia, prigioniero di un destino di periferia della periferia; e variamente suggestivi i richiami ad altre epifanie artistiche del fuoco, dall’opera del 1967 di Jannis Kounellis dal titolo Margherita con fuoco («una margherita di rame dalla cui corolla bruciata spuntava una fiammella alimentata da un cannello collegato a una bombola di gas») al romanzo Il Padiglione d’oro di Yukio Mishima (1956), che narra dell’incendio, intenzionalmente appiccato dal protagonista, di un antico tempio di Kyoto. La parte che convince meno è quella più astrattamente riflessiva, aperta da una lapidaria sequenza nominale («Schuld. Schulden. Colpa. Debiti. I debiti. I debiti Schulden del cugino padrone sono l’investimento che il capitale effettua con ogni debitore»), che spinge all’estremo alcuni tratti stilistici propri di Falco – le figure di ripetizione, l’uso dei termini astratti, le martellanti serie asseverative – per sfociare in una lunga divagazione sul simbolo della maschera.

 

 

Qui mi pare che Falco indulga al gusto della sovra-determinazione culturale, esplicita o allusiva. È appena il caso di ricordare che Mishima è anche l’autore di Confessioni di una maschera, che Venezia è la città del Carnevale, che l’intero libro può valere come lo smascheramento del mitizzato moderno Nord-est, oltre che come il resoconto del suicidio inconsapevolmente rituale d’una intera civiltà. 

Il romanzo di Lagioia comincia con il tono e il passo del thriller. In un appartamento di via Igino Giordani 2, nel quartiere Collatino, viene trovato il corpo senza vita di un ragazzo che è stato torturato per ore. I due assassini sono Manuel Foffo, studente fuoricorso dall’incerta condizione lavorativa, e Marco Prato, brillante pr piuttosto noto nel suo giro, rispettivamente di 28 e 30 anni. Entrambi hanno rapporti complicati con la famiglia. Manuel è in rotta con il padre, che manda avanti un ristorante con l’aiuto del primogenito; il secondo, dichiaratamente gay, soffre per l’atteggiamento di rifiuto che la madre ha assunto nei suoi confronti. La narrazione ricostruisce con cura le personalità della vittima e dei suoi due carnefici, e esplora la rete di rapporti in cui ciascuno era inserito.

 

Ci si aspetterebbe l’emergere di un movente plausibile, ma così non è: il sadismo esercitato sul corpo del povero Luca Varani appare del tutto gratuito, anche tenendo conto dello stato di alterazione di Marco e Manuel, da giorni strafatti di alcool e coca. Prende forma, invece, un ritratto impietoso della città di Roma, in preda a un fatale, capillare, inarrestabile disfacimento, fra i gabbiani che pasturano nell’immondizia e i tombini che esondano ad ogni pioggia. Nel frattempo la tensione del romanzo d’azione ha lasciato il campo a una lunga raccolta di testimonianze, fondata su una documentazione scrupolosa, ma francamente prolissa: non riscattata dall’ingresso in scena dell’autore, nelle vesti di caparbio, puntiglioso cronista. Tant’è che quando un giornalista non meglio specificato gli chiede «Mi spieghi cosa cavolo ci trovi di interessante in questo caso?» il lettore ha l’impressione di una boccata di ossigeno. 

 

E qui la narrazione prende una piega diversa, decisamente autobiografica. Molti anni prima, quando viveva a Bari, l’autore («Nicola») aveva rischiato di commettere un delitto altrettanto gratuito, ancorché preterintenzionale. Le lacerazioni familiari, la pressione di un ambiente sociale ostile, il perverso intreccio di menzogne e reticenze che ne era derivato avevano provocato un accumulo di aggressività che si era espresso in un paio di occasioni in gesti inconsulti e pericolosi, come lanciare bottiglie dalla finestra di un ottavo piano. Sullo sfondo della possibilità di rovinarsi la vita per sbaglio, per un cedimento momentaneo a un impulso balordo, la ricostruzione delle ore precedenti il massacro di Luca Varani, con il progressivo deragliamento mentale di Manuel e Marco,  acquista un nuovo spessore drammatico. L’assurdità della loro condotta rimane, peraltro, intatta; e sempre più intricato e morboso si rivela il rapporto che li lega. Manuel si ritiene e si proclama eterosessuale, anche se non disdegna di assecondare le richieste di Marco, e di altri, come lui, passivi. Ma fra i due è Marco ad avere il ruolo dominante, a decidere cosa fare e quando; e anche ad alimentare deliranti fantasticherie di una vita diversa – lui che lascia tutto per prostituirsi a tempo pieno, per diventare una pornostar, e l’amico che gli fa da agente. In una spirale di sogni a occhi aperti, bottiglie di vodka e coca a volontà, dal fondo delle loro coscienze confuse spunta il desiderio, no, il bisogno di coinvolgere un terzo, un conoscente, uno qualsiasi. I primi due, insospettiti, si defilano. Il terzo, il più ingenuo e vulnerabile, è Luca Varani.  

 

Consumato il delitto, prende avvio la fase giudiziaria. Divisi, i due imputati finiscono per contrapporsi. Manuel, che si strugge per il timore di essere pubblicamente considerato un frocio, accetta il rito abbreviato e viene condannato a trent’anni di carcere. Marco decide di affrontare il tribunale; la sua linea di difesa sarà negare di avere colpito Luca. A Regina Coeli i rapporti con gli altri detenuti gli dischiudono qualche prospettiva di recupero. Cerca di rendersi utile, si fa benvolere; i media lo raccontano come un personaggio da film («camaleontico, contraddittorio, paurosamente lucido, scisso, ipersensibile, manipolatore»). Ma in attesa del processo viene trasferito nel carcere di Velletri, dove l’inerzia lo vince; il 20 giugno 2017 si toglie la vita. Sul versante della storia dell’autore, intanto, si registra un doppio movimento. Ricevuta un’interessante proposta professionale (con ogni evidenza, la direzione del Salone del Libro), Nicola decide di lasciare Roma, che ha l’impressione di non sopportare più, e si trasferisce con la moglie a Torino. Il soggiorno al Nord ha però breve durata. Una città ordinata, efficiente e tranquilla non basta a dissipare un’inattesa quanto viscerale nostalgia di Roma. Lo spegnersi del fatto di cronaca – simbolicamente rappresentato dalla visita al cimitero di Prima Porta insieme ai familiari di Luca – suggella il ritorno definitivo nell’odiosamata capitale.

 

Molte parti di questo romanzo-inchiesta rientrano a pieno titolo nell’invenzione letteraria, a dispetto della mole di documenti consultati, e citati senza risparmio: ad esempio i tanti dialoghi fra i personaggi, frutto – inevitabilmente – dell’immaginazione dell’autore. C’è però anche una linea narrativa diversa, una sorta di filo rosso dallo schietto carattere allegorico, che accompagna lo svolgersi del caso Varani. Il libro comincia con l’arrivo a Roma di un mai meglio definito turista olandese, e termina con la sua partenza; fra i due estremi, brevi scene di una sordida storia di turismo sessuale, una camera in affitto, ragazzini minorenni, il rischio (sventato) di finire nei guai con la giustizia. Come in una delle Città invisibili di Calvino, Eusapia, la città dei vivi e la città dei morti sono contigue: si imitano, s’incrociano. Forse si confondono.   

 

Ho citato all’inizio alcuni modelli letterari «alti», Gide, Camus. Ma il riferimento più appropriato per questi libri di Falco e Lagioia credo sia quello che a suo tempo Tom Wolfe definì «New Journalism»: un tipo di narrazione d’inchiesta che non si périta di ricorrere a materiali eterogenei e spurî, brani di interviste, articoli di giornale, documenti – e oggi possiamo aggiungere, sms, email, whatsapp, post sui social. Il tratto comune, il nucleo generativo di questa narrativa «nerista», mi pare risieda nell’ambizione di gettare luce su abissi: abissi di irresponsabilità, di vacuità, di cinismo, di ferocia, di arbitrio, di insensatezza. Se ci riesca, o meglio quanto ci riesca, non è facile a dirsi. Dal punto di vista compositivo, mi pare che un punto decisivo consista nell’equilibrio tra quattro elementi: a) la prossimità cronistica agli eventi, b) la cura della registrazione dei dettagli, c) la misura della narrazione, d) la varietà delle forme discorsive mobilitate. Purtroppo, o meglio per fortuna, non è questa materia in cui si possano escogitare algoritmi validi in generale. Qui, a lettura conclusa, si ha in entrambi i casi l’impressione che qualcosa non torni del tutto. E verrebbe da citare l’aurea massima dell’architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe – Less is more – se nel frattempo non fosse diventata un motto delle esperte di bon ton.    

 

Certo, quella che Falco e Lagioia raccontano è l’Italia peggiore. L’Italia dei figli inetti e incattiviti, nell’animo dei quali il miraggio di uno scintillante quanto precario benessere ha distillato una frustrazione rabbiosa e senza scrupoli, una forma (inedita?) di edonismo criminale. Che sullo sfondo ci siano due delle città d’arte più celebrate del mondo, come Venezia e Roma, aggiunge non poca amarezza: di quanta eredità non siamo più degni? In Flashover, l’ecpirosi non pare il preludio di palingenesi alcuna. Rifatto giusta gli auspici, «com’era, dov’era», il nuovo Teatro della Fenice è escluso dalla rappresentazione, nessuna nota torna a risonare in Campo San Fantin: Flashover è un libro visivo, crepitante e silenzioso. Nella Città dei vivi – dove invece si parla e sparla senza posa – la metabolizzazione del turpe fatto di cronaca non ha alcun valore catartico, se non forse per l’autore-narratore-comprimario che al termine di un tortuoso percorso ha riscoperto la sua città d’adozione (ma allora avrebbe dovuto ritagliarsi un ruolo di maggior peso). Così Roma rimane identica a sé stessa, fangosa palude di saggezza e cinismo, dove può succedere davvero di tutto. Perfino di sopravvivere.   

 

Giorgio Falco, Flashover. Incendio a Venezia (Einaudi, pp. 192, € 19) 

Nicola Lagioia, La città dei vivi (Einaudi, pp. 466, € 22)

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