Da Pasteur a Latour / La guerra dei microbi
Chi si appresterà fra qualche tempo a tradurre in storia le cronache convulse di questi mesi pandemici farebbe bene a leggersi I microbi: guerra e pace di Bruno Latour (1984, Editori Riuniti, 1991). Come il generale russo Kutuzov in Guerra e pace di Tolstoj, anche il ‘generale’ Pasteur passa di vittoria in vittoria, fino a promuovere l’avvento, negli ultimi decenni dell’Ottocento, della batteriologia e la diffusione della vaccinazione. Il suo trionfo, nella scienza e nella società, non si deve (sol)tanto alla genialità dello scienziato, ma anche alla capacità di tessere una complessa rete di alleanze e di truppe pronte a sostenere le sue battaglie. Per vincere l’avversione di buona parte dei colleghi nei confronti della spiegazione delle malattie infettive e dell’ipotesi, ritenuta assurda, che potessero essere prevenute attraverso un’inoculazione della malattia stessa, Pasteur deve costruire il suo fatto scientifico ottenendo il supporto di veterinari, igienisti e allevatori, nonché degli stessi batteri.
La carriera di Pasteur è segnata da continui spostamenti, da variazioni nei campi d’indagine, dove ogni volta il chimico e biologo fa tesoro delle acquisizioni precedenti. I suoi primi studi sono stati dedicati alla cristallografia: esaminando il sale dell’acido tartarico, scopre che esso forma due tipologie di cristallo in cui la luce polarizzata ruota in modo specularmente differente. Le strutture cristalline sono enantiomorfe, e tale scoperta della chiralità della materia lo conduce a riconoscere quella asimmetria della vita che tanto doveva attrarre Primo Levi. Pasteur compie in seguito un passo laterale verso problemi di maggior impatto economico-sociale, come la produzione industriale della birra, dell’aceto e del vino. Nel 1854 si occupa dei metodi per l’annientamento dei batteri responsabili delle alterazioni delle bevande alcoliche durante la fermentazione; scopre che le loro malattie sono correlate alla presenza di vegetazioni microscopiche, trasportate dalla polvere nell’aria, che contaminano le materie prime. Per impedire lo sviluppo dei parassiti, Pasteur utilizza il calore come mezzo di preservazione; portando la birra a una temperatura tra 50 e 60 gradi, non si preserva solo la bevanda, si dà anche un contributo fondamentale al conflitto che opponeva la produzione francese a quella tedesca, nei decenni che preparano l’altra guerra, quella cruenta, che scoppierà nel 1870. Così fin dall’inizio degli anni Sessanta, Pasteur assurge al ruolo di gloria nazionale, è ammesso all’Accademia delle Scienze, viene presentato all’Imperatore Napoleone III.
Nel dicembre del 1858 Félix Pouchet, direttore del Museo di Storia naturale di Rouen, presenta ai membri dell’Accademia delle Scienze di Parigi un esperimento che gli appare decisivo. In una provetta ermeticamente sigillata, capovolta in una scodella di mercurio, vengono introdotti ossigeno puro e una piccola quantità di fieno, tenuto per mezz’ora in forno a temperatura elevata. Nella provetta, aperta dopo alcuni giorni, appare un piccolo fungo: escluso che possa essere cresciuto a partire da germi atmosferici, Pouchet giunge alla conclusione che i microorganismi siano comparsi per generazione spontanea da altre specie. Si apre un caso esemplare di controversia scientifica, su cui Latour si è soffermato in “Pasteur e Pouchet: eterogenesi della storia delle scienze” (in Élements d’Histoire des sciences, a cura di Michel Serres, Bordas, 1989). Alla Sorbona, nell’aprile del 1864, Pasteur mostra, nel corso di una affollata conferenza, l’agitarsi di polveri in un fascio luminoso, germi di esseri microscopici; Pouchet, dice, ha cercato di eliminarli nei suoi esperimenti, ma ha tolto solo quelli presenti nell’acqua e nell’aria, non quelli sulla superficie del mercurio. Se in un vaso attraverso un alambicco pongo un’infusione di materia organica, nel giro di un giorno conterrà degli animaletti, non per generazione spontanea, ma perché vi si depositano i germi in sospensione nell’aria. Basta che l’alambicco venga ritorto, che il suo collo di cigno si faccia sinuoso, per impedire ai microbi dell’aria di depositarsi: e il liquido del vaso rimane limpido. La controversia si chiude, Pasteur conserverà stima per il suo avversario, sperimentatore meticoloso; lo ha sconfitto perché ha saputo padroneggiare gli spostamenti degli animaletti, ma anche perché ha tessuto reti in cui i fenomeni della natura si sono sempre più intrecciati alle questioni sociali.
La via regia per penetrare nelle scienze, suggerisce Latour, è costituita proprio dalle controversie, di cui è possibile costruire una “storia naturale” tanto più interessante quanto più deborda dai forum ufficiali – stampa specializzata e gruppi di esperti – fino a coinvolgere parlamenti, tribunali, e l’opinione pubblica percorsa da contrasti ideologici e politici. È la storia di oggi, in forme più tragiche e conflittuali rispetto a quanto già era accaduto al tempo dei dibattiti sui modi di trasmissione dell’Aids, sulla mucca pazza o il dissesto ambientale.
È in questi casi che possiamo vedere “la scienza in azione”, come recita il titolo del libro di Latour (sottotitolo: Introduzione alla sociologia della scienza, 1987, edizione di Comunità, 1998): le polemiche non si sono ancora chiuse, le ipotesi in conflitto non hanno trovato soluzione, gli “esperti” non ci consegnano verità accreditate, al più congetture, talora azzardate, che attendono ancora controlli sperimentali. E spesso si fatica a distinguere la voce dello scienziato, a cui sarebbe richiesto un doveroso controllo delle proprie affermazioni (in direzione opposta alle esigenze dello spettacolo mediatico), dalle voci di amministratori e funzionari pubblici, o dagli sproloqui di politici rissosi.
Molte domande restano sospese: qual è l’origine del virus, naturale o umana? C’è stato un salto di specie (spillover)? Come si diffonde e quali precauzioni per ridurne la propagazione? Gli asintomatici diffondono il virus? Stiamo assistendo a una riduzione della virulenza del covid 19? In attesa che sperimentazioni ritenute determinanti riescano almeno a confutare alcune delle ipotesi sul terreno, che sentenze giuridiche o decisioni politiche (ma sono sempre possibili procedure d’appello) tronchino i contrasti, le controversie restano aperte e spesso a chiudere la diatriba non bastano storici indipendenti dalle parti in conflitto.
Le versioni ufficiali dello sviluppo scientifico affermano che la verità sia emersa dall’errore, sia una “storia-scoperta”, segnata da un evento decisivo che ha posto fine per sempre alla partita. Ma invece di ammettere una coupure radicale fra chi era nella ragione e chi nel torto, Latour suggerisce di accogliere un principio di simmetria che protegga gli sconfitti davanti al tribunale della storia e non riconduca i loro errori a pregiudizi ideologici o a condizionamenti di varia natura. Nella disputa fra Pasteur e Pouchet, come sempre nelle problematiche scientifiche (pur con gradi diversi d’intensità), entrano in gioco componenti estranee alle pratiche di laboratorio. Da poco si era aperta un’altra controversia, quella sul trasformismo; il traduttore francese di L’origine delle specie di Charles Darwin, Clémence Royer, vi aveva aggiunto una prefazione a favore del materialismo e dei valori repubblicani. Nel riconoscere alla materia un’attitudine a generare organismi differenti, il sessantenne Pouchet è convinto di aver trovato l’alternativa all’ateismo latente nelle dottrine evoluzionistiche. Il trentottenne Pasteur, all’inizio della sua conferenza alla Sorbona, scarica abilmente sull’avversario le accuse di ateismo: la generazione spontanea attribuisce alla materia una capacità creativa che non richiede più il ricorso a Dio. Ci piacerebbe pensare che la soluzione della disputa dipenda esclusivamente dalle sentenze pronunciate dalle pratiche sperimentali (criterio su cui i contendenti concordano), vorremmo relegare le scelte ideali o la ricerca di alleati (la fede, il potere politico, ecc.) all’ambito extra-scientifico.
Ci sembra ininfluente che Pasteur scriva all’aiutante di campo dell’Imperatore per segnalare la rilevanza dei misteriosi fenomeni della batteriologia in merito alle malattie contagiose che colpivano i cittadini e i soldati francesi. Prestiamo scarso ascolto alle lettere indirizzate ai suoi collaboratori in cui Pouchet non fa che parlare dei complotti della scienza “ufficiale” contro di lui, provinciale di Rouen, escluso dagli intrighi della capitale; ed infatti finirà per rifiutare i pareri delle commissioni nominate dall’Accademia, dove siedono amici di Pasteur, per risolvere la controversia. Certo, le ricerche hanno bisogno di sovvenzioni, servono laboratori, ma siamo proprio sicuri che a decidere la vittoria siano solo i risultati sperimentali? Dal tempo di Pierre Duhèm sappiamo che le teorie sono sotto-determinate, cioè che l’evidenza disponibile è insufficiente per validare le nostre ipotesi; l’esperienza deve essere accompagnata da qualcosa d’altro per ottenere consenso, da convinzioni teoriche, da paradigmi fecondi, avrebbe detto Thomas Kuhn, se non da pre-giudizi, nel senso di Feyerabend. All’inizio della disputa Pouchet ha accumulato una serie di “fatti” empirici stringenti in suo favore, eppure Pasteur resta convinto, a priori, che nelle ricerche dell’avversario entrino sempre in gioco contaminazioni delle colture. Ma oltre a una teoria inventiva in grado di “forzare” i fatti, esistono anche condizionamenti esterni, influenze che si esercitano sul laboratorio e tutto quest’ambito che vorremmo extra-scientifico, suggerisce Latour, non si limita a definire l’accettazione di un argomento, interviene nella sua stessa origine, dà forma al terreno su cui avverrà la battaglia.
Tendiamo a una ricostruzione retrospettiva del passato a partire dalla fine, quando la disputa si è chiusa, ma l’analisi delle controversie ci mostra che non c’è, da un lato, una storia di uomini, culture, idee, e dall’altro oggetti astorici. Anche la storia della scienza deve costruire i suoi oggetti, anch’essi vengono formati nel corso della controversia, attraverso le reti eterogenee che li costituiscono, laboratori, gruppi di ricerca, relazioni con forze politico-economiche, interessi nazionali, ecc. La storia-costruzione proposta da Latour è la storia tout court, ma non riservata in esclusiva agli uomini; bisogna restituire l’agitazione, l’incertezza e la passione, cioè la storicità, alle cose stesse. Pasteur veniva da un dibattito con il più grande chimico dell’epoca, Justus Liebig, il quale, ritenendo che le trasformazioni della materia, anche organica, avessero cause chimiche, accusava Pasteur di essere un vitalista; gli animaletti che proliferavano nel vino o nella birra, non erano la causa delle fermentazioni, ma al più le conseguenze, gli inneschi o i catalizzatori. Pasteur nel fuoco della ricerca è nell’incertezza; il micro-organismo è un attore in via di definizione, come l’Impero, il laboratorio, la carriera dello scienziato che si forma mentre si costruisce il microbo: una “cosa” che deve essere capace di produrre le fermentazioni, contro Liebig, e di non apparire nelle colture ben ripulite, contro Pouchet. Il microbo si definisce come ogni altro attore, per quello che fa, per quello che fa fare; è la forma provvisoria di reti in cui sono in gioco altri attanti, umani e non-umani.
Quando nel 1979 Bruno Latour diede avvio alla sua antropologia simmetrica, rivolta ai saperi che diciamo efficaci quanto alle credenze che pretendiamo infondate, si recò con Steve Woolgar presso una particolare tribù del mondo occidentale: i neuroendocrinologi del Salk Laboratory di La Jolla, in California (Laboratory Life. The Construction of Scientific Facts, Sage Publications). La ricerca si rivolgeva alle pratiche quotidiane del laboratorio, secondo modalità analoghe a quelle utilizzate dagli etnografi sul campo, presso popolazioni lontane, con l’obiettivo di ricostruire protocolli e tecniche di misura, strumenti e miti, elementi che si mescolano agli oggetti studiati. Venivano così poste le basi della Actor-network theory, secondo cui ogni fatto sociale e ogni oggetto scientifico è il prodotto di un’intricata rete di relazioni e alleanze tra umani e non-umani. Gli scienziati tendono a presentare ex post il proprio lavoro come un percorso lineare di scoperta della natura, secondo l’immagine convenzionale trasmessa dai manuali, dove i saperi si presentano “pronti per l’uso”, “scatole nere” che possono venire utilizzate senza che se ne conoscano storia o contenuto. La tradizione classica dell’epistemologia assegna allo scienziato il ruolo ideale dell’osservatore puro e distaccato, del razionale costruttore di teorie rispondenti solo a criteri di coerenza logica e di validazione empirica. Continuiamo a credere che le verità della scienza si impongano da sé, in base all’autorità del metodo, in virtù delle “sensate esperienze” e delle “matematiche dimostrazioni” della diade galileiana, proprio perché purificate dalle indebite intrusioni del vissuto soggettivo, dall’invadenza dell’ideologia e del sociale.
E questo ci induce a credere che “i fatti parlino da soli”. Ma se prestiamo attenzione alla “scienza in azione”, al momento del suo farsi, nei laboratori ma anche nei numerosissimi passaggi di traduzione necessari per trasformare un evento sperimentale nel tassello di una conoscenza acquisita (risorse strumentali e finanziarie, credenze e reti di influenze, etc.), essa non appare più isolata dalle relazioni sociali, mostra al contrario una sapiente capacità di abitarle, trasformarle, percorrerle. Il fatto scientifico non è, nell’antropologia di Latour, un punto di partenza a cui appiccicare fattori ritenuti estranei, lo sfondo culturale o il contesto storico-sociale, ma è il risultato di una storia in cui si sono intrecciate senza distinzioni componenti umane e non umane.
È nel laboratorio, luogo sociale di elaborazione e costruzione del sapere, spazio di formazione in cui si aderisce a una tradizione che fornisce l’interpretazione dei ‘dati’, che si svela il segreto della scienza: la capacità di sfruttare sistemi che “rappresentano” gli elementi del mondo, così da poterli conservare e manipolare, per agire a distanza su di essi. L’odierna tecnoscienza non ha fatto che accrescere la capacità degli scienziati di lavorare con immagini e riproduzioni; le teorie sono mappe, rappresentazioni che rendono conto in via provvisoria dei fenomeni. E per proseguire le ricerche occorre elaborare strategie per mobilitare risorse, trovare aziende disposte a investire, escogitare tecniche retoriche di persuasione per pubblicizzare scoperte e invenzioni o per rendere credibili ricerche dagli esiti ancora incerti. Senza questo lavoro “impuro”, che si muove nell’incertezza, un fatto non viene accolto dalla comunità: ma un fatto non è all’inizio qualitativamente diverso da una finzione, solo nel corso del processo collettivo di discussione si sedimenta ed assume forza venendo incorporato nel patrimonio scientifico. Che una teoria corrisponda alla realtà non è questione che un metodo possa risolvere, sostiene Latour: se uno scettico volesse aprire la scatola nera delle scienze sarebbe rimandato a una catena che non ha al suo termine la natura, semmai il laboratorio, cioè iscrizioni, rappresentazioni visive, dispositivi di registrazione. Ed è lo scienziato a porsi come portavoce, interprete ufficiale di quanto è leggibile nei grafici e nelle tracce lasciate dall’esperimento.
I microbi si apre con la dedica “A chi ha attraversato il Passaggio a Nord-Ovest”, esplicito riferimento al quinto e ultimo volume della serie che Michel Serres dedicò ad Ermes, il dio degli incroci (1980, Pratiche, 1984). La metafora marinara che rievoca la ricerca del varco nel Nord del Canada fra l’Atlantico e il Pacifico stava a indicare l’esigenza di varcare il fossato fra natura e cultura, fra cultura scientifica e umanistica, fra noi e il mondo. Non ci sono da un lato la scienza e dall’altro la società: la scienza, sostiene Latour, persegue i suoi fini scientifici socialmente, le sue pratiche non sono che forme particolari di socialità, costruzioni di reti e di operazioni istituzionali. La scienza non scopre il mondo, lo costruisce: i suoi oggetti non sono dei “fatti” (“fatto” è pur sempre il participio passato del verbo “fare”), quanto dei “fattizi”, a ricordarci quanto di costruito, di artefatto si conserva in quel che lo scienziato produce. Questo non significa mettere scetticamente in discussione la validità della scienza, quanto invece accettare la sfida di provare a renderne conto in termini non garantiti preventivamente da “rotture epistemologiche” che la separerebbero, in forza di discutibili criteri di demarcazione, da altre forme di sapere.
Per gli oggetti naturali “lavorati” in laboratorio vale quel che emerge dalle analisi che Didi-Huberman ha condotto sulle fotografie a cui Jean-Martin Charcot faceva ricorso nella sua clinica alla Salpetrière: esse non ci mostrano la realtà del corpo isterico, quest’ultimo è stato messo in posa, è stato reso manipolabile grazie all’ipnosi, sottomesso alla volontà del medico/artista che ne controlla sintomi, dolori e guarigioni. Si comprende allora perché il filosofo francese dell’universo delle immagini abbia intitolato il suo libro L’invenzione dell’isteria (1982, Marietti, 2008): più che la rivelazione di una patologia, la cui stessa essenza è mascherarsi, le fotografie ci pongono di fronte a fattizi, costruzioni ibride, naturali e culturali a un tempo, come i microbi che Pasteur “fa essere”. Nella scienza anche le cose, i virus come le onde di gravità, sono degli attori; solo superando l’antica barriera fra umani, dotati di coscienza e intenzioni, e cose, obbedienti soltanto a determinazioni causali, possiamo cominciare a comprendere quanto insegnano le crisi ecologiche e sanitarie del nostro tempo, dall’effetto serra alla recente pandemia.