Storia d'Italia attraverso i sentimenti (19) / Il barachin
Ecco il “barachin”. Un mondo. Storia e vita. Il sentire di uomini e donne accumulato nel suo spazio angusto. Ora ricordi che vanno evaporando.
“Barachin” è parola piemontese, dall’andatura lieve, quasi infantile, contrariamente al corrispettivo italiano “gavetta”, dal suono più impettito, intriso di memoria militare. È il contenitore di latta per conservare il cibo cucinato. Roba d’altri tempi. Altri costumi.
Nella sua forma più rudimentale, lo usavano le nostre truppe per i propri miseri pasti, la “sbobba”, sempre uguale a se stessa (farina, acqua, una traccia d’olio, e tre patate secondo regolamento, bucce comprese). Nelle trincee della prima guerra mondiale, la “sbobba” era insaporita dal fango e dalla paura, gli occhi rivolti al nemico imbucato a pochi passi.
Tre decenni dopo, il tempo di un’epoca, lungo la scia nera di un’altra guerra appena conclusa, il vecchio “barachin” torna sulla scena rielaborato e corretto. Nuova vita. Quasi un lusso rispetto alla versione bellica: articolato su due piani, sopra la pasta o la minestra, sotto la carne con un po' di verdura. Nel “barachin” tutto stava al suo posto. Era un piccolo auspicio per l’Italia del dopoguerra, che, proiettandosi oltre il generale dissesto, anelava all’ordine.
Nel Nord industriale l’Italia aveva ricominciato a mangiare. Tre volte al giorno. Ma, nel resto del paese, la quotidiana contesa con la fame era ancora drammaticamente in atto. Gli operai meridionali catapultati nelle fabbriche di Torino o di Milano, ignoravano l’uso del “barachin”, e la sua principale virtù, che non era soltanto quella di sfamare il suo proprietario, ma di tenerlo legato alla casa e alla famiglia. Appena arrivati, gli operai meridionali si appartavano a tu per tu con una pagnotta dove avevano schiacciato un pomodoro o un peperone.
“Toccavo la miseria”, racconta Mario Gheddo, membro della commissione interna della Fiati Mirafiori alla fine degli anni Cinquanta. Gli capitava spesso di girare per i reparti. Gli piaceva mettersi dentro la vita della fabbrica, sentirne le pulsazioni. Una strana memoria quella di Mario Gheddo, fortemente partecipe, eppure consapevole della distanza che lo separa dal mondo che è stato suo. Nessuna nostalgia, ma un velo d’ironia. E con questo soffio d’ironia Mario Gheddo rievoca i grandi bidoni di pasta e fagioli elargita ogni giorno dalla Fiat. “Buona, bella grassa”, ma “ogni giorno pasta e fagioli”! Le “signore” s’incaricavano di versarla con un imbuto nei “barachin” in fremente attesa.
Il “barachin” fa dunque il suo ingresso in fabbrica, cuore del nuovo mondo. Sarà utilizzato dagli operai Fiat, e non soltanto, prima dell’avvento delle mense aziendali nel corso degli anni settanta. Passaggio rilevante: nel “barachin” primeggiava la libera scelta, secondo disponibilità, mentre le mense promuoveranno, inevitabilmente, l’omologazione dei consumi alimentari. Il pasto diventa una liturgia di massa. Trionfo del surgelato, almeno inizialmente, poi prevarranno le richieste operaie, e, finalmente, si passerà al cibo fresco.
Ma torniamo al culto del “barachin”. A inizio turno, venivano messi in grandi vasche di acqua calda, e ritirati all’ora del pasto. Poi venivano aperti lentamente come una scatola con dentro una sorpresa. E, una volta aperto, Il “barachin” sprigionava odori fugaci, ma penetranti, capaci di bucare, almeno provvisoriamente, la patina metallica che in fabbrica copriva tutto come un mantello soffocante.
Fragranze di casa, o di campagna (una buona parte degli operai torinesi veniva dalle campagne), schegge di sapori forti, peperoni, aglio, cipolla, gli aromi indocili del Sud, effluvi di nostalgia. Così l’olfatto degli italiani si trova ad allargare i suoi orizzonti, si amplia la geografia dei sensi. Lo racconta Gianfranco Zabaldone dal 1969 impiegato nei Laboratori centrali di Mirafiori. “Ho scoperto un mondo di cibi e aromi che non conoscevo”, “non avevo mai visto le olive”… Le portava un operaio siciliano, ogni giorno un sacchetto, per offrirle a tutti: olive nere o verdi, al forno o condite.
Attraverso il “barachin” passa una stagione del lavoro operaio. Nelle sue esili pareti di latta risuonano i battiti di migliaia di vite approdate alla fabbrica tra gli anni cinquanta e i primi settanta, con molte speranze e altrettante delusioni, il vagheggiato riscatto sociale declassato, per i più, a esercizio di sopravvivenza. Sogni e frustrazioni, fumi della mente e del cuore, tutto stipato in quel fragile recipiente di latta e nel poco tempo del suo uso, un momento d’interruzione e di sosta, di furtiva convivialità, in una giornata lavorativa sfiancante. Scivolava qualche parola, poche briciole, fra un boccone e l’altro, affiorava un sorriso d’intesa o di solidarietà. A mezza voce, si sfogavano i dissapori con il capo-reparto, o si mugugnava lo scarso salario. Prove di vicinanza, assillate dall’orologio. Il tempo era misurato; il lavoro imbrigliava ogni gesto di vita. A Mirafiori la prima sirena suonava alle 12.05, una liberazione; ma, alle 12.25, implacabile, cadeva la mannaia della seconda sirena, 5 minuti per chiudere la pausa, e rientrare alle linee di montaggio.
Questo nelle grandi fabbriche, nelle piccole un’altra storia: niente pausa, e neppure il giorno di festa. E nessuna pausa pranzo, gli operai mangiavano di nascosto, talvolta chiusi al gabinetto. Elio Zanoni, entrato da ragazzo in una vetreria che lavorava per la Fiat, ricorda gli orari selvaggi: dieci ore dal lunedì al venerdì, 9 ore il sabato, quattro la domenica.
Il “barachin” consentiva comunque di riprendere fiato. E, mangiando gli uni accanto agli altri, gli operai piemontesi, per la prima volta, s’incontravano con i “napoli”, erodendo poco a poco il muro della diffidenza. Sui tavoli dei refettori i muri crollavano, e fatalmente le esistenze si avvicinavano. Con generoso slancio i “barachin” volavano al di sopra dei tavoli dei refettori per scambiarsi il cibo: olive, ed altro.
Mi piace pensare che proprio attorno al “barachin” gli operai abbiano cominciato a sentirsi prima gruppo, poi classe, masticando, insieme al cibo, l’antagonismo sociale che si manifesterà anni dopo, quando il “barachin” sarà solo un ricordo. Allora il brontolio si scioglierà in uno schianto di rabbia. Ed è un’altra storia. Controversa, drammatica.
Il “barachin”, quieto punto d’incrocio di esistenze, sta prima, nella preistoria della fabbrica. E oggi appare quasi imprendibile. Irreale.
Fonti:
Testimonianze di Mario Gheddo, Elio Zanoni, Gianfranco Zabaldano, Salvatore Lodato, Bruno Pesce, in “Gastronomie operaie”.
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